Corea

Pietà, Kim Ki-duk 2012

Pietà
di Kim Ki-duk, 2012

Gran parte delle (perlopiù sterili) polemiche che hanno fatto seguito all’ultima Mostra del Cinema hanno ottenuto un effetto spiacevole, quello di spostare l’attenzione dall’effettivo valore del vincitore. Vale la pena di ribadirlo: Pietà è uno straordinario, meritatissimo Leone d’Oro, arrivato giusto con qualche anno di ritardo dopo la seccante sequela di argenti nei festival di mezzo mondo; è il film che chiude la lunga crisi creativa e psicologica di Kim, quella che ha prodotto lo sperimentale, autobiografico Arirang; ed è quello che vede tornare nel pieno della sua forma, al suo diciottesimo titolo, uno dei più grandi registi asiatici in attività. Ambientato in un mondo letteralmente inghiottito dal capitalismo, dove i palazzi moderni incombono sui quartieri ai margini della società e in cui il denaro è “l’inizio e la fine di tutte le cose: amore, onore, rabbia, violenza, odio, gelosia, vendetta”, Pietà è una parabola sconvolgente, insieme poetica e terrena, violenta e definitivamente umana, sulle conseguenze devastanti dell’avidità che utilizza il noto meccanismo narrativo, vorticoso e inarrestabile, della vendetta per parlare di dolore e sacrificio in un mondo privato della misericordia, trovando in Jo Min-Soo l’interprete formidabile di un castigo che nella sua estrema determinazione risuona quasi come l’ultimo grido, l’ultimo pianto soffocato di un’umanità sconfitta. Un grande racconto morale in cui ritroviamo anche il gusto geniale del regista per la composizione visiva; più in generale, una clamorosa potenza espressiva: e il film si chiude con una delle immagini simboliche più forti di tutto il portentoso, sbalorditivo, imperdibile cinema di Kim Ki-duk.

Architecture 101, Lee Yong-Joo 2012

Architecture 101 (Geon-chook-hak-gae-ron)
di Lee Yong-Joo, 2012

Uno dei più grandi successi al botteghino sudcoreano lo scorso anno è stato Sunny, un film che tra le altre cose fa leva sulla ritrovata nostalgia degli anni ottanta; allo stesso modo, uno dei campioni al box office di questa prima metà del 2012 (per ora il quarto incasso) è Architecture 101, in cui sono gli anni novanta al centro della narrazione. La costruzione dei due film è simile: qui l’architetto Seung-min viene contattato da Seo-yeon, una sua amica del primo anno di Università, che gli chiede di costruirle una casa sui ruderi di una sua vecchia proprietà, senza dargli troppe spiegazioni. Il resto del film, come già in Sunny, è raccontato in parallelo tra passato e presente, permettendoci di scoprire gradualmente la verità sul loro rapporto, su cosa li aveva allontanati, sul perché di questo improvviso ritorno. La grande differenza, anche con la norma del film sentimentale, è nella prospettiva da cui viene narrato – e, di riflesso, nel target: infatti il film è stato un enorme successo prima di tutto grazie al pubblico maschile.

Al suo secondo film dopo un horror (Possessed) Lee Yong-Joo, anche sceneggiatore, mostra di saper sfruttare la recente nostomania coreana con garbo e astuzia ma anche con classe e intelligenza, attirando il pubblico generazionale con un notevole armamentario d’epoca (i cercapersone, la spuma per capelli, un lettore cd portatile che diventa un elemento essenziale della trama) e con un’ironia sulle ingenuità di un passato prossimo che pare remotissimo (il dialogo sull’hard disk da 1 GB, “non ti basterebbe una vita per riempirlo”) ma concentrando poi quasi tutti gli sforzi sul lato più tradizionalmente romantico del film. Che funziona alla perfezione, soprattutto grazie all’universalità di una storia sul rimpianto e sulle occasioni perdute, ma anche a un ottimo cast (in primis le due Seo-yeon: l’incantevole Han Ga-in e la giovanissima Bae Suzy, una teen idol in patria), nonostante le età degli attori siano tutte visibilmente sfasate, a una brillante sceneggiatura che affianca l’esplorazione topografica a quella emotiva, e a una conclusione malinconica e tutt’altro che scontata.

L’immancabile canzone-feticcio del caso è “An Essay of Memory” degli Exhibition.

 

Punch, Lee Han 2011

Punch (Wan-deuk-i)
di Lee Han, 2011

Cresciuto dallo zio e dal padre, un gobbo clown venditore ambulante, il diciassettenne Wan-Deuk vive in un quartiere popolare, taciturno e isolato dai suoi coetanei. Il suo scontroso professore e vicino di casa Dong-Joo, per la cui morte Wan-Deuk si ritrova periodicamente a pregare, lo prende sotto la sua protezione a modo suo, e dopo avergli rivelato l’identità della madre, lo aiuta a coltivare il suo talento: la lotta. Che a dispetto della trama e del titolo internazionale Punch non sia un film di boxe né un “film sportivo” in senso stretto lo si evince facilmente dal fatto che in tutto il film c’è un solo vero incontro di kickboxing, anche se non mancano alcuni cliché del genere – come il montage degli allenamenti. Il film di Lee Han, sorprendente successo al box office (quarto film più visto in assoluto del 2011 in Corea del Sud), è in verità una gradevole commedia proletaria che funziona sia come romanzo di formazione di un giovane povero alla ricerca della sua identità e della felicità, sia come storia di un’amicizia impossibile e di rapporti paterni irrisolti, sia infine come affresco quasi corale di una bizzarra comunità di perdenti che imparano a farsi forza a vicenda. Lee Han riesce nell’intento di trasformare una materia potenzialmente deprimente in un vero e proprio feel-good movie, il cui ottimismo in barba alle avversità sociali ed economiche risulta in definitiva quasi travolgente nella sua ingenuità. Il cast è ottimo e Yu Ah-In è perfetto nel ruolo del ragazzino ribelle (nonostante abbia già 25 anni) ma la differenza vera la fa lo strabiliante Kim Yun-Seok, che dopo essersi fatto notare nei due bellissimi film diretti da Na Hong-Jin (The Chaser e The Yellow Sea) sfodera qui, nel ruolo del burbero professore marxista, un inaspettato e sfumatissimo talento leggero: davvero uno dei migliori attori coreani di questi anni.

Il film è stato presentato al Far East Film Festival di Udine lo scorso aprile.

Su Yesasia è disponibile l’edizione dvd coreana (Regione 3).

Sunny, Kang Hyeong-Cheol 2011

Sunny (Sseo-ni)
di Kang Hyeong-Cheol, 2011

Durante una visita all’anziana madre in ospedale, Na-Mi incontra una vecchia amica d’infanzia, che la informa di essere malata e ormai terminale. E le rivela un desiderio: incontrare di nuovo il gruppo di amiche (le “Sunny”) con cui entrambe hanno perso i contatti da più di vent’anni. Presentato nella opening night del Far East Film Festival di quest’anno, Il film di Kang Hyeong-Cheol (già regista del campione d’incassi Scandal Makers) è stata la vera sorpresa del botteghino sudcoreano nel 2011: terzo titolo più visto dell’anno (7,3 milioni di biglietti) per una storia che mescola malinconia e leggerezza rivelando gradualmente le storie passate e i destini delle sue protagoniste. A dispetto delle possibili apparenze, è veramente impossibile resistere a Sunny: anche autore della brillante e ingegnosa sceneggiatura, Kang ha sfruttato al meglio un ricchissimo cast di straordinarie interpreti (sia nel presente che nel passato) e grazie a un uso magistrale (anche tecnicamente) del montaggio parallelo ha trovato un equilibrio perfetto tra commedia e dramma, ma anche tra il gusto per il racconto e quello per la ricostruzione storica, peraltro di un popolo che in quegli anni stava attraversando grandi cambiamenti tra cui l’inizio di un’inesorabile occidentalizzazione (il mito de Il Tempo delle Mele, l’ossessione per i marchi) in contrasto con la coercizione della dittatura militare. Particolarmente originale è proprio il modo in cui Sunny affianca le vicende personali dei suoi personaggi alla Storia del paese, in particolare alla violenta repressione dei movimenti studenteschi da parte dell’esercito del presidente Chun Doo-hwan; il culmine è la sequenza inaudita in cui la rissa tra le due bande di ragazzine ha come sfondo proprio le lotte tra i manifestanti e i poliziotti nelle strade di Seoul, sdrammatizzata da uno stile cartoonesco e dalle note di Touch by touch dei Joy. La musica, più in generale, ha un’importanza fondamentale nel film: l’inevitabile Reality di Richard Sanderson, ma anche le canzoni di Cyndi Lauper e ovviamente il pezzo di Boney M che dà il nome al gruppo di amiche (e al film) e che diventa poi il fulcro di un finale sfacciatamente commovente.

War of the Arrows, Kim Han-min 2011

War of the Arrows (Choi-jong-byeong-gi Hwal)
di Kim Han-min, 2011

Si fa un gran parlare di una recente tendenza, forse del tutto casuale: la notevole presenza di archi e frecce in molti film come Hunger Games, Brave o The Avengers ma anche in tv con i prossimi Arrow Revolution. A modo loro, in Corea del Sud sono arrivati un passo in anticipo. In un anno particolarmente fortunato per il botteghino sudcoreano, il campione d’incassi tra i titoli locali è stato proprio il film di Kim Han-min, che nel corso del 2011 ha totalizzato quasi 7 milioni e mezzo di spettatori – battuto solo, ma a breve distanza, da Transformers 3. Ambientato durante l’invasione della Corea da parte della Manciuria (siamo nel 1636, per capirci), War of the Arrows è un film di avventura in costume dove le più tradizionali arti marziali e le lame del wuxia lasciano il posto a miracolosi e precisissimi tiri con l’arco, tendendo ad allontanarsi dalla cornice storica per concentrarsi sulla sfida a frecciate tra l’eroico arciere Nam-Yi e la sua nemesi Jyuu Shin-Ta. Il cuore del film è infatti il lunghissimo e appassionante inseguimento che occupa quasi tutta la seconda metà e che Kim Han-min orchestra con ritmo e intelligenza, quasi senza dialoghi, giocando sul continuo ribaltamento tra vittima e carnefice, azzeccando alcune ottime trovate (soprattutto quella della rupe) e recuperando l’interesse che, nella prima parte, si faceva desiderare – fino all’inevitabile pathos dello scontro finale. In definitiva, il film è un divertimento innegabile anche se piuttosto standardizzato e senza particolari guizzi. Se non nel cast: a parte la sfida virile tra due facce incredibilmente carismatiche come quelle di Park Hae-Il (il buono) e Ryoo Seung-Ryong (il cattivo), anche la brava semi-esordiente Moon Chae-won (già star della tv coreana) riesce a farsi notare a dispetto del poco spazio rimasto.

Il film è già disponibile nell’edizione dvd britannica, anche in blu-ray.

Non mi risulta sia prevista un’uscita italiana.

Spellbound, Hwang In-ho 2011

Spellbound / Chilling Romance* (O-ssak-han Yeon-ae)
di Hwang In-ho, 2011

Tra gli aspetti che mi colpirono subito del cinema sudcoreano, quando cominciai a interessarmene, c’era la capacità di mescolare i generi e soprattutto i registri con sfrontatezza, entusiasmo e qualche volta persino con coraggio. Spellbound in tal senso si racconta molto facilmente: è in tutto e per tutto una commedia romantica, tipicamente coreana, ma è anche una tenebrosa ghost story, ben inserita nella recente tradizione del k-horror. L’ostacolo alla storia d’amore tra l’illusionista Jo-Goo e la solitaria assistente Yeo-Ri è infatti un particolare talento di quest’ultima: vede la gente morta. E chiunque le stia troppo vicino rischia di diventarne vittima.

Hwang In-ho, sceneggiatore al suo esordio dietro la macchina da presa, riesce con mano sicura a far convivere le due anime del film: da una parte il romance, declinato sia nella forma più comica e buffa sia in quella più melodrammatica; dall’altra il fantastico, con alcune sequenze che, pur con leggerezza, non hanno molto da invidiare a cugini horror meno allegri. “In un film del terrore la protagonista non si innamora mai perché se avesse qualcuno accanto non avrebbe più paura”, si dice nel film; perché Hwang non si limita a giocare con le convenzioni (capelli lunghi neri, rancori, bambini pallidi) e inserisce nella stessa sceneggiatura i meccanismi che danno vita al film – lui è appassionato di commedie con lieto fine, lei risponde “la mia vita assomiglia più a un horror” – scoprendo quindi tutte le carte, fin dallo spettacolo a tema con cui Jo-Goo ha ottenuto il successo.

Spellbound è un film bizzarro e tenerissimo che salta da un tono all’altro con naturalezza e brio, rinforzato da una produzione perfetta, da dialoghi davvero divertenti e da due attori (soprattutto la graziosa Son Ye-Jin di My Wife Got Married) che affrontano i loro ruoli con senso dell’umorismo, oltre che con bravura. Insomma, un piacevolissimo film che nel suo piccolo contiene tutta la vitalità del cinema sudcoreano.

Uscito nel dicembre 2011 in patria, il film è stato un buon successo commerciale anche grazie (pare) al passaparola su Internet: ottavo film coreano dell’anno e quattordicesimo nella classifica complessiva degli incassi.

Per chi non ha problemi con la Regione 3, è disponibile nell’edizione dvd coreana.

* il film è conosciuto all’estero con entrambi i titoli: “Spellbound” è quello internazionale, “Chilling Romance” è la traduzione letterale dell’originale

Silenced / The Crucible, Hwang Dong-Hyuk 2011

Silenced / The Crucible (Dogani)
di Hwang Dong-Hyuk, 2011

Nel 2005, la scuola Inhwa di Gwangju per bambini sordomuti finsice al centro di un processo per abusi, molestie e violenze sessuali ai danni dei giovanissimi alunni. I colpevoli, tra cui il preside, ne escono quasi indenni, con condanne morbide dovute alle scappatoie del sistema giudiziario coreano; uno dei colpevoli viene persino assunto di nuovo alla fine della condanna. Nel 2009, un libro della celebre scrittrice Gong Ji-young riporta l’attenzione su quei fatti ormai semidimenticati dai media; Silenced è tratto proprio da quel libro.

Da una storia così recente e così bruciante, era impossibile trarre un film del tutto compiuto: ma Hwang Dong-Hyuk, al suo secondo film, riesce a trovare un equilibrio ammirevole tra la crudezza del resoconto e le necessità del racconto cinematografico, affiancando le atmosfere tesissime da film dell’orrore della prima metà a una seconda parte più tradizionalmente processuale. Raccontato dal punto di vista di un giovane maestro vedovo e idealista che viene assunto (pagando una tangente) nella scuola per poi scoprirne ne scopre le verità nascoste, Silenced a tratti è vittima di qualche cliché del caso – soprattutto nel ritratto dei personaggi – ma non c’è dubbio che vada a colpire in modo efficace, duro e tagliente. Senza risparmiare quasi nulla allo spettatore né al giovane cast (le scene più dolorose sono terribilmente esplicite, quasi impensabili in un’ottica “occidentale”) si finisce per raccontare molto più di un singolo caso di cronaca, ma più generalmente le contraddizioni più profonde della società coreana, la sua corruzione, la sua ipocrisia e la sua omertà.

Tanto che il valore più determinante di Silenced si è rivelato fuori dai confini dello schermo: l’uscita in sala nel settembre 2011 e il suo enorme successo di pubblico (quinto tra i film locali e ottavo in assoluto tra gli incassi dell’anno, con più di 4 milioni e mezzo di spettatori: più dell’ultimo Harry Potter) hanno infatti contribuito ad attivare non soltanto l’interesse dei media, della rete e dell’opinione pubblica ma anche la macchina legislativa. Il caso drammatico della scuola Inhwa è stato riaperto, e poco più di un mese dopo l’uscita in sala l’Assemblea Nazionale ha pubblicato un una nuova legge che abolisce clausole confuse quando non medievali e rende più dure le pene per violenze sessuali ai danni di disabili e minori. La legge si chiama Dogani Law, dal titolo del film.

Il film è noto con entrambi i titoli: “Silenced” è il titolo per la distribuzione internazionale, “The Crucible” è la traduzione letterale del titolo coreano.

“Silenced” sarà proiettato al Far East Film Festival di Udine giovedì 26 aprile alle 22.

Hindsight, Lee Hyun-seung 2011

Hindsight (Poo-reun so-geum)
di Lee Hyun-seung, 2011

Nel complicato processo di selezione che porta alla visione di un film sudcoreano rispetto a un altro, la presenza di Song Kang-Ho vale come garanzia. Mal che vada, ci sarà Song Kang-Ho. Hindsight non è certamente di uno dei migliori film della sua carriera, ma l’attore è solitamente perfetto nel ruolo di un leggendario gangster che si è “ritirato” per aprire un ristorante. Al suo fianco durante il corso di cucina appare la motociclista ventenne Se-Bin (interpretata da Shin Se-kyung) che ovviamente nasconde un segreto, e non è lì per caso. Eccellente lui, bellissima lei, assai meno memorabile il resto: la produzione è curatissima ma patinata, la struttura è interessante (apre con la stilizzata morte del protagonista e si tuffa un lungo flashback volto alla spiegazione se non alla negazione della tragica premessa) ma il proseguimento della trama rivela un complicato quanto risaputo intreccio di debiti, ricatti, riscatti e killer col ciuffo che si svolge fino a un finale decisamente più morbido e rassicurante della media. Ma in fondo a Lee Hyun-Seung, inguaribile romantico (il suo ultimo film, uscito dodici anni fa, è il celebre melodramma Il Mare da cui è tratto La casa sul lago del tempo), interessano i dettagli affettuosi tra i due personaggi più che il collaudato contesto da mafia movie. In conclusione, un film sufficientemente godibile ma inconsistente, solo per completisti.

 

The Unjust, Ryoo Seung-wan 2010

The Unjust (Bu-dang-geo-rae)
di Ryoo Seung-wan, 2010

La polizia è a caccia di un serial killer di bambini che terrorizza la popolazione coreana, ma dopo che il maggior sospettato viene ucciso per sbaglio durante un inseguimento i piani alti della polizia di Stato (per conto del Presidente in persona) decidono di affidare al durissimo (e non proprio integerrimo) Capitano Choi un compito ingrato, in cambio di una promozione a lungo agognata: dovrà scegliere un altro individuo sospetto, attribuirgli i delitti e arrestarlo, per placare l’opinione pubblica. Per farlo si avvale dell’aiuto di un boss, ma a mettergli i bastoni tra le ruote c’è l’ambizioso (e nemmeno lui proprio integerrimo) procuratore cui viene stato affidato il caso.

Se nei suoi suoi più noti film precedenti si era in qualche modo specializzato sullo scontro fisico (le botte di No Blood No Tears, il super-eroismo con arti marziali di Arahan, la street boxe di Crying Fist, le risse coreografate di The City of Violence), con il suo ultimo film Ryoo Seung-Wan sembra voler iniziare un capitolo del tutto distinto della sua carriera, lasciando quasi del tutto da parte l’azione e le botte (anche se Choi è un judoka spaventoso) con un film più adulto e dai contorni quasi politici: The Unjust è infatti un’opera definitivamente cinica e disillusa, che a partire da meccanismi del noir poliziesco metropolitano, rappresenta un mondo in cui le distinzioni tra buoni e cattivi non hanno quasi più senso, in cui ciascuno fa esclusivamente il suo interesse – con conseguenze letali, non soltanto per i pochi malcapitati che si trovano a difendere gli ultimi residui di onestà, ma per l’intero sistema della giustizia.

La sceneggiatura (di Park Hoon-Jung, lo stesso di I Saw the Devil: è il primo film di Ryoo scritto da qualcun altro) incespica e si avvolge un po’ su se stessa nel raccontare il funzionamento dei rapporti politici e burocratici tra polizia, mondo degli affari e mafia, finendo per impallare spesso il film, che a tratti risulta troppo complicato e persino noioso, ma che si riprende alla grande nel rendere i conti della corruzione e dell’amoralità diffusa. E se l’assenza di un riferimento rende in qualche modo disturbante l’esperienza del film (Ryoo ci prova gusto, utilizzando tra l’altro in modo spregiudicato l’enfatica ed esagerata colonna sonora) l’intervento tardivo del Caso beffardo e una parte finale violentissima e infine (a suo modo) catartica chiudono in modo esemplare la sua nerissima e crudele parabola.

Il film è uscito in patria nell’ottobre 2010, ed è stato presentato l’anno scorso a Berlino nella sezione Panorama, prima di fare un giro di festival tra cui il Far East Film di Udine.

Per il momento il film è disponibile in dvd nell’edizione coreana (Regione 3).

The Yellow Sea, Na Hong-jin 2010

The Yellow Sea (Hwanghae)
di Na Hong-jin, 2010

Ku-Nam è un tassista col vizio del gioco che vive nel Yanbian, prefettura cinese al confine con la Russia in cui vivono moltissimi cittadini di origine o etnia coreana. Indebitatosi per far ottenere un visto per la Corea del Sud alla moglie, sparita poi da diversi mesi senza farsi viva, si vede costretto ad accettare un incarico per conto di un boss locale: dovrà recarsi illegalmente proprio in Corea del Sud per uccidere un uomo. Ma le cose si complicano quando scopre la verità sulla scomparsa della moglie e, soprattutto, di non essere l’unico assoldato per quell’omicidio.

The Chaser è stato uno degli esordi più sorprendenti del cinema coreano recente, e non solo dal punto di vista commerciale. Nella sua opera seconda, Na Hong-jin alza decisamente il tiro: rimettendo in campo gli stessi due attori del primo film (Yun-seok Kim e Ha Jung-woo) ma a ruoli invertiti, mette in scena un altro noir tesissimo e violento, basato non soltanto sul suo ormai noto talento per le fughe a piedi ma su una visione del mondo ancora più cupa e disperata. Che questa volta esplode in una moltiplicazione di personaggi (la lotta per la sopravvivenza di Ku-Nam finisce presto sullo sfondo di una vera e propria guerra tra bande e tra “mondi” enormemente distanti quali sono il Yanbian e la moderna città coreana) e di trame che Na si diverte a mescolare selvaggiamente, confondendo le acque, ribaltando le aspettative fino alla drammatica risoluzione finale.

L’ambizione del film non va del tutto a suo vantaggio: costruito in capitoli ben distinti, The Yellow Sea è un film molto lungo e denso (anche se i 157 minuti originali sono stati saggiamente ridotti ai 140 del director’s cut) che forse non riesce a bilanciare alla perfezione la complessità dell’intreccio con la capacità di tirarne le fila, e così il finale può persino portare lo spettatore a interrogarsi sulla comprensione stessa della trama. Ma sono difetti che passano in secondo piano rispetto alla bravura del regista, che riesce a compensare una certa confusione – ma solo nella seconda metà – con una furia davvero irresistibile, spingendo senza troppi pudori sul pedale sulla violenza (sopra la media locale: i colpi d’ascia non si contano, letteralmente) senza preoccuparsi troppo di stemperarla, finendo per azzeccare qualche sequenza davvero da antologia – il montaggio della fuga in Corea di Ku-Nam, la preparazione dell’omicidio, la sequenza in cui l’incredibile Kim Yun-seok si fa strada tra i nemici massacrando crani con un osso di bue – e, più in generale, uno stile che fa impallidire gran parte dell’action occidentale.

Il film è stato presentato a Cannes 2011 nella sezione Un Certain Regard. L’edizione britannica in dvd esce alla fine di marzo. Sul mercato internazionale viene distribuita la versione “director’s cut”, ovvero la stessa che ho visto io.

Per il momento non mi risulta sia prevista un’uscita italiana in sala.

The man from nowhere, Lee Jeong-beom 2010

The Man from Nowhere (Ajeossi)
di Lee Jeong-beom, 2010

Cha Tae-Sik è un taciturno e pacifico impiegato di un piccolo e buio banco dei pegni; la sua unica amica è una bambina, figlia di un’eroinomane che vive nell’appartamento accanto e che usa la sua bottega per spacciare per conto di un’organizzazione criminale. Ma quando madre e figlia vengono rapite, e la prima viene ritrovata svuotata degli organi interni, Tae-Sik sarà costretto a mostrare la sua vera identità e il segreto drammatico nascosto nel suo passato. Nella (relativa) scarsezza di titoli di genere davvero esaltanti provenienti dalla Corea del Sud negli ultimi anni, l’opera seconda di Lee Jeong-beom è davvero una perla. Ma anche in senso assoluto: un thriller lungo e denso, girato in modo magistrale, cupo e violento come non se ne vedevano da tempo, con un’ambientazione urbana perfetta, e un protagonista di inenarrabile figaggine. E se l’azione non manca, tra duelli e inseguimenti, spatatorie e coltellate, il film di Lee è qualcosa di più di un semplice action: costruito su moventi profondamente tragici che spingono ancora di più l’intensità della escalation vendicativa di Tae-Sik, The Man From Nowhere è uno stupefacente noir sanguinario sulla riscoperta dell’innocenza in un mondo definitivamente impazzito. Colpo di genio comunque quello di avere un protagonista addestrato per uccidere, abilissimo e quasi imbattibile in combattimento, e non fargli fare niente di niente per quasi un’ora.

Il film è stato presentato qualche giorno fa al Far East Film di Udine.

È già disponibile a pochi euro nell’edizione dvd britannica.

Non è al momento prevista un’uscita italiana.

I saw the devil, Kim Ji-woon 2010

I saw the devil (Akmareul boattda)
di Kim Ji-woon, 2010

Negli ultimi tempi da queste parti si è accennato spesso ai bei giorni in cui si inseguivano i migliori autori del cinema asiatico, e in particolare di quello coreano, con una tendenza al namedropping che vira verso il ridicolo scioglilingua, ma da cui non si riesce a esimersi quando si è trascinati nel vortice maliconico dei ricordi. In questo panorama, Kim Ji-woon rischia sempre di essere messo in disparte o dimenticato, o di fare la figura dell’amico vestito bene che fa una gran scena alle feste finché non apre bocca e dice un sacco di cazzate. Non sono assolutamente di questo avviso: al di là dell’apprezzamento che ho sempre riservato nei suoi confronti pur non inserendolo nell’Olimpo dei “grandi” del cinema di Seoul dello scorso decennio, non solo i suoi film sono stati artisticamente all’altezza di una cinematografia esaltante nel corso degli anni, con pochi titoli ma ben piazzati e ben riusciti, ma anche commercialmente rilevante – persino in un contesto esecrabile come quello italiano, se consideriamo il caso di Two Sisters. La cosa che più mi colpisce di Kim, a parte ovviamente la sua eccezionale bravura tecnica, che mettiamo da parte subito perché è l’aspetto su cui pacificamente non si può che alzare le mani (tant’è che ce la fa vedere, e ce la fa vedere tutta), è la sua capacità di muoversi sui terreni calpestatissimi dai suoi colleghi, con il rischio di arrivare fuori tempo massimo, portando a casa però risultati ineccepibili o addirittura sorprendenti. Kim rispose al dilagante (o dilagato) j-horror con il fenomenale ghost drama già citato, al post-tarantinismo e forse al post-johnnietoismo (e a molto altro, badate, sto semplificando per amor di sintesi) con il noir stilizzato di A bittersweet life, alla moda globale del western leoniano con il divertentissimo The good the bad and the weird. Allo stesso modo, I Saw the devil è un altro tassello di un genere, o di un percorso, ben noto agli amanti del cinema asiatico, il revenge movie - oppure chiamatelo come vi pare. Gli elementi che lo compongono sono altrettanto conosciuti, lo spettro del sequestro di persona, la violenza che esplode indistinta, il disagio del dilemma tra giustizia, vendetta, legge, morale, l’inesplicabilità del male, la sua rappresentazione e via dicendo. Il lavoro di Kim non sarebbe nemmeno complicato, il progetto del film suona vacuo e prevedibile quando non fine a se stesso, ma la sua particolarità e il suo grande punto di forza (quando si comincia a pensare che non vada da nessuna parte) sta proprio in questo suo fare inceppare il racconto diventando presto un vero e proprio “disco rotto” su cui si consumano in un alternarsi spietato e sadico, più sulla lunga misura che nei singoli colpi di cric in testa, le differenti furie dei suoi protagonisti – giocando facile da un lato, rischiando davvero un po’ di più quando il punto di vista unico è quello di un assassino “senza movente”, ma anche senza virate psicanalitiche, con una narrazione che da un certo punto in poi è asciugata e ridotta a zero fino al finale che scopre le carte con decisa chiarezza (forse troppa) sull’idea che Kim voleva veicolare. La consueta sfrontatezza che già caratterizzava le sue opere precedenti, applicata alla violenza, è però ciò che del film passa più facilmente – non è certo una cosetta per anime candide, insomma, ed è anche difficile far passare (a voi in primis, a me stesso in seconda battuta) questa insistenza a volte parecchio compiaciuta per giustificata scelta artistica, ma I Saw the Devil, se pure imperfetto, pieno di difetti e lungi dall’essere il miglior film di Kim Ji-woon,  è anche un film dissennatamente coerente, oltre che visivamente stupefacente, e non ultimo è un film che fa tremare, che fa incazzare, dalla rabbia e dalla paura. Sono piccole emozioni che mi piace coltivare, una volta ogni tanto. Poi però metto su Scarpette Rosse.

Di tutt’altra opinione il miglior cineblogger dell’universo, ovvero Luotto Preminger dei 400 Calci. Prendiamo e portiamo a casa.

Poetry, Lee Chang-dong 2010

Poetry (Shi)
di Lee Chang-dong, 2010

Se sono lontani gli anni dell’entusiasmo incontrollato nei confronti della cinematografia sudcoreana, alcuni dei migliori autori di quel periodo sono tuttora attivi e sfornano ancora film di grande bellezza. Uno di questi è senza dubbio Lee Chang-dong, ex ministro della cultura e regista di alcuni (purtroppo pochi) film strepitosi tra cui una delle più dolorose riflessioni sulla Storia del suo paese (Peppermint Candy, 2000) e l’intenso dramma Oasis – particolarmente rilevante anche perché a suo tempo fu uno dei primi grandi titoli coreani a trovare una distribuzione nel nostro paese.

Mija è una signora anziana che per mantenersi insieme al debosciato nipote a carico fa la badante a un disabile, e nel tempo libero si appassiona alla poesia frequentando un corso pomeridiano; mentre cominciano gradualmente ad arrivare i primi sintomi del morbo di Alzheimer, Mija scopre che il nipote si è reso responsabile insieme ad alcuni amici di uno stupro di gruppo che ha portato al suicidio di una ragazza. Dopo aver assistito al cinismo dei genitori dei ragazzi, pronti a pagare una cifra considerevole per evitare che i figli vengano indagati, sarà costretta a risolvere la situazione in modo definitivo, sulla propria pelle, continuando ad appuntare sul suo taccuino impressioni di una natura che sembra l’unica fuga da un mondo crudele e spietato.

Come già i titoli precedenti, compreso il bellissimo Secret Sunshine, anche Poetry è un’opera molto ambiziosa, fin dal titolo, forse non per tutti i gusti: una ballata tenue di avvicinamento alla morte che cerca di riflettere sul senso della vita, sulla memoria e sull’oblio dell’identità, ma con un approccio del tutto naturalistico e privo di sottolineature melodrammatiche e forzature (persino quando le svolte narrative sembrerebbero richiederle) che gioca tutto sulla splendida, ironica ma dolente interpretazione di Yoon Jeong-hee (star del cinema coreano degli anni ’70, assente dagli schermi da più di 15 anni) e il cui finale, misterioso e implicito, è davvero la perfetta quadratura del cerchio.

Non mi risulta che sia prevista un’uscita italiana.

L’edizione dvd coreana è un po’ cara ma è region free.

The housemaid, Im Sang-soo 2010

The housemaid (Hanyo)
di Im Sang-soo, 2010

Presentato all’ultimo Festival di Cannes, The housemaid è il sesto film diretto da uno dei più talentuosi registi della Corea del Sud, noto dalle nostre parti soprattutto per La moglie dell’avvocato (stranamente uscito nelle sale italiane) e che nei suoi precedenti due lavori, gli eccellenti The president’s last bang e The old garden, era riuscito nell’obiettivo di unire alla perfezione storie intense di personaggi con la ricostruzione di momenti storici recenti e ben precisi, ancora vivi e dolorosi nell’immaginario collettivo coreano.

The Housemaid è il remake di un classico del cinema coreano diretto da Kim Ki-young nel 1960 e racconta la storia di Eun-yi, una ragazza di bassa estrazione sociale che viene assunta per lavorare in una villa per una coppia ricchissima, come governante e babysitter di una coppia di gemelli non ancora nati, finché non viene travolta dagli eventi a causa dei capricci sessuali del suo datore di lavoro. Ma nonostante la progressione narrativa si rifaccia a meccanismi melò più tradizionali, Im non si accontenta affatto di rimanere ancorato a una prospettiva meno ambiziosa del solito o legato alla mera psicologia dei suoi personaggi: in realtà il film è una pungente e irresistibile parabola sui rapporti di potere e di classe in Corea del Sud.

Da una parte c’è il divario economico che spezza in due il paese, con ville da sogno in mano a famiglie di eterni bambini che ogni sera bevono una bottiglia di vino pregiato e ascoltano musica classica in soggiorno e una parte di popolazione che è costretta dalle proprie condizioni sociali al compromesso più bieco, che può sfociare addirittura in una nuova forma di schiavitù o di prostituzione dell’individuo. Dall’altra, ancora più rilevante, c’è il divario tra uomini e donne: e il ritratto feroce e disincantato, tratteggiato con cinismo e senza mezze misure negli altri tre personaggi femminili, cela dietro una prospettiva apparentemente misogina una lucidissima considerazione del potere smisurato dell’universo maschile.

In tal senso, le parole più rivelatorie e illuminanti dell’intero film sono quelle pronunciate dalla giovane madre di Hae-Ra, la ragazza incinta, per convincerla a far buon viso a cattivo gioco di fronte ai tradimenti del marito: “tutti gli uomini in quella famiglia sono così. Guarda tua suocera: ha dovuto attraversare cose orrende per colpa di quegli uomini. La gente normale non potrebbe nemmeno immaginarlo. Ma ha tenuto duro, per diventare quello che è oggi. E guardala ora: tutti venerano la terra dove cammina. Anche tu sarai così”. Ed Eun-yi è il punto di incontro di queste diseguaglianze, l’ultimo anello della catena sociale, una donna costretta a umiliarsi e a chiedere scusa per gli errori e le inguistizie altrui – e che proprio sul suo corpo gioca la sua inflessibile, disperata quanto definitiva vendetta.

Mother, Bong Joon-ho 2009

Mother (Madeo)
di Bong Joon-ho, 2009

Nella vita, è bello avere delle certezze. Nel cinema, sono pochissime. Il regista quarantenne Bong Joon-ho è una di queste: e il suo quarto film lo riconferma come uno dei più grandi registi asiatici in attività, nonché uno dei più rigorosi e coraggiosi autori del cinema contemporaneo tout court.

La scelta di girare un film come Mother, costruito sul rapporto tra una madre e il figlio disturbato, dopo l’impressionante successo commerciale e critico del blockbuster con il mostro grosso, poteva sembrare controproducente. In realtà, come spesso accade, era solo apparenza dovuta alla troppa distanza: Mother è tutt’altro che una concessione da festival, bensì un film che si inserisce alla perfezione nel percorso di Bong, altissimo cinema d’autore con le unghie infilate nella carne del cinema di genere, che lo reinnesta là dove Memories of murder l’aveva lasciato, ma senza rinnegare in alcun modo la lucidità dell’affresco famigliare di The host.

Senza dubbio nel novero dei film più belli e dolorosi di quest’anno, Mother è forse anche l’opera più dura e intransigente dell’autore coreano: nel raccontare la storia di una madre che cerca in tutti i modi di dimostrare l’innnocenza del figlio di fronte all’accusa di un orribile crimine, Bong trae una riflessione su giustizia, verità e memoria, che ha la sua forza nel ribaltamento prospettico ed empatico, nella performance difficilissima e straordinaria della 68enne Kim Hye-ja, e in una narrazione tesa e implacabile in cui non mancano alcuni degli elementi essenziali del suo cinema, come l’impietoso affresco della provincia e la frustrazione applicata ai meccanismi di detection.

Senza dimenticare che Bong Joon-ho è anche uno dei più eccellenti metteur en scène in circolazione: anche grazie al contributo del direttore della fotografia Hong Kyung-Pyo, Mother è un film visivamente stupendo e in cui ha un ruolo principale l’uso virtuoso ma millimetrico e preciso dei movimenti di macchina, un aspetto che aumenta ancora di più la sensazione di ineluttabilità e intransigenza di una sconvolgente parabola morale, sul confine tra l’amore e la follia.

Il film non è ancora uscito in Italia e non mi risulta abbia una data d’uscita o una distribuzione.

Purtroppo tra le nostre certezze non c’è solo la grandezza del cinema di Bong Joon-ho, ma anche la cecità della distribuzione italiana che, dopo una breve infatuazione per il cinema di Seoul e dintorni, nonostante l’ormai immancabile partecipazione ai maggiori festival del mondo, il successo di una rassegna come il Far East Film di Udine e gli scaffali delle videoteche piene di film coreani, ha ricominciato a ignorare bellamente per la distribuzione in sala anche gli autori più celebri e celebrati come Park Chan-wook, Kim Ki-duk e, appunto, Bong Joon-ho.

Thirst, Park Chan-wook 2009

Thirst (Bakjwi)
di Park Chan-wook, 2009

Chi segue questo blog da qualche anno sa che Park Chan-wook è sempre stato uno dei suoi beniamini. Soprattutto per via del lungo periodo in cui, da queste parti come su altri blog a tema, il cinema asiatico ha avuto un posto di riguardo, una poltrona d’onore. Un film di Park Chan-wook, in particolare, ha ancora più significato, perché fu sostanzialmente Oldboy il film che fece da collante per eccellenza di questa rete vitale di blog, a cui orgogliosamente appartenevo, così come Lady Vendetta ne fu forse il culmine insuperato.

Ora le cose sono cambiate, così come è cambiato il cinema di Park Chan-wook, e come probabilmente è cambiato anche il mio approccio – soprattutto dopo un film bellissimo ma sinceramente transitorio come I’m a cyborg. Ma non pensiate che questa sia una stroncatura, né tantomeno una promozione a metà: Thirst è davvero un grandissimo film, un’opera insieme intima e magniloquente, un film che riesce a fa ruotare un triangolo noir sul perno del cinema horror intorno a temi portanti dell’immaginario cattolico ma il cui cuore fondamentale è una storia d’amore disperata, dolorosa, inevitabile e crudele. Tuttavia, nelle sue pieghe più nascoste, Thirst è difficilmente qualcosa cui si possa parlare con serietà e coscienza dopo una sola visione: è un film che mette alla prova, ogni istante, i suoi spettatori.

Ma grande lo è sin dall’approccio più superficiale, dalla prima impressione estetica e plastica, comunque un elemento portante nel cinema barocco e formalista (nel senso migliore, e non esclusivo, del termine) di Park. Indiscutibilmente: ma ovviamente c’è ben altro. Quello che muta profondamente rispetto al passato, semmai, è una posizione di maggior distanza dalle convenzioni che gli consentivano di mantenersi sui binari di una sostanziale riconoscibilità (e che spiegano il successo dei suoi film più celebri anche tra platee poco avvezze alle "bizzarrie" del cinema coreano): rispetto a una filmografia che già li faceva a brandelli con martelli e lame affilate, Thirst va decisamente oltre. Risultando in assoluto il film più libero e più scevro da condizionamenti di qualunque tipo che il regista coreano abbia mai girato.

Paradossale che questo possa accadere proprio su una base narrativa tra le più convenzionali della storia del cinema, quella del film di vampiri: ma fa parte del gioco, volutamente complicato e ridondante, di uno dei pochi registi al mondo che sia capace di ribaltare con questo coraggio i canoni e le regole del gioco stesso. In un certo senso, il film è come l’inquadratura conclusiva di Lady Vendetta, in cui l’intenso climax drammatico del finale era spezzato da un elemento quasi slapstick: l’inchiostro più semplice con cui Park firma questa dichiarazione sono gli accostamenti tra elementi apparentemente incompatibili oppure tra stili differenti, restituendo allo spettatore un senso di confusione sensoriale, di grande straniamento.

E forse, va detto, anche di eccessivo distacco: Thirst, per le suddette ragioni, non possiede certo l’immediato appeal dei film precedenti – ma badate bene, stiamo sempre discutendo all’interno di un contesto, quello della sua filmografia, di totale estranietà e straordinarietà rispetto al cinema contemporaneo. E non si esclude che per relativizzare a questo modo la sua inferiorità stia intervenendo un forte carattere emotivo, l’amore incondizionato per la cosiddetta trilogia della vendetta, per ciò che ha rappresentato.

Se fossi una persona più coscienziosa e saggia forse urlerei immediatamente al capolavoro, a un altro capolavoro. Non lo sono. Ma ehi, posso sempre diventarlo.

Il film non ha una data di distribuzione italiana. Uscirà mai in sala? Io dico di no. Nel frattempo il dvd statunitense (Regione 1) è già uscito.

Tokyo!, Gondry-Carax-Bong 2008

Tokyo!
di Registi Vari, 2008

Il trittico in cui Bong Joon-ho, Michel Gondry e Leos Carax sono stati invitati a dirigere un mediometraggio ambientato nella capitale nipponica è stato uno degli eventi di Cannes 2008, più di un anno fa – e poi è finito un po’ nel dimenticatoio, nell’attesa (vana!) che uscisse nelle sale anche da noi. Ma è uscito in DVD per Regione 2. Procuratevelo, ne vale davvero la pena.

Interior Design di Michel Gondry
Una squattrinata giovane coppia arriva nella capitale: lui gira film sperimentali, lei nel frattempo va alla frustrante ricerca di un appartamento. Strano e imprevedibile come è sempre Gondry, questo tenero, malinconico e spassoso piccolo film parte da un’osservazione meticolosa e ravvicinata dei disequilibri di una coppia, in cui il fulcro è un lento e lunghissimo carrello all’indietro in cui i due litigano e si riappacificano, e arriva a una bizzarria mutante, quasi kafkiana ma profondamente gondryana – in ogni caso, sempre con il sorriso sulle labbra, con la sua inimitabile leggerezza, e un amore per il cinema che non ha quasi eguali. Stupefacente la fotografia di Masami Inomoto.
 
Merde
di Leos Carax
Le fogne di Tokyo nascondono un "uomo" misterioso e mostruoso: quando viene arrestato per un inspiegato e anarchico massacro a colpi di bombe a mano, verrà difeso da un avvocato francese che gli somiglia e che parla la sua lingua. Forse il meno convincente, punta direttamente alla pancia ed è caratterizzato da una ricerca insistita e insidiosa del fastidio perturbante: ma solo perché siamo in un campionato di soli fuoriclasse. In realtà la metafora misantropa, terrificante e perforante di Carax coglie nel segno. Forse un po’ tirato per le lunghe, ma coerente fino all’assurdo.

Shaking Tokyo di Bong Joon-ho
Come previsto, il gioiello più prezioso del trittico. Uno dei migliori registi sudcoreani parte in modo quasi cronachistico dallo spunto attualissimo degli hikikomori (i giapponesi che si chiudono in casa per mesi perdendo ogni contatto con la realtà) e dall’ossessione nipponica per le scosse telluriche per costruirci poi sopra una specie di favola romantica post-apocalittica ricca di rimandi fantascientifici e persino accenni horror (come l’immagine inquietante e terribile del volto dietro il vetro opaco) in cui l’amore improvviso è la spinta definitiva e unica verso la libertà – un film sull’indeterminato coraggio della libertà da sé stessi, curatissimo in ogni dettaglio, visivamente sconvolgente. Un piccolo capolavoro.

Far East Film Festival 11 – Udine 2009

[Far East Film Festival 11]

Dunque, sì, sono stato a Udine gli ultimi due giorni e mezzo, ho visto (solo) 10 film dei quali tra l’altro 2 erano re-visioni, ho scritto a riguardo alcuni brevi e raffazzonati commenti su Twitter, e a questo punto, evitando considerazioni generali su un festival che è comunque, dio lo benedica, il migliore a cui partecipare nel nostro paese senza lasciarci lo stipendio di due mesi e/o buona parte del proprio equilibrio psicofisico, è il caso di fare un breve riepilogo sui film visti.

Cina

Probabilmente, la cosa più bella che mi sia capitata in questo FEFF è Cao Baoping. Il suo Trouble makers, la cui proiezione udinese era stata bloccata qualche anno fa, è una commedia incredibilmente feroce sulla corruzione della provincia, che, viste le strettissime maglie, mi stupisce sia riuscita finalmente ad arrivare a noi. Meno male, comunque: nonostante fosse l’ultimo film della rassegna (leggi: stanchezza micidiale) è un film che mi sarebbe dispiaciuto perdere, e che spero che prima o poi, mettiamola così, "si renda recuperabile".

Ma non solo: il nuovo film di Cao si intitola The equation of love and death ed più che un bel film, e molto più che "un film che non sembra cinese": è il segnale di una vitalità e di uno stile originale che in Cina non si vedeva da anni. Un film assolutamente nuovo, teso e coinvolgente eppure semplicissimo, e con una stupenda Xun Zhou.

Invece The story of the closetool di Xu Buming è un film molto più riconoscibile: quello che colpisce è la bizzarria della sua trama (il rapporto quasi ossessivo-amoroso tra una ragazza e il gabinetto che si fa costruire nel cortile) che nasconde una riflessione molto trasparente sul progresso impossibile nella Cina di oggi.



Giappone

L’Audience Award se l’è portato a casa, come da copione, il giapponese Departures. Che però non ho visto. Ho visto invece Love exposure di Sion Sono, che era con tutta probabilità il film migliore del festival: l’unico a cui ho mollato un cinque nel famoso "cartoncino" con cui si vota a Udine, l’unico con cui oserei usare la Parolona Che Inizia Con La Ci. Ovviamente, non è per tutti: stateci voi quasi quattro ore a farvi bersagliare da un film che inizia come un romanzo di formazione di un giovane diviso tra daddy issues e crisi mistiche per poi diventare una commedia demenziale perversa, una love story commovente, un pamphlet satirico surrealista, e un sacco ma un sacco di di altre cose. Io ci sono stato, e ne è valsa la pena: stupendo.

Anche se tutti erano lì per Yatterman di Takashi Miike, che immagino sia l’unico film per cui state leggendo questo post. Volete sapere com’è? Molto dipende da quello che vi aspettate. Più o meno. Volete una versione fedelissima dell’anime originale? Lo è, ripetizioni comprese. Volete un film profondamente miikiano? Lo è, perversioni comprese. A me, non essendo io un grande fan dell’originale, di questo film decisamente squilibrato e non del tutto riuscito, è piaciuto più quest’ultimo aspetto: Miike riesce a tirare fuori il suo stile (avete presente quei momenti in cui tutto ma proprio tutto si ferma e anche le situazioni più triviali e deficienti diventano come per magia profonde e commoventi?) e le sue ossessioni (per esempio una specie di pazzesca versione cartoonesca del finale di Gozu, ma basterebbe il look di Kyôko Fukada, AKA Lady Doronjo) e la sua capacità visionaria (il film è molto molto bello da vedere, per chi se lo chiedesse, quasi di più nelle parti statiche che in quelle d’azione) persino in un film così, che è progettualmente – e irresistibilmente – fatto di plastica.

Il terzo film giapponese visto è stato Climber’s High, da cui però sono fuggito dopo una quarantina di minuti perché mi faceva schifo, e – nonostante qualcuno del FEFF mi abbia sgridato – da più parti mi han detto che non mi son perso niente.

Corea del Sud e Honk Kong

Due i film che sono andato a rivedere nonostante avessi già dato: l’occasione dello schermone del Teatro Nuovo non è una cosa a cui si rinuncia facilmente. Uno è l’hongkonghese Ip Man, incredibile biopic di arti marziali di Wilson Yip – che in sala guadagna persino punti mostrando tutta la sua potenza e il suo fascino – e l’altro è il sudcoreano The good the bad the weird di Kim Ji-woon, che nonostante non abbia spezzato il cuore del pubblico di Udine continuo a trovare un gran bell’esempio di cinema di intrattenimento dalla produzione eccellente (oltre al fatto che, lo ripeto, c’è poca gente che sa girare come Kim) con un occhio ben aperto al mercato. Non è stupido e inconsistente come sembra, e come molti dicono.

Sempre dalla Corea del Sud arrivava la commedia Scandal makers, opera prima di Kang Hyoung-chul che ha fatto un macello al botteghino in patria, e che effettivamente contiene un sacco di cose che piacciono al pubblico coreano: bimbi che fanno le facce buffe, adulti che fanno le facce buffe, storie che starebbero benissimo in un qualunque film con Hugh Grant senza dover cambiare una virgola. Il film ha fatto impazzire anche il pubblico del FEFF, arrivando secondo. Tutto ciò la dice lunga sullo stato in cui versa la commedia sudcoreana, ma devo ammettere che il film fa molto ridere – e a un certo punto, diventa un po’ l’unica cosa di cui ci interessa. Quindi, bando ai passatismi, va bene così.

Deludente invece The accidental gangster, che prova un po’ tutte le strade più modaiole del cinema di Seoul: il film in costume misto con la commedia demenziale-cartoon che nella seconda parte, senza alcuna transizione, diventa una specie di serissimo e pallosissimo melò con le arti marziali – e un duello finale che è tra le cose più yeeuch che io abbia visto fare in un film coreano. Siamo seri, suvvia.

Dream, Kim Ki-duk 2008

Dream (Bi-mong)
di Kim Ki-duk, 2008

Non ho mai nascosto il mio amore incondizionato per il cinema di Kim Ki-duk, regista che negli ultimi anni ha fatto qualche passo falso, ma che ho scelto di difendere parzialmente o totalmente anche con opere altrove discusse come Soffio, discutibili come L’arco, e persino Time – che, lo ammetto, era un film sostanzialmente sbagliato. Ma questa volta è diverso: Kim non era così in forma dai tempi di Ferro 3, film con il quale quest’ultima opera ha un rapporto di fratellanza minore, evidentissimo nel finale, per esempio, o nella colonna sonora. Ma Dream è un film che non si limita alla maniera, pur rientrando alla perfezione nei canoni dell’autore coreano e recuperando molte figure note come l’autoinflizione del dolore e il paradosso narrativo (qui anche linguistico: Odagiri Jô recita infatti in giapponese, anche se la cosa si perderà del tutto in un’eventuale edizione italiana). Un’operetta surrealista, inquietante e leggiadra al tempo stesso, che nonostante qualche ingenuità (come l’uso dello sfocato e dello step frame) sfrutta i meccanismi onirici, non per redarguire o riflettere su implicazioni psicanalitiche, ma per trarre la poesia dal cuore dell’inesplicabile, dall’immagine pura, dal simbolo, dal sogno. E, soprattutto: un film insieme astratto e sanguigno, insieme concreto e incorporeo: e la bellezza del film scaturisce proprio dal contrasto tra la fisicità delle ferite e del rumore dei colpi (di corpi colpiti, battuti, caduti), e la natura eterea dei corpi, pronti a dissolversi e a reincrociarsi in un abbraccio metempsicotico che fa il rumore, bianco, di un battito d’ali.

Non è ancora prevista un’uscita italiana. Nel frattempo, si può acquistare il DVD in edizione hongkonghese (Regione 3).

Beautiful, Jeon Jae-hong 2008

Beautiful (Areumdabda)
di Jeon Jae-hong, 2008

L’opera prima di Jeon Jae-hong è tratta da un racconto di Kim Ki-duk, che ha contribuito anche alla produzione del film, e non si può dire che non si veda. Quello che sorprende è come, nei risultati, l’allievo sia riuscito ad affiancare il maestro, almeno per quanto riguarda le sue opere più recenti. O persino a superarlo: su temi non del tutto distanti, per esempio, Beautiful è senz’altro più riuscito di Time.

Lo stile di Jeon è però molto più pragmatico rispetto ai toni rarefatti delle ultime opere del regista di Bonghwa, con un’attenzione maggiore nei confronti dell’elemento materiale più che di quello spirituale, e una sorta di strano e crudele realismo fiabesco che sostituisce ai paradossi spaziotemporali quelli narrativi, per il gusto puro del racconto morale.

Nel raccontare la storia di una giovane donna vessata dalla sua stessa bellezza (o meglio, dagli uomini che non riescono a controllarsi in sua presenza), Jeon costruisce infatti un affascinante ribaltamento narrativo, e lo spinge fino in fondo – senza paura di mostrare i lividi, il vomito, il dolore – ricavando una parabola sulla bellezza e sulla sua ricezione senza dubbio universale, ma che contiene anche un retrogusto decisamente amaro di critica sociale sulla repressione sessuale e sulla condizione delle donne nella società coreana.

Difficile dire che sia un’opera del tutto completa, segnata com’è da una certa semplificazione, da una fotografia capace ma che delega il fascino estetico ai volti degli attori, e da un (probabilmente ricercato) didascalismo nel trasmettere il suo messaggio. Ma è anche uno degli esordi più promettenti del cinema asiatico degli ultimi tempi – e sarà meglio tenere d’occhio questo nome, nel futuro.

Stupenda e bravissima la protagonista Cha Soo-yeon.


Il film è stato presentato nella sezione Panorama dell Festival di Berlino 2007. Non è per ora prevista alcuna uscita italiana. Il DVD coreano (Regione 3) si può acquistare qui.