Cina

Buddha Mountain, Li Yu 2010

Buddha Mountain (Guan yin shan)
di Li Yu, 2010

Tre spiantati amici per la pelle tirano a campare nella provincia del Sichuan, qualche tempo dopo il terremoto che ha colpito la regione nel 2008: la prima canta in un locale e finisce nei guai dopo aver ferito accidentalmente un cliente; il secondo è simpatico ma in sovrappeso e viene puntualmente vessato e derubato dai coetanei; il terzo fa consegne a domicilio illegali e deve affrontare l’incombente matrimonio del padre vedovo. A causa della demolizione della casa che condividono, trovano alloggio nell’appartamento di una cantante d’Opera di Pechino di mezza età, rimasta sola dopo la morte del figlio in un incidente stradale. Il ritorno alla regia della regista cinese Li Yu dopo l’acclamato e discusso Lost in Beijing, ancora una volta con una piccola produzione indipendente, è un dramma intimo e delicato che riesce a raccontare le sue storie con sensibilità e impagabile leggerezza pur sullo sfondo di un evento che ha cambiato radicalmente la faccia della regione: e se l’impatto si riflette profondamente nelle vicende, Li Yu sceglie di non spiegare troppo a fondo le correlazioni, delegando semmai le immagini a comunicare quei sentimenti che i personaggi non riescono più ad esprimere. Visivamente semplicissimo eppure sorprendente, non sempre travolgente ma a tratti folgorante, Buddha Mountain si avvale della commovente prova della veterana Sylvia Chang, anche se è la bellissima Fan Bingbing (premiata a Tokyo, insieme alla regista) a rubare la scena a tutti: davvero formidabile.

Il film è stato presentato nel corso del 2011 in moltissimi festival in tutto il mondo, tra cui il Far East Film di Udine e l’Asian Film Festival di Reggio Emilia.

Il dvd è disponibile nell’edizione di Hong Kong: purtroppo è Regione 3.

Detective Dee and the Mystery of the Phantom Flame, Tsui Hark 2010

Detective Dee and the Mystery of the Phantom Flame (Di Renjie)
di Tsui Hark, 2010

Tra le figure più importanti della new wave, Tsui Hark è stato un produttore leggendario e il regista di alcuni dei film più belli e importanti del cinema hongkonghese (A Better Tomorrow 3, Once upon a time in China e The Blade sono i must assoluti della sua ampia filmografia) ma anche il responsabile di una breve e spesso vituperata “fase americana” di cui Double Team rappresenta il punto più basso. Il suo ritorno a Hong Kong, più veloce di quello dell’ex sodale John Woo, ha dovuto senza dubbio tenere conto di questa caduta, ma anche della modifica radicale del sistema produttivo, dovuta tra le altre cose all’annessione e alla raggiunta notorietà globale dei suoi autori. In tal senso, l’episodio più felice del decennio scorso fu Seven Swords, non del tutto riuscito anche se robusto e interessante; ma Tsui con Detective Dee mette da parte molte delle ambizioni epico-storiche di quel film e si butta in un divertente pastiche che si rifà a una tradizione di puro intrattenimento, davvero radicata nel cuore più autentico del cinema di Hong Kong: una detective story in costume che mescola le coreografie spettacolari di Sammo Hung a toni da scanzonata commedia fantasy-horror vecchio stile, virando qualche volta in farsa ma senza mai sfociare nel ridicolo, con un uso sfacciato della CGI che non centra sempre il bersaglio ma che infastidisce meno del previsto. E se forse Detective Dee non è memorabile quanto il carisma dei suoi protagonisti avrebbe potuto far sperare (Andy Lau è sempre Andy Lau, Li Bingbing è splendida, il ritorno di Carina Lau è la ciliegina sulla torta), è davvero godibile, fresco e vitale: un buon segno – inaspettato – per la carriera del regista, e per estensione anche per il cinema dell’ex colonia.

L’edizione dvd cinese è priva di limiti regionali. In alternativa ci sono le edizioni R3 malese e hongkonghese, quest’ultima anche in blu-ray RegioneA: si trovano tutte facilmente su YesAsia.

Reign of Assassins, Su Chao-Bin e John Woo 2010

Reign of Assassins (Jianyu)
di
Su Chao-Bin e John Woo, 2010

È facile entusiasmarsi all’idea che John Woo abbia diretto finalmente un wuxiapian a quasi un quarto di secolo dalla rivoluzione neo-noir di A Better Tomorrow, soprattutto dopo Red Cliff, prima di cui si tendeva più che altro a dare per spacciata la carriera di uno dei più grandi e importanti registi dell’area cinese. In realtà la vicenda è andata in modo diverso: il film è effettivamente stato scritto e diretto dal taiwanese Su Chao-Bin, ma la consulenza del Maestro sul set è stata tale e talmente continuativa da convincere la produzione ad apporre anche il suo sigillo accanto a quello del regista. L’altra interpretazione è che la mossa sia stata effettuata per vendere meglio il film all’estero: e non c’è dubbio che abbia funzionato, visto la proiezione del film a Venezia e lo stesso incipit di questo post.

Se non sorprende che Woo si sia interessato a un film in cui le marce narrative sono ingranate da personaggi che si rifanno i connotati con tale leggerezza, rimandando immediatamente i fan ai fasti di Face-Off, tolta questa curiosa considerazione autoriflessiva (e magari l’uso delle dissolvenze incrociate, per i più nostalgici) Reign of Assassins è un wuxia davvero divertente e appassionante che riesce a vivere benissimo al di là del marchio apposto o della distinzione di meriti tra il veterano autore e l’allievo alla sua opera terza. Un film che riesce a unire con sapienza sequenze d’azione assolutamente spettacolari ed esaltanti (più per gli amanti del “cavo” che per quelli delle arti marziali “pesanti”) a un racconto che gioca molto sull’ironia e sul romanticismo ma senza buttarla mai nella farsa né sbracandosi nel melò, riuscendo grazie al carisma del cast a costruire anche dei personaggi credibili al di là dell’incredibilità del racconto – in particolare Turqoise, l’assassina ninfomane intepretata dalla stupenda Barbie Hsu, diventata immediatamente uno dei miei personaggi preferiti del cinema di quest’anno.

Da qualche parte se ne dice male, da altre parti si legge che Reign of Assassins sarebbe “il miglior wuxia dai tempi de La Tigre e il Dragone“. Il netto sospetto, ovviamente, è che chi lo scrive non abbia visto altri film di questo genere in questi 10 anni, e io stesso non credo di averne visti abbastanza per giungere a una conclusione così radicale, ma senza dubbio il film di Su e Woo è un’opera valida, che non aggiunge niente alla storia del genere (a parte il movente del villain, che si scopre verso la fine del film, che mi ha sorpreso molto, e che se ve lo raccontassi in due parole rischierebbe di passare per la cazzata del secolo) ma che si inserisce con dignità e con freschezza in uno dei filoni più leggendari del cinema cinese e hongkonghese, senza sfigurare.

Fate molta attenzione ai (bellissimi) titoli di testa animati: raccontano più di quanto non sembri.

L’edizione dvd hongkonghese del film è già in commercio: purtroppo è Regione 3, ma sono sicuro che siete perfettamente in grado di dezonare il vostro lettore.

Su Yesasia trovate anche il blu-ray Regione A.

Non mi risulta prevista un’uscita italiana. Chi sa, parli.

City of life and death, Chuan Lu 2009

City of life and death (Nanjing! Nanjing!)
di Chuan Lu, 2009

Nel dicembre del 1937, durante la seconda guerra sino-giapponese, l’esercito giapponese conquista la capitale della Repubblica Cinese. Durante le settimane successive, conosciute come “il massacro di Nanchino”, decine di migliaia di donne verranno stuprate e centinaia di migliaia di civili verranno uccisi; altre decine di migliaia troveranno invece rifugio all’interno di una temporanea “zona di sicurezza” istituita dall’uomo d’affari nazista John Rabe.

Questo breve e drammatico periodo, poco presente sui nostri libri di storia occidentali così come l’intero conflitto, viene narrato da Chuan Lu attraverso i punti di vista di alcuni personaggi, in particolare due assistenti di Rabe e, soprattutto, un soldato giapponese: il sergente Kadokawa. La scelta di guardare agli orrori perpetrati dell’esercito nipponico a Nanchino attraverso gli occhi di un loro soldato, con il quale il film stabilisce un rapporto di simpatia (chiedendo altrettanto al pubblico) ha causato qualche guaio al regista, ma è uno dei punti di forza del film: pur all’interno di una prospettiva storica tutto sommato consona al nazionalismo cinese, il film si libera con questo artificio dal manicheismo che avrebbe potuto soffocarlo. Diventando uno dei più strazianti e dolorosi affreschi di morte del cinema recente, uno squarcio violento e sulla Storia e sugli orrori della guerra che funziona sia come ricostruzione dell’evento (con alcune scene di massa che fanno venire i brividi solo a ripensarci) che come racconto del percorso di sopravvivenza, eroismo, lutto, dei suoi personaggi. Con uno sguardo sull’abisso totale dell’uomo che è insieme compassionevole e spietato, sconvolto e disilluso, ma in definitiva profondamente umano. Non era facile.

E poi, City of Life and Death è anche un film visivamente eccezionale, fotografato in un abbagliante bianco e nero e diretto con il necessario ma naturale sforzo di non sbilanciarsi in vantaggio del mero gusto compositivo – tenendosi saldo anzi a un rigore impeccabile e assolutamente maturo. Un grandissimo film.

In UK il film è già disponibile in DVD e in Blu-ray. Un consiglio: guardatelo in Blu-ray.

Approfondimento: scoprire che fine ha fatto John Rabe dopo il ritorno a Berlino.

Far East Film Festival 11 – Udine 2009

[Far East Film Festival 11]

Dunque, sì, sono stato a Udine gli ultimi due giorni e mezzo, ho visto (solo) 10 film dei quali tra l’altro 2 erano re-visioni, ho scritto a riguardo alcuni brevi e raffazzonati commenti su Twitter, e a questo punto, evitando considerazioni generali su un festival che è comunque, dio lo benedica, il migliore a cui partecipare nel nostro paese senza lasciarci lo stipendio di due mesi e/o buona parte del proprio equilibrio psicofisico, è il caso di fare un breve riepilogo sui film visti.

Cina

Probabilmente, la cosa più bella che mi sia capitata in questo FEFF è Cao Baoping. Il suo Trouble makers, la cui proiezione udinese era stata bloccata qualche anno fa, è una commedia incredibilmente feroce sulla corruzione della provincia, che, viste le strettissime maglie, mi stupisce sia riuscita finalmente ad arrivare a noi. Meno male, comunque: nonostante fosse l’ultimo film della rassegna (leggi: stanchezza micidiale) è un film che mi sarebbe dispiaciuto perdere, e che spero che prima o poi, mettiamola così, "si renda recuperabile".

Ma non solo: il nuovo film di Cao si intitola The equation of love and death ed più che un bel film, e molto più che "un film che non sembra cinese": è il segnale di una vitalità e di uno stile originale che in Cina non si vedeva da anni. Un film assolutamente nuovo, teso e coinvolgente eppure semplicissimo, e con una stupenda Xun Zhou.

Invece The story of the closetool di Xu Buming è un film molto più riconoscibile: quello che colpisce è la bizzarria della sua trama (il rapporto quasi ossessivo-amoroso tra una ragazza e il gabinetto che si fa costruire nel cortile) che nasconde una riflessione molto trasparente sul progresso impossibile nella Cina di oggi.



Giappone

L’Audience Award se l’è portato a casa, come da copione, il giapponese Departures. Che però non ho visto. Ho visto invece Love exposure di Sion Sono, che era con tutta probabilità il film migliore del festival: l’unico a cui ho mollato un cinque nel famoso "cartoncino" con cui si vota a Udine, l’unico con cui oserei usare la Parolona Che Inizia Con La Ci. Ovviamente, non è per tutti: stateci voi quasi quattro ore a farvi bersagliare da un film che inizia come un romanzo di formazione di un giovane diviso tra daddy issues e crisi mistiche per poi diventare una commedia demenziale perversa, una love story commovente, un pamphlet satirico surrealista, e un sacco ma un sacco di di altre cose. Io ci sono stato, e ne è valsa la pena: stupendo.

Anche se tutti erano lì per Yatterman di Takashi Miike, che immagino sia l’unico film per cui state leggendo questo post. Volete sapere com’è? Molto dipende da quello che vi aspettate. Più o meno. Volete una versione fedelissima dell’anime originale? Lo è, ripetizioni comprese. Volete un film profondamente miikiano? Lo è, perversioni comprese. A me, non essendo io un grande fan dell’originale, di questo film decisamente squilibrato e non del tutto riuscito, è piaciuto più quest’ultimo aspetto: Miike riesce a tirare fuori il suo stile (avete presente quei momenti in cui tutto ma proprio tutto si ferma e anche le situazioni più triviali e deficienti diventano come per magia profonde e commoventi?) e le sue ossessioni (per esempio una specie di pazzesca versione cartoonesca del finale di Gozu, ma basterebbe il look di Kyôko Fukada, AKA Lady Doronjo) e la sua capacità visionaria (il film è molto molto bello da vedere, per chi se lo chiedesse, quasi di più nelle parti statiche che in quelle d’azione) persino in un film così, che è progettualmente – e irresistibilmente – fatto di plastica.

Il terzo film giapponese visto è stato Climber’s High, da cui però sono fuggito dopo una quarantina di minuti perché mi faceva schifo, e – nonostante qualcuno del FEFF mi abbia sgridato – da più parti mi han detto che non mi son perso niente.

Corea del Sud e Honk Kong

Due i film che sono andato a rivedere nonostante avessi già dato: l’occasione dello schermone del Teatro Nuovo non è una cosa a cui si rinuncia facilmente. Uno è l’hongkonghese Ip Man, incredibile biopic di arti marziali di Wilson Yip – che in sala guadagna persino punti mostrando tutta la sua potenza e il suo fascino – e l’altro è il sudcoreano The good the bad the weird di Kim Ji-woon, che nonostante non abbia spezzato il cuore del pubblico di Udine continuo a trovare un gran bell’esempio di cinema di intrattenimento dalla produzione eccellente (oltre al fatto che, lo ripeto, c’è poca gente che sa girare come Kim) con un occhio ben aperto al mercato. Non è stupido e inconsistente come sembra, e come molti dicono.

Sempre dalla Corea del Sud arrivava la commedia Scandal makers, opera prima di Kang Hyoung-chul che ha fatto un macello al botteghino in patria, e che effettivamente contiene un sacco di cose che piacciono al pubblico coreano: bimbi che fanno le facce buffe, adulti che fanno le facce buffe, storie che starebbero benissimo in un qualunque film con Hugh Grant senza dover cambiare una virgola. Il film ha fatto impazzire anche il pubblico del FEFF, arrivando secondo. Tutto ciò la dice lunga sullo stato in cui versa la commedia sudcoreana, ma devo ammettere che il film fa molto ridere – e a un certo punto, diventa un po’ l’unica cosa di cui ci interessa. Quindi, bando ai passatismi, va bene così.

Deludente invece The accidental gangster, che prova un po’ tutte le strade più modaiole del cinema di Seoul: il film in costume misto con la commedia demenziale-cartoon che nella seconda parte, senza alcuna transizione, diventa una specie di serissimo e pallosissimo melò con le arti marziali – e un duello finale che è tra le cose più yeeuch che io abbia visto fare in un film coreano. Siamo seri, suvvia.

Red cliff 2, John Woo 2009

Red cliff 2
di John Woo, 2009

Da queste parti qualche mese fa si è già parlato di Red cliff, prima parte della saga che questo film conclude, e che arriverà probabilmente dalle nostre parti riassunta in un singolo film di due ore e mezza – nella speranza che almeno l’edizione DVD faccia fede alla versione integrale.

E potremmo questo post come un’appendice che conferma in tutto e per tutto l’impressione avuta dalla prima parte: ovvero, quella di un gran bel film epico, sorretto da una regia robustissima ma ricca di tocchi personali, e da un cast spaventoso in cui, come sempre, spicca l’interpretazione di Tony Leung. E anche l’idea alla base è la stessa: anche Red cliff 2 è un film di guerra in cui le battaglie occupano un ruolo del tutto marginale, almeno da un punto di vista temporale. Ancora di più in questa seconda parte, in cui l’attesa ed esplosiva "resa dei conti", anticipata con un "cliffhanger" dal finale della prima, arriva invece dopo due ore di tattiche belliche (particolarmente esaltante quella delle navi-spaventapasseri), attese e inganni, e tra l’altro in cui le arti marziali scompaiono quasi del tutto.

Dico di più, la seconda parte è forse migliore della prima: avendo avuto già la possibilità di studiare ampiamente i moltissimi personaggi, e ancora di più quest’ultimi quella di studiarsi tra di loro, Woo e i suoi co-sceneggiatori hanno qui una maggiore libertà, che porta al desiderio di aprire stupende parentesi come quella della storia "d’amore" tra Zhao Wei e Dong Dawei, di dedicarsi più spiccatamente alle motivazioni di Cao Cao (interpretato magnificamente da Zhang Fengyi), e di aumentare l’ironia e le divagazioni (soprattutto nella prima ora), ma senza rinunciare al gusto dell’epos puro.

E infine, all’apologia dello stoicismo vendicativo e sanguinario dei vecchi tempi si sostituisce una visione molto più malinconica, saggia anche se forse meno affascinante, per cui nella guerra "non c’è nessun vincitore". Se non, forse, il paesaggio della scena finale. La Terra che il fuoco ha risparmiato, e la cui erba verde, luminosa e patinata, non cresce che con l’umore dei cadaveri sotterrati nel suo ventre. Qualcosa del genere

Red cliff, John Woo 2008

Red cliff (Chi bi)
di John Woo, 2008

Aspettavamo da molti anni che John Woo, uno dei più noti e importanti (oltre che grandi) registi asiatici di sempre, tornasse a fare un film che non dico fosse all’altezza dei suoi capolavori, ma che avesse quantomeno una qualche rilevanza culturale o artistica – ed è difficile negare che, tornando in Cina per questo poderoso kolossal ambientato nel terzo secolo AD, negli anni in cui terminò la dinastia imperiale Han, l’abbia finalmente fatto.

E’ purtroppo però altrettanto difficile trarre delle conclusioni su questo film dopo la sua "prima metà". Red cliff è un progetto monumentale non solo dal punto di vista economico (con un budget di 80 milioni di dollari che ne fa il più dispendioso film asiatico della storia) ma anche per la sua durata. E’ diviso infatti in due parti da due ore e mezza, l’una (questa) uscita in tutta l’Asia nel Luglio 2008, e in Giappone a Novembre, e l’altra (Red cliff 2) in uscita in queste settimane, sempre solo sul mercato asiatico. In occidente, le due parti verranno "riassunte" in un’unica opera, lunga quasi esattamente la metà, per il ben più pigro mercato extra-asiatico.

E l’impressione è che molte cose cambieranno, da questa versione a quella asciugata per "noi": Red cliff è infatti un film epico e avventuroso in cui però le grandi battaglie e le arti marziali fanno parte di una frangia narrativa (ce ne sono soprattutto due, una in apertura e una verso la fine, quest’ultima davvero impressionante) in un film che per la sua gran parte presenta tattiche di guerra, attese, personaggi che si studiano, incontri e scontri psicologici – in una concezione del rapporto tra potenza e atto nel cinema d’azione che probabilmente annoierebbe un pubblico poco avvezzo ma che costituisce la vera anima di Red cliff, tutt’altro che un polpettone bellico in costume ma un affresco storico intelligente e molto complesso che richiede anche una buona dose d’attenzione per non perdersi nel marasma dei nomi dei luoghi e dei personaggi.

A fare la differenza è anche ovviamente lo stile fiammeggiante di John Woo, che gira in modo meno personale ed estremo di un tempo (e meno kitsch, nel bene e nel male, che nei suoi lavori statunitensi), ma che mostra di voler tornare a usare la macchina da presa con quella stessa leggiadria che contraddistingueva i suoi celebri eroici spargimenti di sangue. A ciò si aggiunge la padronanza delle arti marziali (l’action director è Corey Yuen) e un cast assolutamente spettacolare in cui spiccano ovviamente un riflessivo e sensuale Tony Leung, il solito bellissimo Takeshi Kaneshiro, e una delle mie attrici cinesi favorite di sempre: "Vicky" Zhao Wei.

Però, ci si ferma qui: ritmi e scelte narrative di un film che si conclude con un "to be continued" (così bastardo, aggiungo io) vanno affrontati, credo, con il senno della sua conclusione definitiva. Non c’è che dire, non si vede l’ora.

Se avete voglia o fretta di vederlo, e avete capito che l’edizione occidentale potrebbe essere una sonora delusione, è già disponibile su Yesasia la doppia release hongkonghese, senza nemmeno il problema delle regioni: l’edizione DVD costa una ventina di euro, quella Blu-ray una trentina.

CJ7 (Cheung Gong 7 hou)
di Stephen Chow, 2008

Inutile stare tanto a girarci intorno: CJ7 è probabilmente il meno bello dei film diretti dal grandissimo Stephen Chow dai tempi lontanissimi di Forbidden city cop. Non solo perché è il suo film meno divertente, o meglio l’unico in cui non ci si schianta a terra – e il perché è presto detto: Chow appare poco – ma anche perché Chow prende una parte del suo cinema che adoriamo (quella poetica che viene dritta dritta dai lecca lecca di Kung fu hustle e dalle lacrime salate di Shaolin soccer) e dimentica tutto il resto.

O meglio, ne dà degli accenni, dei contentini per completisti, e poi li tralascia: l’aspetto più grottesco e la dimensione cartoonesca del suo cinema, per esempio, vengono annacquati da una storiellina scritta su un post-it piena di bambini buffi e/o crudeli. Non parliamo comunque di un regista casuale, e non mancano infatti i momenti di stupore e di meraviglia, lo spettacolo dato da trovate registiche, fotografiche e scenografiche (settori curatissimi, fin troppo), inattese coerenze (adorabile il fatto che Chow, nonostante il successo e il fascino, continui a intepretare personaggi sommariamente antipatici o sgradevoli), buone trovate narrative (la lunghissima sequenza onirica che viene poi replicata) e persino istanti di autentico genio (come questo). Ma pensare di conquistare un pubblico globale (il film è uscito negli USA a Marzo, scontentando i più) che l’ha accolto per centinaia di altri motivi, facendo come massimo sforzo quello di sbattere sullo schermo un’irresistibile creaturina aliena, mezza cucciolo pucci e mezza slime, è davvero troppo instabile anche per noi fan. O forse è l’idea che Chow ha del pubblico globale: e come dargli torto?

Non si dimentica comunque che Chow rimane un genio comico assoluto, e che il pugno di film da lui diretti tra il 1996 e il 2004 sono tra le opere migliori prodotte dal cinema asiatico (e non solo) in questi anni. Sotto quest’ottica, questa divertente scematina gliela si perdona, più che volentieri.

Il film non ha ancora una data d’uscita italiana, ma vedrete che uscirà. Se avete fretta e volete comprarlo, su Yesasia costa 12 euro.

Contrariamente alla mia prima idea – ovvero che fosse un omaggio alla CJ Entertainment – il titolo del film si rifà alle ultime missioni spaziali cinesi, denominate appunto Shenzhou 5 e Shenzhou 6. La missione Shenzhou 7 partirà a Settembre.

Un bacio romantico (My blueberry nights)
di Wong Kar Wai, 2007

Che cosa faceva di My blueberry nights qualcosa di cui avere paura? In parte il fatto che 2046 ci aveva storditi, e non nel migliore dei modi possibili? Ancor di più, la paura di un’adulterazione dovuta all’espatrio (solo parziale: si tratta di una produzione franco-cinese) e all’uso della lingua inglese? Ebbene, di quei timori Wong Kar Wai fa carta straccia, facendo di Norah Jones (che è una rivelazione, a suo modo) quel che già fece della popstar Faye Wong dalle sue parti, e regalandoci un film che non è solo di palese e folgorante bellezza, ma che è anche un ammirevole esercizio di coerenza.

Il segreto di My blueberry nights è tutto in quella parola: nel suo non essere affatto una versione "occidentalizzata" delle sue opere hongkonghesi, ma l’esempio vivente e pulsante che il suo è ancora un cinema universale, a cui panorami e volti si adattano e di fronte a cui si chinano. Liberatosi dell’ingessatura che per un film forse troppo bello, troppo perfetto e inarrivabile, gli si era costruita attorno alle mani, Wong trova proprio nelle strade e nei panorami degli Stati Uniti, ma sopratutto nelle sue stanze chiuse e nei suoi volti e nelle voci, un modo brillante per sfuggire al rischio di uno svilimento, per eccesso di stilizzazione, del suo cinema – che proprio dello stile faceva la sua bandiera – e per tornare a raccontare la sua storia (aiutato con perizia dal crime novelist Lawrence Block), e le storie che le girano intorno, con una leggiadria che, soprattutto quando la Jones e Jude Law condividono lo schermo, non fa rimpiangere i tempi passati.

Comunque, questo è un film di Wong Kar Wai nel cuore, nella carne. Lo è ben oltre le bellissime immagini che l’eccellente Darius Khondji ha onestamente rubacchiato dalla palette di Christopher Doyle: ci sono i volti celati del passato, le reiterazioni musicali (Try a little tenderness) che assumono un significato differente ad ogni riproduzione, interi universi che stanno rinchiusi in una singola stanza (che sia un café di New York, un bar di Memphis, o un casinò del Nevada), lo stesso attaccamento quasi feticista agli oggetti (cappelli, chiavi, gettoni) che sconfina in quel romantico e bizzarro animismo che è tra le chiavi del suo cinema, l’ossessione malinconica e profonda e incancellabile per il ricordo, per il rimpianto.

E se anche il film non funziona tutto alla perfezione come quegli incredibili primi 15 minuti, se anche la parte con Natalie Portman è segnatamente meno riuscita di quella con David Straihairn e Rachel Weisz, poco male: My blueberry nights è un film che dà e che toglie – ma alla fine lo fa con grande, miracoloso equilibrio. Ci sarà sempre la struggente confessione di una nostalgia, ai bordi di una strada ricoperta di fiori, a far perdonare un urlo fuori posto o una piccola scivolata. E non pretendiamo che sia sempre Hong Kong Express: sarebbe impossibile, e forse non lo vorremmo nemmeno. Potevamo chiedere davvero poco di più a questa romantica storia d’amore – di un amore gustato e rimandato, che lascia sulle labbra – anche sulle nostre, di labbra – un sapore dolcissimo. Un sapore che persiste, e cresce nei giorni a seguire.

Un film inatteso, e bellissimo. E rimanete fino alla fine dei titoli di coda: c’è un pezzo che conoscete bene, e non vede l’ora di essere riascoltato.


Nelle sale dal 28 Marzo 2008

Lussuria (Lust, caution) (Se, jie)
di Ang Lee, 2007

Uno dei film più chiacchierati dell’anno passato, per motivi parzialmente legittimi – un Leone d’Oro forse un po’ azzardato – o meno, appunto, lo è stato soprattutto per le performance erotiche dei due protagonisti, tra cui la sensualissima ventottenne esordiente Tai Weng di cui siamo biblicamente innamorati, che hanno ben poco di simulato: le "scene di sesso" che li vedono protagonisti sono effettivamente clamorose, almeno per un film destinato – pur se "marchiato" NC-17 – a una distribuzione "wide" e quindi mainstream. Ma quello che si dimentica è che Ang Lee non è propriamente un provocatore: è prima di tutto un cineasta, e un cineasta intelligente.

Lussuria è infatti un film basato su questa continua tensione tra la seduzione e la copula, tra la potenza e l’atto, in cui questi pochi minuti di coito sono funzionali a una sorta di furibondo sfogo nei confronti di una regia che è volutamente e progettualmente "rigida", diciamo pure erettiva. Lo mostra benissimo già la splendida sequenza iniziale: una partita di Mahjongg che viene rappresentata con una impressionante cura del dettaglio in ogni singolo movimento di macchina o taglio di inquadratura. E il messaggio che passa è proprio questo, da questa sorta di ineluttabile coercizione visiva: questo film non ha assolutamente alcuna via di fuga.

Così come non ne hanno i protagonisti della vicenda, tratta da un libro di Eileen Chang, divisi tra l’impossibilità di rispondere al desiderio, tra il sospetto e la colpa, tra la redenzione e la sua assenza, in un film che sembra una sorta di remake di Notorius (anche se un poster che appare nel film dice Suspicion), dove Cary Grant è un giovane ribelle dalla cecità eunucoide e Claude Rains ha le fattezze spietate – ma a cui vengono regalati inattesi lampi di empatia – di Tony Leung, secondario ma sempre immenso per la sua indescrivibile capacità di recitare con tutto il volto e con tutto il corpo. Pure quando è vestito, si intende..

Davvero un bel film, comunque. E lo dico facendola suonare come un’evidenza. La questione che sia o meno un film "cinese" solo perché ambientato in Cina e perché parlano cinese non sembra porsi: non lo è, né dal punto di vista produttivo né da quello linguistico. Ma Ang Lee è riuscito a riunire due mondi distanti, con scaltrezza ma anche con onore, come pochi altri sono riusciti negli ultimi tempi. Confezionando un filmone, classico e piuttosto risaputo, ma realmente solidissimo, e di fronte al cui disperato pessimismo – già rivelato in altri suoi film precedenti – è difficile rimanere indifferenti.

The warlords (Tau ming chong)
di Peter Chan, 2007

Quando i cinesi mainland si trovano tra le mani una barca di soldi per soddisfare, almeno una volta l’anno, i bisogni di una nuova e sterminata massa di spettatori, e un mercato estero sempre più ricettivo, sono capaci di notevoli disastri: The promise ne fu un buon esempio, un paio di anni fa. The warlords, con un budget di 40 milioni di dollari (una cifra enorme, se contestualizzata, che ne fa il film più costoso della storia del cinema cinese) è la dimostrazione che anche il cinema di Pechino è ora capace di costruire dei poderosi blockbuster di qualità – senza scomodare capitali esteri o alleanze panasiatiche.

Certo, alla regia c’è Peter Chan, che non è l’ultimo dei cretini. E tra l’altro Chan corregge di parecchio il tiro rispetto al bellissimo (e criticatissimo, ahiloro) Perhaps love, suo ultimo commovente avvicendamento nel cinema "ricco" della Repubblica Popolare. Qui infatti la personalità del regista viene messa del tutto in secondo piano rispetto ad un racconto che, si capisce quasi subito, è costruito per essere il più possibile masticabile e consono a un gusto di massa – che assomiglia però sempre di più a un gusto globale che a quello di un pubblico come quello cinese. Niente pippe cromoterapiche, niente grandangoloni impazziti, niente svolazzi magici.

Questo potrà sembrare un male: ed effettivamente ha i suoi risvolti inquietanti. Perché se leviamo alcune suggestioni tipicamente locali, tra cui una ruvida brutalità che in occidente si sognano di rappresentare (la scena della decapitazione, i dettagli cruenti in battaglia) e soprattutto il gusto del melò che non togli anche se gli strappi via di mano con la forza i personaggi femminili (Chan ha dichiarato di aver rinunciato alle sue storie d’amore per ispirarsi piuttosto all’amicizia virile che fece grande il cinema di Hong Kong), con le sue scene di massa e la voce fuori campo (di Kaneshiro) e il suo ritmo pomposo e ineffabile, The warlords è un film che non ci saremmo sorpresi di vedere diretto da un regista "straniero", o (ancora di più) con ingenti investimenti americani. E sembra che questo sia il trend per il cinema cinese dei prossimi anni: fateci il callo.

Però, pur con tutte le aggravanti del caso, di fronte a cui non si può storcere un po’ il naso, soprattutto se si è degli snob fighetti come il sottoscritto, il film di Chan è anche un notevole e innegabile divertimento: neanche una lira è stata spesa a caso, è realizzato con grandissima cura, ci sono centinaia e centinaia di cavalli, le scene di battaglia fanno davvero impressione per complessità e precisione nella composizione, pur nel furore che le contraddistingue, e poi un terzetto di protagonisti come Jet Li (invecchiatissimo ma fascinoso e ambiguo), Andy Lau e Takeshi Kaneshiro (sempre e comunque l’uomo più bello di questo pianeta) possono bastare come ragione per sedervi in poltrona due ore a vedere questo piovosissimo e violento triangolo battagliero di amicizia, fedeltà, potere e morte. Insomma, non ci si strappa le vesti ma ci si diverte, e non poco. Chiamatelo pure guilty pleasure.

Xu Jinglei, l’unica donna del cast, intorno a cui ruotano i destini dei tre personaggi maschili, dotata di un carisma notevole e di una bellezza insieme semplice e altera, non è (ancora) molto conosciuta da noi, ma è una delle star più luminose della Cina contemporanea, un’affermatissima e raffinata regista, e pure una delle blogger più lette in Cina (il che equivale a dire, al mondo), e io l’ho pure conosciuta*, tiè.

*vabbè, "conosciuta" è dir troppo, ma insomma, ho passato un’intera mattinata al suo cospetto, avrò bene tutto il diritto di bullarmene.

Acquistabile su Yesasia (Doppio DVD HK regione 3).

The sun also rises (Tai yang zhao chang sheng qi)
di
Jiang Wen, 2007

Il film racconta le storie di una miriade di personaggi, divise in quattro parti ben distinte ma intrecciate tra loro. In un villaggio dell’Est nel 1976, una giovane vedova perde un paio di scarpe e impazzisce. Stesso anno, qualche mese prima, nella Cina del Sud, un professore viene accusato di molestie sessuali. Passato qualche tempo Tang, il migliore amico del professore, viene mandato per la "rieducazione" nel villaggio della prima parte, e si incontra con il figlio della vedova. La quarta e ultima parte è ambientata invece nel 1958, e ricongiunge in qualche modo i destini dei personaggi, mostrandone la genesi.

Bisogna arrivare fino alla fine per rendersi conto che l’obiettivo di Wen Jiang era di prenderci sottogamba: attratti com’eravamo da una struttura che sembrava inscatolata alla perfezione per poi espandersi in un finale rivelatore (o a sorpresa), il cinquantenne regista e attore (nel film interpreta Tang) ci colpisce con uno schiaffo sulla nuca. Non solo perché il (bellissimo) finale, invece che essere chiarificatore, è volutamente confusionario  e quasi "astratto", lasciando le vicende aperte a mille dubbi, rivelando alcuni intrecci e lasciandone altre parti completamente sprovviste, ma anche perché nel frattempo il film ha fatto il suo dovere alla perfezione, veicolando desideri e amicizia, amore passionale e familiare, con accenni ironici e malinconici alla rivoluzione culturale, quasi da sé e senza bisogno di troppi sforzi, con ammirevole naturalezza.

Certo, il film a volte prende pieghe insolite per i canoni del cinema cinese, e va ad assomigliare più a certo cinema europeo da esportazione, in voga qualche anno fa: un po’ nelle tentazioni di realismo magico della prima parte che ricordano suggestioni esteuropea, o le formidabili musiche del maestro Joe Hisaishi che assumono nella seconda parte toni quasi – mi si passi il termine – morriconiani. Ma sta di fatto che un film così sminuzzato non risulti mai sfilacciato è già un bel dire. A dare una mano e un senso al tutto c’è anche un favoloso cast, che fa ben più che il suo lavoro: davvero incredibili, per dire, la madre e il figlio della prima parte, che sono Zhou Yun (bellissima e sottotono, davvero una sfida visto il ruolo che le è toccato) e Jaycee Chan (sorprendente figlio di Jackie Chan), mentre i ben più esperti Anthony Wong e Joan Chen nel duetto dell’ospedale superano davvero loro stessi.

Anche se lo stupore più evidente di questo film strano e particolare, capace sicuramente di fare innamorare di sé, forse un po’ irrisolto ma irresistibilmente spudorato e comunque mai ruffiano, è dato dalla direzione della fotografia, affidata a tre celebri operatori (Lee Ping-Bin, Yang Tao, Zhao Fei) che lavorano sull’immagine e sulle luci in modo differente, regalando un film che è anche uno strabiliante florilegio visivo e a volte visionario (dalle intime inquadrature sui piedi di Zhou Yun dell’incipit al barocco del bambino nato tra i fiori sui binari di un treno), vero e proprio stato dell’arte della fotografia del cinema cinese. Buttala via.

Presentato in Concorso alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2007
Acquistabile su Yesasia a una decina di euro scarsi.

Still life (Sanxia haoren)
di Jia Zhang Ke, 2006

Riassunto delle puntate precedenti: alla Mostra di Venezia 2006 il film viene presentato a sorpresa, ma in Concorso. La maggior parte degli avventori del festival non vanno nemmeno a vederlo. Il film vince il Leone d’Oro. Segue la tradizionale proiezione supplementare, in questo caso strapiena. Io ci entro, sono in fondo alla sala, vedo un’oretta di film, ma undici giorni di festival mi hanno ridotto a uno straccio, non sono in grado di apprezzarlo né di capire granché, e così esco dalla sala.

La cosa che più lascia stupefatti di Still life è il modo in cui Jia è riuscito con coerenza a fondere i linguaggi narrativi e quelli del documentario. Anzi, meglio: che Jia si sia reso conto che l’unico modo per documentare quello che sta accadendo nel suo paese a causa della Diga delle Tre Gole fosse di tradurlo in narrazione, di trasformare il seppellimento della Civiltà, la lotta finale, terminale, tra il Progresso e la Storia in una ricerca frustrante, affannosa, e apparentemente disperata.

Con un lentezza programmatica che però difficilmente si trasforma in noia, una gestione dei dialoghi di impressionante asciuttezza (solo alla protagonista è concessa una voce rotta, e solo per un istante, il resto è brechtiano fino all’esasperazione), affascinato da visioni che spezzano il realismo creando improvvisi straniamenti alieni, Jia riscrive sui corpi dei personaggi – e sulle case segnate da improrogabili condanne di gesso  – l’incombenza dello Yangtze, quello stesso ritmo catatonico e ineluttabile con cui il nuovo fiume ricoprirà le città e la loro storia.

In questo mondo che viene demolito, appiattito, per divenire rovina atlantidea, si muovono due personaggi che sanno che quella, forse, è l’ultima speranza per mettere quelle due o tre cose a posto. Prima che l’acqua, vita e morte, invada tutto e tutto si divori. Davvero un bellissimo film: dispiace averlo recuperato, e riscoperto, così in ritardo.

Il matrimonio di Tuya (Tuya de hun shi)
di Wang Quanan, 2006

Nonostante i miei dubbi precedenti alla visione, il film vincitore dell’ultimo Orso d’Oro è stata una visione più che interessante: al terzo film, il regista cinese dimostra una dimestichezza inaspettata nel districarsi tra i registri diversi presi da una storia simile. Così, Tuya passa in un batter d’ali da straziante racconto di solitudine a buffo racconto gitano, da malinconico triangolo amoroso a (perché no, già che ci siamo, a sprazzi) affresco socioculturale. Il tutto dipinto con una notevole abilità scenografica (e fotografica) nello sfruttare la secchezza dei paesaggi della Mongolia.

Si tratta comunque di quelli che altri chiamerebbero "intrattenimento da festival", ovvero quei film che comuni spettatori vittime dell’horror vacui cercano spesso e volentieri di evitare, aiutati in questo compito dall’indolenza delle case distributrici. Lo è, effettivamente: ma in modo molto consapevole e non compiaciuto, intelligente e non intellettuale. E gli riesce qualche colpo davvero ben assestato: come il bellissimo montaggio parallelo in cui Bater tenta il suicidio mentre Tuya rifiuta il letto del suo promesso sposo.

La bambina persa nella neve fa cascare le braccia, e potevano evitarcela: ma la sequenza del carretto ribaltato è una delle più sorprendenti degli ultimi tempi, come bellissimo è il finale circolare e tronco al tempo stesso. Poi, lo so, si vede benissimo che non so che diavolo scrivere.

La città proibita (Curse of the golden flower) (Man cheng jin dai huang jin jia)
di Zhang Yimou, 2006

Terzo film di una sorta di "trilogia wuxia" prodotta da Zhang Yimou negli ultimi anni e stranamente – ma nemmeno poi tanto – distruibuita dappertutto con tromboni sonanti, è un film in cui la parte più propriamente legata all’avventura e all’arma bianca è estremamemente sacrificata rispetto a un prolungamento estremo del lato melodrammatico barra scespiriano delle vicende narrate.

Che non andrebbe nemmeno male: se Zhang sapesse gestire, non dico alla perfezione ma in qualunque modo, quest’ultimo. Non voglio lamentarmi a voce troppo alta perché il film non è un susseguirsi di violentissimi duelli al ralenti: dopotutto, non sono più un ragazzino. Però, magari, dico io. Invece La città proibita è un film in cui, per vedere una sequenza degna di interesse – quella dei ninja che attaccano la casa del farmacista, sequenza cazzutissima, ma mai quanto il farmacista – devi sorbirti un’ora di sbadigli, sbadiglioni, tende che salgono, tende che scendono, intrighi neri neri e fiorelloni gialli gialli, incesti mai consumati e fellatio mimate col ditino, imperatori che litigano, annunciatori che sbraitano, tende che salgono, tende che scendono, corridoi dorati, corridoi perlati, corridoi dai colori chupachups.

Qualche problemuccio sorge allora nella mia notoriamente limitata pazienza. Vero, la seconda parte del film ribalta tutto: niente più Chow Yun-fat bolsissimo che pontifica e che quando cammina fa il rumore di Santa Lucia, niente più Gong Li che si ferma e riflette e poi spacca qualcosa, oppure che si ferma e riflette e piange, oppure che si ferma e riflette e sta per piangere, non più maree di tette schiacciate in corpetti a distogliere la nostra attenzione dall’assoluto nostro disinteresse per tutto ciò che non ha un capezzolo: finalmente centinaia di morti ammazzati e massacri familiari a risvegliarci dal torpore delle due ore precedenti. Ma è troppo tardi.

Senza dubbio il più debole dei tre, a mio parere. Anche se è un film che può piacere da impazzire – sempre se si è disposti a confondere lo stile con il colore degli arazzi. Certo, se un film ti fa venir voglia di riprendere in mano Hero e ti convince che forse eravamo stati troppo ingentili con quel povero cristo, ecco, fate i vostri conti.

La guerra dei fiori rossi (Kan shang qu hen mei)
di Zhang Yuan, 2006


In queste ore pare che splinder abbia il suo solito ciclo mestruale. Quindi probabilmente non leggerete questo post. Ma se state leggendo queste righe, ecco, allora significa che state leggendo questo post.

Il nuovo film del regista Zhang Yuan, noto soprattutto per il Diciassette anni che fece incetta di premi minori a Venezia nel cinesissimo anno del Leone d’Oro a Non uno di meno, ci ha messo diverso tempo a trovare il suo posto nelle nostre sale. Passato a Berlino, ad Alba e addirittura al Sundance, nel suo paese coproduttore (ovvero il nostro) arriverà solo all’inizio del prossimo anno.

Ma l’attesa, pur non enorme, va detto, ma incuriosita – e c’è da aspettarsi una distribuzione sbriciolata ai minimi termini – non era nemmeno così meritata: Zhang Yuan confeziona un filmetto gentile, insignificante e noiosetto, che cerca di barcamenarsi tra una visione "critica" della società cinese, con un inno all’anarchia pura in contrasto con la militarizzazione (e castrazione) degli istinti primari infantili, e un ritratto pessimista ma troppo ambiguo di un destino di solitudine che attende proprio chi esce dai ranghi e scappa per imparare di nuovo a giocare.

Azzeccando magari qualche scena, ma sbilanciandosi troppo poco nel tentativo di fare uno Zero in condotta davvero fuori tempo. Ma al di là dei temi, che sono interessanti più sulla carta che sullo schermo, il problema principale di La guerra dei fiori rossi è il modo in cui vengono affrontati: perché insomma, vedere un gruppo di bambini che marcia in fila indiana nel cortile mentre accanto a loro si svolge una rigidissima esercitazione militare – seguìto dai bambini stessi che scherzano facendo il saluto e che "giocano alla guerra" – regala davvero un nuovo significato alla parola "didascalico".

Coprodotto dalla Downtown Pictures di Marco Müller, e l’intervento italiano è a volte diretto, per esempio nel montaggio di Jacopo Quadri (che fa il suo accademico lavoro senza troppe sbavature) e nelle musiche dell’ex-bellocchiano Carlo Crivelli. Sono proprio queste ultime forse a dare la mazzata finale ad un film già di per sè abbastanza malriuscito: invadenti e inutilmente pompose, ricercano un contrasto usando toni da commedia o da thriller, ma risultano soltanto note stonate.

Grandi speranze per la deliziosa Li Xiaofeng. Papà papà, mi compri quella cinese lì?

Nelle sale italiane dal 12 Gennaio 2007

[FEFF8]
Loach is Fish Too,

YANG Yazhou, 2005,
drama, European Premiere

Dovrei riconsiderare alcuni miei noti pregiudizi nei confronti del cinema della Cina continentale, dopo l’interessante Gimme Kudos e You and me (che ho perso, ma che è tra i più belli di quest’anno a detta di tutti), e soprattutto dopo Loach is fish too. Che a dispetto della provenienza e del tema trattato (la migrazione di massa dei contadini cinesi verso i centri abitati) a rischio sbadiglio e/o a rischio retorica, è davvero una sorpresa. All’inizio sembra un Kusturica meno beffardo (e senza ottoni), e poi diventa una curiosa storia d’amore, non priva di ironia e speranza, tra due persone con lo stesso nome ritrovatesi – per i giochi del caso, altro tema cardine – a condividere la stessa smania di sopravvivenza nella concitata Beijing di oggi. Una città nervosa e mobilissima come la regia di Yang, che mette in scena il film in modo secco e straordinario, con un incredibile coscienza del movimento dei corpi nello spazio scenico, e con la scelta intelligente di (s)legare le sequenze tramite una stessa formula di montaggio (stacco su nero seguito da dissolvenza). La scena della casetta che crolla, con la madre a coprire i corpi delle figlie, è da prendersi il cuore in mano e buttarlo sullo schermo.

FEFF8
Gimme Kudos
,
HUANG Jianxin, 2005,
drama, European Premiere

A dispetto delle aspettative, che mi davano ogni singolo film del FEFF proveniente dalla cina continentale come una fregatura clamorosa, il primo mostrato al Festival non è affatto male, è anzi invece un film interessante e stimolante, ben realizzato e – miracolo! – per nulla noioso, che con una storia che mescola il mystery alla commedia (e a uno sguardo sulla realtà), gioca una specie di lunga partita di tennis tra le esigenze dettate dal regime e una sotterranea ma evidente pulsione critica nei confronti di esso. Un film comunque imperfetto, impreciso, immaturo come molto "giovane" cinema cinese, per cui non si grida certo al miracolo. Ma anche un film che sa parlare, con la leggerezza della metafora e anche grazie ad un finale apertissimo, tanto furbo quanto ambiguo e misterioso, del gap generazionale e dello scontro che sta avvenendo tra la culture della tradizione maoista e della modernità tecnologica. Recitato benissimo da tutti: menzione speciale per Miao Pu, la moglie del protagonista, bellaebbrava.

Perhaps love (Ru guo – Ai)
di Peter Ho-sun Chan, 2005

Come segnala Gokachu, se il trionfatore degli HKFA 2006 è il bellissimo Election, che ho già avuto l’occasione di sottovalutare, il "secondo arrivato" è di certo il nuovo film di Peter Chan, assente da anni dalla scena dei lungometraggi (ma responsabile nel frattempo del meraviglioso "segmento" Going home), film che tra l’altro ha chiuso con i suoi fuochi d’artificio canterecci la più recente mostra veneziana. Perhaps Love, va detto, ha le carte in regola per essere un nuovo pilastro delle cinematografie che girano intorno alla Cina, eppure – sorte toccata ad altre recenti lanciatissime operazioni – è stato da alcuni bistrattato.

Mi tocca ammettere che tale pilastro non è, e non sarà, ché non tutto gira per il verso giusto: forse per il tono produttivo, troppo cinese e troppo poco hongkonghese, e decisamente troppo rivolto a ovest. Quindi si cita il capolavoro di Gondry (con il quale condivide però ben più che la mera inquadratura dall’alto sul ghiaccio) a manetta, e si cerca di fare nelle parti musicali "cose luhrmanniane" a tutti i costi, riuscendo però molto meglio nelle sequenze non cantate e non "ballate" (ma le coreografie sono poche, ed il risultato è più vicino a Chicago che, come scrivono tutti, a Moulin Rouge). Al brodo si aggiunga un pizzico di maniera e frigidità intellettuale q.b., senza contare il panasiaticismo ruffiano che da giorni riempie i post di questo blog. Non è colpa mia, ditelo ai cinesi.

Nonostante tutto ciò, Perhaps Love è proprio, passatemi il termine, una favola. Diretto con grande cura e ovviamente fotografato in modo eccelso (le parti pechinesi sono opera di Chris Doyle, e si vede), è visivamente bello tanto da saper togliere il fiato. E con tutti i suoi difetti e le sue contraddizioni (più che imperfezioni), è un film che parla in modo raffinato ed originale – seppur contorto – del rapporto tra il cinema e la memoria, tra l’amore e l’oblio, e che non nasconde una visione – politica, nel suo essere puramente sentimentale – del rapporto culturale, cinematografico e linguistico tra l’ex-colonia e la mainland.

Insomma, se non vi siete emozionati anche voi di fronte alla ritrovata e dolorosa grandezza (su, forza, coraggio, negatelo) di Jackie Cheung, o agli occhioni di Zhou Xun e gli occhietti di Takeshi Kaneshiro, entrambi seduti sul ghiaccio a frignare, siete solo dei mostri senza più un cuore. Ecco, l’ho detto. Sigh. Ora mi asciugo il naso e passo ad altro.

The myth (San wa)
di Stanley Tong, 2005

Più che riuscire veramente nei suoi molteplici intenti, l’ultima fatica di Jackie Chan tornato in patria è soprattutto un’utile cartina tornasole dell’andazzo del cinema d’intrattenimento cinese, anche se San wa è per gran parte un prodotto "hongkonghese". Per esempio, l’ormai inevitabile "abbraccione panasiatico": è recitato in cinque lingue, e Jackie è affiancato dalla coreana Kim Hee-seon e dall’indiana Mallika Sherawat. E fin qui va bene, vista l’abbacinante bellezza di entrambe. Ma ben più evidente è la tendenza (un po’ ruffianotta, già da principio) ad attaccarsi ad ogni trend possibile, cercando di essere sia l’epica wuxia di Tsui Hark sia la tiepida avventuretta di Feng Xiaogang.

The myth è quindi spezzato in due: con la scusante della trama (assurda ma gradevole o gradevole perché assurda) il film prosegue per due binari ben separati: il presente, con un cripto-Indiana Jones con il boxer sorridenti che va in giro per il mondo insieme a un Tony Leung Ka-fai sempre più cocainofeno a trafugare tombe di antichi eroi di cui è l’atletica reincarnazione, e il passato, con le sue armature pesanti, le battaglie all’arma bianca, le sue belle tendenze melodrammatiche malcelate del cazzo. Ma ehi, non siamo in un mondo fatto di cioccolato: i binari, infatti, e purtroppo, e ovviamente, faticano a ricongiungersi. Se mai lo fanno.

Insomma, si assiste ad un film estremamente e inevitabilmente sbilanciato, ambiziosissimo e potenzialmente rovinoso, per l’indecisione tra il jackiechanismo più semplice e divertente e le esigenze commerciali realizzate nel modo più bieco immaginabile: ma perché i cinesi non rubano gli animatori 3d ai coreani invece di rubare le loro attrici fighe? A spuntarla però è l’ancora incredibile e ancora riuscitisso furore comico, plasticamente geniale e ancora – miracolosamente – protofilmico, del corpo danzante di Jackie Chan.

Grazie e solo grazie a quest’ultimo, divertimento assicurato per buona parte del film, e pochi cazzi: bastava questa frase. Un film in cui c’è una sequenza come il combattimento sul tapis roulant di colla non si può, ripeto, non si può bocciare.