Cina

The promise (Wu ji)
di Chen Kaige, 2005

Il pechinese Chen Kaige è uno dei molti registi cinesi andati oltreoceano a sputtanare i proprio fasti in patria: una delle ultime esperienze del ciclo, e una delle peggiori, visto che si passò da Addio mia concubina a Killing me softly.

In questo caso invece, gli viene affidata invece un operazione pachidermica: Wu ji è il film più costoso della storia del cinema cinese. Un budget di 35 milioni di dollari, coproduzione con Giappone e Corea, e cast altrettanto internazionale: il terzetto principale sono il giapponese Hiroyuki Sanada di Ring, il coreano Jang Dong-kun di Coast guard, e la meravigliosa attrice hongkonghese Cecilia Cheung (la cui amabile raucedine è stata doppiata: siete pazzi?).

Eppure, gli sforzi messi in campo non servono per evitare il comprensibile disastro, e forse per carenze strutturali di un sistema cinematografico ancora incapace di gestire così tanti dindini (soprattutto visti gli orrendi effetti speciali), The promise è un film di una bruttezza difficile da descrivere a parole. Talmente brutto da fare tenerezza. Affastella lirismi tardo-hongkonghesi e bassa epica continentale, batte ogni record di numero di dolly per secondo, e arriva a far sembrare Hero un film equilibrato e sobrio.

Il problema, più che nella messa in scena che a volte regala lampi di interesse, se non altro per la loro assurda e comica e quasi autoironica esagerazione (soprattutto nella prima parte: l’incontro con la fata subacquea, la corsa con i bufali, la Cheung trasformata in un aquilone), è nella postproduzione. Insomma, il film sembra montato da un alcolista addormentatosi ripetutamente sulla manopolina del pitch: al ventesimo ralenti e/o alla trentesima accellerazione posticcia si riesce a provare – al massimo – un senso di rigetto.

Non che ci si aspettasse qualcosa di particolarmente raffinato da un prodotto che nasce, come altri recenti e ancora molti altri a venire, dal bisogno di soddisfare un nuovo, enorme, e sempre più "sgamato" mercato interno di massa, quello della Cina continentale. Ma se siamo in grado di sopportare ridicolaggini in stile Storm riders pur di godere della vista della Ceci, lo stesso non si può dire della noia impossibile che uccide tutta la seconda parte del film.

Qualche timido tossito vitale lo dà il pre-finale, con il suo "bel" colpo di scena, ma poi il film chiude ammosciandosi nel solito ritrito massacro melò, con noi spettatori che usciamo a gambe levate, ben felici che sia finalmente finita.

[FEFF2005]

The last level (Shengdian)


di Wang Jing, 2004

Un uomo si chiude in un internet cafè per diverse decine di giorni, ossessionato dal raggiungimento del 39 livello di un RPG online. Scontato dire che a un certo punto entrerà nel gioco, da esso impossessato.

Il film soffre della stessa sindrome di Suffocation: tentare di parlare criticamente della società cinese senza poterlo realmente fare non porta a niente. Quindi, se gli internet cafè sono una buona metafora di una società in cambiamento, ed è criticato il modo in cui vengono trattati dalle autorità e dalla gente comune (posti diabolici!), il film stesso li ritrae come luoghi che danneggiano il cervello: la storia parla da sola, per non parlare delle terribili scritte nei titoli di testa che attestano il realismo della storia.

Per di più, oltre alle suddette ambiguità, il film è terribilmente noioso. Non perché sia lento, intendiamoci: la lentezza è una cosa che sopporto sempre di buon grado, e mi capita spesso di amarla. Ma qui no, non succede proprio niente, non c’è un briciolo di sviluppo né di interesse. Un vero strascicamento scrotale, spiace vedere sprecata una fotografia simile.

Si salva (e allontana le letture più inquietanti del film) il finale, in cui il protagonista, completamente ammattito dal suo assurdo trip wuxia, gira per la città impugnando una katana immaginaria e ritrova nella sua mano un elemento di quel mondo immaginario, forse reale. Forse la speranza di potere, prima o poi, sognare.

[FEFF2005]

Suffocation (Zhixi)


di Zhang Bingjian, 2004

Prima di Tales of terror (che ho evitato), l’horror day di mercoledì proponeva anche Suffocation, il primo di fantasmi cinese. In Cina è infatti proibito rappresentare fenomeni soprannaturali al cinema. Zhang sfida coraggiosamente (e furbescamente) i limiti e le convenzioni del regime, e confeziona un vero horror.

Tutto molto bello, complimenti. Peccato che il film sia terribile, e non per gli spaventi. Un plot giusto per un cortometraggio e non di più (per di più ripieno di psicanalisi, ma estremamente grezza e ingenua) viene sfruttato fino allo sfinimento, mentre lo stile ricercatissimo alterna una lentezza calligrafica da "autorone cinese" a una patina da spot pubblicitario della Lancome. Si ha l’impressione che Zhang abbia girato un bel po’ di materiale e poi in fase di montaggio si sia sbizzarrito a montarlo in modo creativo.

Apprezziamo tutti il coraggio, ma se poi alla fine è tutto un trip mentale non era nemmeno così coraggioso, e comunque poco conta, vista la noia mortale.

[FEFF2005]

Letter from an unknown woman (Yi ge mo sheng nu ren de lai xin)


di Xu Jinglei, 2004

Tratto dalla stessa novella di Stefan Zweig che ispirò Ophuls, Lettera da una sconosciuta è la storia di una fissazione amorosa lunga una vita, il racconto del tentativo di una donna entrare nel cuore di un uomo. Ma in punta di piedi, con la speranza vana di diventare memoria, di diventare, almeno, ricordo, rinunciando alla propria dignità e relegando la propria presenza al profumo di un mazzo di fiori in salotto.

Lo sguardo di Xu, bellissima e notissima attrice cinese convertitasi alla regia (questa è l’opera seconda) è ossessionato dai particolari, dagli sguardi, dagli arredi e dalle curve che formano i corpi nella luce. Lentissimo e contemplativo, ma non immobilista: capace invece di cambiare registro (come nella scena più bella, quella dell’opera e della mano di lui che batte il ritmo sulla gamba) quando richiesto.

Manca solo l’emozione, quasi assente e profonda solo in due scene: quella in cui il servo riconosce la protagonista, e lo splendido carrello finale sul volto di lei, bambina. Ma quello che il film possiede senza dubbio e (purtroppo, ma forse no) soprattutto, è la meraviglia visiva, grazie al lavoro del direttore della fotografia Lee Ping Ping (collaboratore di Hou, e co-responsabile di In the mood for love), e un gran lavoro d’attori.

Ad un certo punto mi sono chiesto se fosse la classica fuffa da esportazione festivaliera (è passato anche alla Viennale e ha vinto per la miglior regia a San Sebastian). Mi sono risposto di no, perché tra le righe della prevedibilità e della (vuota per alcuni, non per me) perfezione formale, si vede una vera personalità, uno sguardo autentico e dolente sul mondo femminile.

[nota]

Mi devo vergognare: ieri sera ho perso almeno due film che avrei potuto "fisicamente" vedere: il coreano Green Chair e il filippino Pa-Siyam. Purtroppo avevo delle ore di sonno da recuperare. Mea culpa.

FFF2005
La foresta dei pugnali volanti (Shi mian mai fu)
di Zhang Yimou, 2004

Zhang forse ha cercato di sistemare quello che in Hero non funzionava: guardando questo suo ultimo lavoro appaiono più evidenti le pecche del precedente.

House of the flying daggers è meno votato all’ambiguità storico-politica, più avventuroso e romantico. Il punto di partenza è sempre la menzogna; ma invece di costruirci sopra un apparato teorematico come in Hero, stavolta il falso viene usato come espediente narrativo. Magari forzando un po’ la mano con il ribaltamento di ruoli, ma in modo sicuramente più funzionale.

La fotografia di Zhao Xiaoding, a sorpresa, è migliore di quella di Doyle. Non per qualità illuminografica (lì Doyle è imbattibile, e il termine me lo sono inventato adesso), ma perché non schiaccia sotto il suo peso una regia che quindi ha l’occasione di prendersi una rivincita. E lo stile di Zhang risulta sanamente più grezzo, meno votato al lirismo e con più personalità tecnica. Il risultato è un film meno plastificato del predecessore.

Certo, molte cose non funzionano, sarebbe disonesto urlare al capolavoro. Prima di tutto, non c’è niente di nuovo sotto il cielo: non è detto che debba essere un difetto, ma una certa risaputezza è innegabile. E innamorato com’è del gesto plastico, dell’estetizzazione del combattimento (qui vera danza, molto più che altrove), e anche della protagonista, Zhang indugia un po’ troppo sui rallentamenti, e da un uso del digitale a volte un po’ eccessivo.

Nonostante ciò è un deciso passo avanti, senza arrivare ai risultati di Ang Lee, ma guardando al wuxia con più onestà e meno ambizione che in Hero. Forse provandoci ancora, Zhang potrebbe partorire fuori un ottimo film. Ma da quanto so, ha già rinunciato.

Se fossi una donna, Takeshi Kaneshiro me lo farei di brutto. E invece sono uomo: Zhang Ziyi non è mai stata così bella.

Di diverso parere l’amico FedeMc di SecondaVisione, che era dietro di me.

Hero (Ying xiong)

di Zhang Yimou, 2002

Due donne che lottano nella natura e con la natura, le foglie gialle che si fanno arma e scudo, e infine la ferita e la caduta. Una goccia di sangue cade a terra, e sembra corrompere il mondo. I colori dell’autunno si fanno rossi, e tutto all’improvviso diviene del colore del sangue, come la veste della donna che cade, e che muore.

Questa sequenza, forse la più bella del film, è metonimicamente esemplificativa dell’ultimo film di Zhang Yimou. Grazie al genio di Christopher Doyle (direttore della fotografia), che non mi stancherò mai di incensare, ma anche alla grande personalità e professionalità di Zhang, il film è un’esperienza visiva totalmente appagante, un viaggio estatico che, a costo di immergercisi a fondo, in alcuni punti sfiora l’estasi.

Sono molte le sequenze perfette e indimenticabili, spesso per le scelte cromatiche di Doyle, che hanno la dote rara di non "staccare" (pur essendo divise tra loro sotto molti punti di vista) e non sembrare meri pezzi di bravura: come i due combattimenti "mentali" (un tempio e un lago), la suddetta scena in mezzo alle foglie, e soprattutto quel lungo e irresistibile flashback virato in verde.

Perché allora il film non è del tutto soddisfacente? Tutto è relativo: Hero è un ottimo film, ma non è il capolavoro che avrebbe potuto essere. E’ un’opera che spreca parte del suo enorme potenziale, o almeno che gioca le sue carte in un modo che avremmo voluto vedere diverso. Come con gli attori: tutta la partita si gioca sulle spalle del guerriero SenzaNome (e sul suo viso tombale), ma Leung e la Cheung (persino la bellissima Zhang Ziyi) hanno un carisma che vale mille Jet Li.

Operazione produttivamente simile a La tigre e il dragone (lo sentirete da ogni parte), Hero porta comunque a risultati differenti: ne fa le spese, ed è in qualche modo una fortuna, l’occidentalità di Lee (ma non l’esportabilità), ma si perde anche quella sensazione malinconica e crepuscolare che dava all’opera di Lee la sensazione di aver sfiorato una cima (forse un punto di non-ritorno) che Zhang avvicina ma non riesce a toccare.

Personalmente, quando vedo dei corpi danzare e lottare in questo modo (per inciso: perfetto, non dico altro), vado in visibillio. Se fosse per me, guarderei film come Hero a ripetizione fino a svenire, a prescindere dal loro valore estrinseco. Ma bisogna essere obiettivi: non giovano la ripetitività e vuotezza (seppur necessaria) della prima parte, e una certa superficialità nei temi (importanti e profondi, ma un po’ timidamente in disparte). L’espediente-Rashomon è arguto e dà una sferzata di intelligenza al film: ma è pur sempre un espediente precotto.

Le cose più interessanti, che glorificano la prima parte al di là della stracitata goduria estetica, sono alcuni elementi autoriflessivi (o presunti tali): "l’arte della spada è come la musica", ed "è come la calligrafia", ovvero l’arte (ovvero il cinema?). Da un punto di vista emozionale, i brividi li danno quasi tutti quelle stupende facce da cinema che sono Tony Leung e Maggie Cheung, due guerrieri coinvolti (loro malgrado?) in una storia di amore e morte. E, dato l’espediente della molteplicità dei racconti (alla Rashomon, appunto), costretti a morire di continuo.

Davvero straordinario il finale, funebre e astratto, con quel corpo coperto da un drappo rosso e quell’assenza tra le armi: si dà finalmente un senso vero all’aleatorietà del racconto epico. Una leggenda non è illusoria in quanto tale? Quanto vale la corporeità del mito? L’eroe senza nome è anche un’eroe senza corpo?

In giro c’è chi ne parla molto bene, chi lo distrugge, chi ne parla maluccio, chi non si sbilancia troppo, chi la pensa più o meno come me (con qualche riserva in più). Attendo i cinebloggers.