Corea

The good, the bad, the weird, Kim Ji-woon 2008

The good, the bad, the weird
(Joheunnom nabbeunnom isanghannom)

di Kim Ji-woon, 2008

Il cinema coreano, si dice spesso, non sta attraversando il migliore dei suoi momenti. Ma ancora più della carenza di titoli che raggiungano i livelli di qualche anno fa, colpisce l’assenza di titoli che sappiano "bucare" l’attenzione internazionale attraverso acclamate (o chiacchierate) presenze nei festival o il sempre più dispersivo passaparola nella rete. Il quinto film del quarantaquattrenne regista di Seoul, in uscita in alcuni fortunati mercati europei in questo periodo, è un’eccezione.

Ma fino a un certo punto: vista la spendibilità internazionale di un film simile (anche soltanto perché chiunque conosce il western di Sergio Leone a cui il film di Kim si rifà vagamente, tanto più dopo il revival applicato da Tarantino di Kill Bill vol. 2, rispetto a cui TGTBTW è un po’ fuori tempo massimo) e vista la sua natura di annuale blockbuster sudcoreano (quello che il sublime The host fu per il 2006 e, ahinoi, D-War per il 2007) mi sarei aspettato, come dire, più rumore. Ma alla fine, chi se ne frega: peggio per chi se lo perde, uno dei film più divertenti della stagione e senza dubbio uno dei migliori western, sui generis, degli ultimi anni.

Infatti, nonostante qualche problema spiccato ed evidente – la durata prima di tutto, e taccio su tutto il resto perché preferisco concentrarmi su ciò che funziona – TGTBTW è uno spettacolo esaltante e spassoso, l’esempio che in Corea del Sud c’è ancora gente capace di fare cinema di puro intrattenimento senza far svaccare il tutto in puttanate cheap e modaiole. Certo, Kim Ji-woon abbassa notevolmente le sue ambizioni rispetto ai suoi bellissimi film appena precedenti, rinunciando a parte del suo fiammeggiante stile e lavorando più sul carisma degli attori: se su Song Kang-ho è inutile spendere altre parole di lode, la caratterizzazione più micidiale è quella dello spietato killer emo-punk con il volto della superstar Lee Byung-hun.

Ma anche se l’intensità di Memories e A tale of two sisters, e anche del troppo spesso sottovalutato A bittersweet life, sono distanti, non si pensi a un film sciacquato né tantomeno pigramente addormentato sulla scia del tarantismo più bieco: la messa in scena è ancora qualcosa di assolutamente straordinario, e se il ritmo si perde via nelle sequenze di raccordo, quelle più movimentate – oltre che ovviamente interminabili: si chiude definitivamente il cerchio tra lo spaghetti western e il cinema d’azione asiatico – sono quasi impensabili per la ricchezza e la cura delle inquadrature e dei movimenti di macchina, in una mescolanza irrefrenabile di grottesca esagerazione barocca e di rigorosa precisione che, davvero, non ha eguali al mondo. Figuriamoci nel western.

The Chaser, Na Hong-jin 2007

The chaser (Chugyeogja)
di Na Hong-jin, 2008

A questo film si è già fatto accenno qualche mese fa, in un cappello introduttivo sullo stato del cinema coreano "nuovo" in un contesto che si presenta come assai poco favorevole per la coltivazione, anche commerciale, dei nuovi talenti. The chaser, invece, ha fatto il botto: merito anche di un passaparola davvero notevole, visti i tempi, che però, per una volta, sembra faticare a varcare i confini del continente asiatico: demerito del film in sé, oppure è l’occidente a essere meno ricettivo nei confronti del cinema di Seoul?

Il discorso ci interessa fino a un certo punto, trovandoci di fronte a un film simile: perché se The chaser non segna nessun tipo di svolta o rivoluzione, marchiando il territorio persino meno dell’altro "esordio eccellente" della stagione (ovvero Epitaph), e se non è ai livelli di un modello come può essere Memories of murder, si può dire che l’opera prima del trentaquattrenne Na Hong-jin sia un esempio abbastanza esemplare dell’enorme potenziale espressivo e della vitalità narrativa dei giovani registi coreani. Che in questi caso si esprime attraverso un thriller fatto di corse, rapimenti, percosse, solitudini, disperazione, e un senso di ambiguità morale che abbina l’inanità delle istituzioni a un più profondo e radicato senso di impotenza di fronte all’assurdità della vita e della morte. E soprattutto a un’indole pessimista nei confronti delle responsabilità individuali.

Il talento di Na per le sequenze d’azione, incredibilmente "concrete" pur svolgendosi la maggior parte delle volte all’interno di scenari quasi iperrealisti – memorabili gli inseguimenti a piedi tra gli stretti vicoli di accaldate periferie, semideserte o semiabbandonate – fa il paio con questa sensazione di rassegnazione e disillusione cosmica che avvolge il mondo, (i personaggi lottano inutilmente con le unghie contro un destino nero che sembra sempre comunque già scritto), e l’uso sapiente ma spietato della violenza, unito alla performance gigantesca di Kim Yoon-seok nel ruolo di un protettore in corsa contro il tempo e contro il proprio senso di colpa, fanno di The Chaser qualcosa di più di un film semplicemente interessante. Uno dei thriller "metropolitani" migliori degli ultimi tempi, e una discesa inquietante negli abissi umani, e nei sempre più feroci e beffardi giochi del Caso. Senza dubbio, una firma da tenere d’occhio.

Il DVD coreano Regione 3 costa una ventina di euro. Fossi in voi ci farei un pensierino.

Forever the moment (Woo-ri Saeng-ae Choi-go-eui Soon-gan)
di Lim Soon-rye, 2007

L’avete mai visto un film sulla pallamano? Ecco: io sì.

Da principio, ho visto Forever the moment (che circola anche con il titolo, altrettanto moscio, Our finest hour) per poter esordire in questo modo: tra gli sport meno cinematografici che si possano immaginare, la pallamano sullo schermo non ha nemmeno quella piccola tradizione che il calcio, per dirne un altro, prova da sempre a crearsi intorno senza risultato. Molti non sanno nemmeno che esista, la pallamano. E no, non si gioca in acqua. Quella è pallanuoto, e quello nella locandina è sudore.

Però, grazie alla mano della regista Lim Soon-rye, le avventure di alcune giocatrici ultratrentenni in cerca di una seconda rivalsa nel mondo competitivo e spietato di uno sport che nessuno si fila – si intuisce già dalle primissime inquadrature, e la cosa segna moltissimo il tono sempre disilluso dell’opera, ma anche un contesto in cui è dato per scontato che si lotti per sé stessi e non per la gloria – diventa un film che riesce a funzionare alla perfezione pur all’interno della sua programmatica medietà. Cinema emblematicamente vaginale – ma non per forza nella peggiore delle accezioni – Forever the moment non dice mezza parola che fuoriesca dallo steccato del film sportivo, ma mostra per tutte le sue due ore ottime intenzioni. Soprattutto, per dirne una, nell’ottima caratterizzazione dei personaggi.

Poi c’è tutto il resto, quelle cose che danno sempre una marcia in più al cinema medio coreano rispetto al cinema medio di altri paesi: come la confezione eccellente, il cast perfetto (tra cui un’autentica star come Moon So-ri, anche se la mia preferita è Kim Jeong-eun), e la capacità e il coraggio di saper mandare tutto in vacca quando è il caso – anche se qui è la realtà, e i fatti notissimi in patria a cui è ispirato il soggetto, ad aver dettato le regole.

Non del tutto memorabile, quindi: ma non c’è nemmeno alcun motivo per dimenticarsene.


Presentato all’ultimo Far East Film di Udine.

Epitaph (Gidam)
di Jeong Beom-sik e Jeong Sik, 2007

L’horror coreano ha sempre dovuto convivere con la notorietà di quello nipponico: se si eslcude la fortuna (artistica e commerciale) di film come Two sisters, il film di paura di Seoul ha spesso vissuto della luce riflessa proveniente da Tokyo, oppure, nella maggior parte dei casi, non si è illuminato affatto, rimanendo all’ombra dei più noti esemplari giapponesi – con un nomignolo, k-horror, che non poteva essere più derivativo. Sono pochi insomma i film di questo popolarissimo genere prodotti in Corea negli ultimi anni a essere davvero memorabili: Epitaph è una gloriosa eccezione alla regola.

Costruito incrociando tre ghost-story abbastanza tradizionali, ambientate in un ospedale della Corea occupata nel 1942, nonostante abbia tre "capitoli" piuttosto distinti, il film riesce a non risultare "episodico" né frammentario. Grazie alla cerebralità della sceneggiatura, che incastra i personaggi comuni, le vicende e le location con grande perizia (e il rischio di una confusione, nell’eccesso, era altissimo), ma soprattutto per le tematiche comuni che rendono il film assai più coeso di quel che sembri a raccontarlo. La concezione dell’esperienza fantasmatica e ultracorporea come estensione del "caso clinico" di malattia mentale, per esempio, ma anche il più classico percorso narrativo di detection per il quale una situazione di stallo del soprannaturale viene superata scoprendo la "mancanza" che tiene i fantasmi "da questo lato", che sia il senso di smarrimento, la solitudine, il senso di colpa.

Le tre storie giocano anche con narratività, identità e personalità, e sono puzzle via via più complicati: eppure non stordiscono, anzi funzionano alla perfezione. Ma quello che entusiasma di più in Epitaph è l’incredibile talento compositivo e plastico dei fratelli Jeong: spavaldi e persino un po’ sbruffoni, aiutati dalla splendente fotografia di Yun Nam-joo (anch’egli all’opera prima), i due esordienti portano avanti un discorso estetico dai riferimenti eclettici ma precisi  – qualcuno segnala un forte debito nei confronti di Park Chan-wook, forse anche per i moltissimi valzer presenti nella strana colonna sonora dagli accenni hermanniani, ma si tiene conto anche della tradizione del j-horror appunto, pur senza dover ricorrere alle solite Sadako – e producono una delle opere coreane più belle a vedersi degli ultimi tempi (il lungo carrello in avanti che spalanca paraventi paradossali è roba da brividi sulla schiena) e soprattutto un film, viste le premesse, inaspettatamente compatto, cupissimo, malinconico, ed emozionante.

Poi, trattandosi pur sempre di un horror, anche se sui generis, non è affatto secondario che faccia paura. Una paura del diavolo.


Recensioni entusiaste su Variety e Beyond Hollywood, decisamente meno su Slant.

Once upon a time | Once upon a time in Corea
di Jeong Yong-ki, 2007

Nell’estate del 1945, un truffatore misterioso e sbruffoncello e una corteggiatissima cantante jazz che nel tempo libero è la ladra più ricercata in Corea si litigano un inestimabile diamante chiamato "La luce dell’Est", sullo sfondo dell’occupazione giapponese, della resistenza (rappresentata da due imbranatissimi camerieri), e della disfatta dell’esercito nipponico alla luce della fine della Seconda Guerra Mondiale.

Cinema coreano al minimo sindacale, e piuttosto vecchiotto (un film avventuroso, ironico e romantico nel modo in cui poteva esserlo, che ne so, Romancing the stone), gradevole nel suo essere programmaticamente stupidino (e poi a tratti improvvisamente serissimo, come al solito), anacronista, e storicamente acritico. Inspiegabile più che altro – se decontestualizzata – l’insistenza della sceneggiatura sui due camerieri, comedic relief di davvero cortissimo respiro, anche se nel pre-finale à la John Woo si dona loro un po’ di gloria. Molto meglio le grazie di Lee Bo-yeong, le improbabili canzonette da night club, la prevedibile beffa finale – che però arriva alla fine di un film talmente raffazzonato da risultare assolutamente sorprendente.

Tutto sommato non gli si vuol poi così male, se si ha voglia di staccare completamente il cervello per un paio d’ore.

Se proprio vi ispira, il DVD regione 3 in edizione limitata a poco più di 20 euro.

Our town (Woo-ri Dong-ne)
di Jeong Gil-yeong, 2007

Qualche anno fa la Corea del Sud, per contingenze economiche e culturali favorevoli, poteva permettersi di puntare e investire molto sui registi esordienti: ed era proprio nei moltissimi esordi che si andavano a cercare i futuri capisaldi del cinema di Seoul. Dopo qualche anno di stallo, sono in molti a indicare in certi film di questa stagione alcuni veri e propri lampi vitali. Film come Epitaph, l’enorme successo a sorpresa di The chaser (entrambi ancora da recuperare) e come, appunto, Our town.

Intendiamoci, Our town non inventa niente di nuovo: è un triangolo di morte tutto al maschile che coinvolge un poliziotto che indaga su una catena di omicidi, l’inquietante serial killer stesso, e come vero protagonista della vicenda un giovane scrittore, amico di infanzia del poliziotto, che si divide tra istinti omicidi e emulativi e l’indagine psicologica. Non c’è bisogno di dire che niente accade né è accaduto per caso, e che i tre scopriranno (sulla loro pelle) le connessioni che li uniscono. Ma quello che sorprende non è lo sviluppo narrativo, bensì il coraggio di un regista che al suo primo lavoro mette in scena un walzer di morte che lascia davvero poche speranze allo spettatore.

Non è nemmeno una questione di mera violenza. Certo, Jeong si rifà all’inaudito e qui spesso vertiginoso sadismo che è carattere di molto cinema di detection coreano: e a farne le spese non sono solo i personaggi – e le donne vittime dell’omicida seriale, appese come crocefissi pagani – ma anche alcuni animali, e qui ci vuole davvero un po’ di stomaco – anche se si vedrà che non è affatto una scelta fine a se stessa. Al di là di questo, a colpire duro è la coerenza con cui, nel tratteggio di tutti i personaggi, vengono fin da principio mescolate istanze profonde di immedesimazione e una progressiva disumanizzazione, negando agli spettatori la possibilità di sfuggire a questa progressiva discesa nell’innata malignità umana.

Date le premesse, tra cui la necessità di sostenere un tono davvero cupo e mortifero, qualche lungaggine (ma tutta la lunga sequenza "onirica", o meglio "ipotetica", è davevro sorprendente), parecchi spigoli da limare, il solito finale interminabile che porta alle estreme conseguenze – ma davvero – una storia che si rivela come profondamente passionale, Our town è un’interessantissima opera prima, solitamente bellissima a vedersi, e capace di abissi di disperazione che altri registi esordienti, magari più vicini ai nostri lidi, davvero si sognano.

La recensione di Variety, e quella di BeyondHollywood.
Reperibile in DVD regione 3, per esempio su Yesasia a meno di 18 euro.

[revisionismo]

Ribadire, ribadire, ribadire: è cosa buona e giusta.

Shadows in the palace (Goongnyeo)
di Kim Mee-jeung, 2007

Diciamola tutta, dalle parti di Seoul son tempi cupi, e già da tempo. Non vorremmo mai far la figura dei bambini che gridavano al lupo! al lupo!, ma se escludiamo un limitato numero di nomi altisonanti (Park Chan-wook e Bong Joon-ho in primis, e poi Lee Chang-dong e Im Sang-soo, Hong Sang-soo se avete quei gusti lì, e Kim Ki-duk se siete particolarmente caritatevoli) è un po’ di tempo che il cinema coreano non riserva le grandi sorprese a cui eravamo abituati anni fa, quando lo scoprimmo nel bel mezzo del suo canto del cigno. E se una delle "molle" del grande stravolgimento culturale erano i famosi contributi ai registi emergenti, dove cercare nuovi entusiasmi se non nelle opere prime?

Shadows in the palace, appunto, è un’opera prima, e in quanto tale è stata premiata con l’apposito premio agli ultimi Korean Film Awards, poche settimane fa. Anche per la formazione della sua regista, assistente di Lee Jun-ik sul set di quello sfasciabotteghini che fu The king and the clown, il film si palesa ad un primo sguardo disattento come una sorta di costola del film di Lee. Sul cui medesimo set, per dire, è stato girato. Dopotutto, se un film fa un tale ed enorme successo, cosa ci si può aspettare se non una miriade di emuli? Per quanto, agli occhi nostri, una moda implacabile com’è quella dei film ambientati nell’interminabile epoca Joseon, se decontestualizzata, possa apparire abbastanza inspiegabile.

Ma l’idea alla base dell’esordio di Kim Mee-jeung è invece davvero vincente: l’ambientazione è sì quella del film in costume, ma la vicenda ha le precise e ben consolidate fattezze della detective story. Ad aggiungere interesse a un film comunque ottimamente girato e visivamente molto interessante e curato (ma lì c’è in ballo anche lo straordinario talento dei direttori della fotografia coreani), ci sono anche altri elementi. Il cui primo e più evidente è il vero e proprio esercito di attrici, a cui fa capo la bellissima e versatile Park Jin-hee, che trasformano una vicenda complicatissima e intricata ma rispettosa delle regole globali del whodunit in una lettura completamente "al femminile" del tipico tema della coercizione gerarchica e sociale.

Ma c’è anche dell’altro, ed è un carattere essenziale che aggiunge interesse, alla sua autrice più che a un film la cui riuscita è minimizzata prima di tutto da un eccesso di sceneggiatura (è necessaria una notevole concentrazione, soprattutto se non siete avvezzi al sistema gerarchico dell’epoca Joseon), e ancora di più dalla svolta k-horror, vigorosa nella seconda parte e nel finale ma del tutto inessenziale allo svolgimento della vicenda, e un po’ appiccicaticcia. Questo carattere, si diceva, è lo spiccatissimo senso del macabro di Kim Mee-jeung, ipotetica futura marca espressiva di un’autrice da seguire e da curare per bene, che nei suoi barocchi eccessi gore (gole tagliate, mani mozzate, unghie strappate, una festa proprio) non solo richiama piacevolissimi presupposti slasher che hanno le loro radici anche nel cinema horror nipponico e – perché no – europeo, ma soprattutto ricorda da vicino la libertà che mostrava il cinema della Corea del Sud qualche anno fa, e che un poco ci manca.


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Secret Sunshine, Lee Chang-dong 2007

Secret sunshine (Milyang)

di Lee Chang-dong, 2007

Una giovane donna, rimasta vedova, si trasferisce da Seoul alla Milyang del titolo (secret sunshine è il significato etimologico), piccolo centro periferico di centomila abitanti dove suo marito era nato e cresciuto, per elaborarne la perdita e per ricominciare una vita differente. Verrà trafitta presto da un’altra tragedia, le cui reazioni la travolgeranno attraverso la crisi mistica, l’aggressività, l’autolesionismo, la rinuncia.

Al suo quarto film dopo Green fish, Peppermint Candy e Oasis, il celeberrimo romanziere e regista, nonché ex ministro della cultura sudcoreano, Lee Chang-dong torna a raccontare una storia che, nel contesto più collettivo possibile (qui il contrasto relazionale tra città e provincia), va in verità a scavare nell’intimità più profonda dell’animo umano. Secret sunshine è infatti un film sull’accettazione del dolore e sulla sua impossibilità, più antologico che antropologico nel tentativo di rappresentarne le manifestazioni, le reazioni, l’epifania e l’abbandono.

Un film ondivago e trasversale (ondivago nella rappresentazione e trasversale nella narrazione, e viceversa) girato per solenni accumuli (con una divisione in “settori” che tradisce l’amore di Lee per il racconto scritto) e poi per impietose sottrazioni (come il finale tronco), che sfrutta la straordinaria prova della protagonista Jeon Do-yeon per tracciare un percorso, umanista nel migliore dei sensi (ovvero di chi coglie non solo la profondità ma anche la contradditorietà di essere umano) e intellettualmente impagabile. E’ anche però un film che richiede allo spettatore una pazienza maggiore che in passato, per apprezzarlo in pieno.

Non perché sia noioso, nonostante la lunghissima durata: piuttosto perché non è così facile – per una certa benvoluta negazione, quando non un ribaltamento, dei crismi del melodramma – entrare, a piè pari, nella sfera emozionale della protagonista. La struttura ambigua e ricercata, che fa terminare il melò tradizionale dopo poco più di un’ora, per poi allungarne le conseguenze nella seconda metà, non aiuta a buttarci il cuore. A meno, ovviamente, di abbandonarsi del tutto nella vicenda, che di per sé è assolutamente straziante, anche se corretta e misurata grazie al contraltare recitativo del solito incredibile Song Kang-ho, e a inaspettati tocchi (mai ridicoli ma) ironici – magistrali quando vanno impietosamente a colpire la tentazione dell’uomo di pensarsi superiore al proprio dolore, per intervento divino – che cozzano volutamente con l’abisso di disperazione che coinvolge la sua protagonista.

Secret sunshine è forse, insomma, il film più difficile, complesso, stratificato, ma soprattutto il più disperatamente coerente, di Lee Chang-dong: il che non significa affatto che non si possa amare alla follia.

The Old Garden, Im Sang-soo 2006

The old garden (Orae-doen jeongwon)
di Im Sang-soo, 2006

Oh Hyun-Woo è un ex militante socialista uscito di prigione dopo più di 15 anni che, venuto a conoscenza della scomparsa della sua compagna Han Yoon-Hee, ripercorre nella sua memoria le tappe del loro incontro, a partire dal massacro di Gwangju fino alla sua cattura. I dipinti della donna e le sue lettere, mai giunte in carcere e conservate dalla madre, serviranno a raccontargli tutto il resto.

Dopo il magnifico The president’s last bang, il cinema di Im Sang-soo continua, con un movimento quasi lineare, a interrogarsi sulla storia della Corea del Sud alternando il fatto storico a una visione dolorosamente personale delle vite dei suoi protagonisti. E se là c’era una rilettura grottesca e violenta dell’assassinio del presidente Park Chung-hee, a essere dipinti in questo film sono la primavera di Seoul, le sue conseguenze, il clima politico e sociale degli anni ’80 in Corea, la militanza oppositiva e l’oppressione militare, ma sullo sfondo di un vero e proprio melodramma.

Rispetto all’asciuttezza e alla strabiliante alterità del film precedente, The old garden è quindi senza dubbio un film di più ampio respiro, sia storico che narrativo (per come rifiuta l’unità di tempo e spazio per allargare la visuale in uno stratificato meccanismo di flashback), che viene certamente più a patti con i gusti del pubblico (nonostante sia comunque durissimo, coraggioso e persino sfrontato) e non v’è dubbio che si perda buona parte di quell’originalità che faceva di The president’s last bang un oggetto alieno persino in un panorama come quello coreano. D’altra parte, la scelta di inserirsi nei canoni del melodramma spesso fa sentire il suo peso, come nell’improbabile inquadratura-quadro finale.

Ma Im è un regista che come pochi altri sa accostarsi alla Storia guardandola dritta in faccia, capace di fare un film profondamente politico che affronta senza mezze misure le contraddizioni di una e dell’altra parte, proponendo una visione della Storia per nulla rassicurante né rasserenata che – a costo di capire qualcosa di quello che sta accadendo: ma basta informarsi un po’ prima della visione – sa davvero commuovere, ma anche un film visivamente straordinario che non rinuncia affatto alla forte e liberissima personalità stilistica.

Magistrale la prova di Yeom Jeong-ah, già apprezzata come “matrigna” in Two sisters, non tanto per la mutazione assai tipica provocata dalla malattia del suo personaggio, ma per come sia riuscita a raccontare attraverso l’intensità del suo sguardo la sottrazione dei sentimenti, la frustrazione, l’attesa.

Memento mori (Yeogo goedam II)
di Kim Tae-yong e Min Kyu-dong, 1999
[Milano Film Festival 2007 - FocusCorea]

Uno dei film coreani più noti e "citati" di quell’onda travolgente di cinema di genere che stravolse il panorama asiatico alla fine degli anni novanta è la seconda parte di una sorta di saga iniziata con Whispering Corridors e terminata (per ora) con il bruttissimo Voice. Non avevo ancora avuto l’occasione di vedere Memento mori.

Nonostante le mie perplessità iniziali il film si è rivelato all’altezza degli anni passati nel frattempo. Certo, il cinema coreano di quegli anni ha prodotto cose di ben altro livello (e l’inserimento di Memento mori pone un altro mattone sull’argomento "questa rassegna puzza di vecchio") ma il film riesce per più di un momento, anche grazie all’incasinatissima struttura a incastri e flashback, a distanziarsi dalle tendenze modaiole per proporre una "alternativa" (in tutti i sensi) alla solita solfa di ragazzine vendicative venute dall’aldilà, dando più importanza alla una storia d’amore che non allo spavento – la parte propriamente horror è lasciata all’ultimo quarto d’ora, ed è perdipiù inefficace.

Ed è comunque pur sempre un film pieno di ragazzine coreane in divisa e sessualmente ambigue. Fate voi.

Joint security area (Gongdong gyeongbi guyeok JSA)
di Park Chan-wook, 2000
[Milano Film Festival 2007 - FocusCorea]

Chiaramente lo si era già visto se n’era già scritto abbastanza, ma l’occasione di vedere il primo "vero" film di Park su un grandissimo schermo era davvero ghiotta. Poi vabbé, la copia non era probabilmente in 35mm, era comunque sbiadita e hardsubbata, e in cabina ci hanno messo 20 minuti contati ad accorgersi che lo stavano proiettando doppiato in inglese. E vi assicuro che quelli fan più danni che noi. Ma questo non sminuisce la grandezza di un film che, si consideri minore o meno (personalmente non so mai cosa pensare a proposito), non perde un briciolo della sua strabiliante commozione alla seconda visione. Probabilmente nemmeno alla terza.

In sala, il pubblico era quello delle grandi occasioni. No, scherzo. Purtroppo eravamo pochini. Peccato. Un saluto a quelli che c’erano, volenterosi fino in fondo. Bravi voi.

Soffio (Breath) (Soom)
di Kim Ki-duk, 2007

Ai bei tempi, l’amico Gozu e io eravamo soliti sostenere la divertita sciocchezza che la filmografia di Kim Ki-duk fosse divisa in tre "fasce" ben distinte: i film bellissimi, quelli meravigliosi, e gli autentici capolavori. Stava poi al singolo distribuire i titoli nelle fasce: per esempio, The coast guard nella prima, Address Unknown nella seconda, Bad guy nella terza. Era un giochetto innocente, ovvio. Poi vennero L’arco e Time, e – come sappiamo – tutta la questione perse significato.

"Cos’è rimasto di quel cinema che ci faceva innamorare?", questo è il tipo di brutta domanda retorica con cui pensavo, o meglio temevo, di dover aprire questo post. Perché se Time, per esempio, era una svista perdonabile già a livello di progetto, Breath era concepito secondo traiettorie troppo promettenti per poter fallire il colpo. Invece l’ultimo film di Kim Ki-duk mi ha dato un impulso che, davvero, non mi aspettavo più. Forse è più un soffio leggero che un colpo di vento, ma mi ha saputo mostrare e dimostrare che il Nostro non ha ancora esaurito le sue carte.

E’ vero, Breath, per chi abbia masticato la filmografia di Kim, è un film facilissimo e quasi innocuo, in cui non c’è traccia dello strazio dei sensi che caratterizzava film come L’isola o Samaria. Per tutti gli altri, il discorso non è molto diverso: i simbolismi sono ancora spiattellati davanti agli occhi senza l’arbitrio della metafora, e non c’è molto da scoprire dietro questi corpi che si guardano, si feriscono, si danno e si tolgono la vita con la leggiadria di un bacio.

Ma è comunque la cosa che più si avvicina al cinema che aveva reso grande la fama di Kim dalle nostre parti, un film in cui Kim ritrova la migliore rappresenzazione della solitudine, dell’autolesionismo, e come negli anni migliori ritrova la sua inimitabile capacità di marcare il tempo con il silenzio, e di far parlare i corpi e gli sguardi. Trovando inoltre nei colori e nella musica di quelle stagioni paradossali uno dei momenti più felici e "completi" del suo cinema recente.

Se fossero ancora "quei tempi", che è difficile non ricordare con nostalgia – il tempo dei blog è differente: sembra davvero passata una vita intera – avrei davvero pochi dubbi sulla "fascia" in cui infilare Breath. Bellissimo.

I’m a cyborg, but that’s ok (Saibogujiman kwenchana)
di Park Chan-wook, 2006

I’m a cyborg è un film che ha uno scopo ben preciso, e si prefigge di definirlo nel modo più compiuto possibile. Si potrebbe persino parlare di film a tema, sotto questa prospettiva: disegnare l’affresco di un microsistema in cui verità e menzogna si incrociano e si fondono (il monologo iniziale di una mitomane, per di più in piano-sequenza, è una dichiarazione d’intenti), e con loro la realtà e l’immaginazione. Una volta tracciate le linee generali, procedere a mostrare come in un mondo dove tali regole sono ribaltate o confuse, anche i modi di rappresentazione e narrazione devono essere sovvertiti o mescolati. E così, tutta la seconda metà del film è un lunghissimo crecendo verso un climax che però riguarda un atto che "nel mondo fuori" è di una semplicità disarmante. In questo obiettivo, Park riesce alla perfezione: basti vedere quanto tutto il sovracitato pre-finale, nonché il finale romantico, sommesso, poetico e abbagliante, funzionino anche e soprattutto da un punto di vista emozionale, pur nella loro paradossalità.

Sarebbe però disonesto tacere del fatto che il film fa una fatica micidiale a ingranare: dopo gli splendidi titoli di testa, dove i credits sono creativamente mimetizzati nell’ambiente – altra dichiarazione d’intenti, per non essere preso troppo sul serio? – e dove racconto, flashback, passato, presente si mischiano in modo magistrale facendoci girare la testa, tutta la prima parte è volutamente lenta e sottotono, stralunata e inafferrabile, volta a delineare le relazioni tra i tantissimi personaggi – seguendo le orme di altri film ambientati in case di cura – più che a procedere in sviluppi diegetici. E da un regista – tutto sommato – concreto come Park, non ce lo si aspettava. Ci vuole, insomma, una bella dose di pazienza. Che però viene ripagata dalla svolta narrativa della seconda parte – che inizia approssimativamente dal "trasferimento" tra Il-Sun e Young-goon, o forse dal sogno ultra-visionario di Young-goon nell’incubatrice – che corrisponde anche a una notevolissima virata qualitativa del film.

Ma vi do un consiglio: se avete intenzione di vedere questo film, tra gli approcci possibili, scegliete quello più vergine. Lasciate stare i film precedenti di Park: quello è un percorso a cui sembra aver rinunciato definitivamente, sottolineando – si capisce – il suo desiderio di una "quiete dopo la tempesta", di una rinfrescante valanga – zuccherina, perché no – dopo le disperate efferatezze dei suoi film precedenti. Che poi ci sono, anche qui, ma sublimate in un paio di straordinarie sequenze semi-oniriche. Da un lato però – basti pensare a quanto si trovi qui della complessa struttura ad incastro (soprattutto nell’incipit) e dell’ironia diffusa e sorniona di Lady Vendetta – si potrebbe parlare anche e tranquillamente di un’evoluzione. Anche se i risultati non sono gli stessi, va da sé.

Il problema di I’m a cyborg è quindi, più che altro, un problema nostro: siamo ormai così abituati a considerare i film di Park Chan-wook come la vetta delle nostre classifiche annuali che non sappiamo più accontentarci. Forse siamo noi a dover fare ammenda, e accettare che il Nostro Prediletto possa girare dei film che siano – come I’m a cyborg, but that’s ok è, innegabilmente – semplicemente bellissimi, dolcissimi, commoventi e – inspiegabilmente, o forse magicamente – di un’universalità quasi spaventosa. E forse nulla più. L’importante è non smettere di sperare che Park possa produrre altri Capolavori in futuro. Magari, chissà, con un paio di canini aguzzi.

[nel vostro negozio di fiducia]

Ed era anche ora.

[i miei post su Seom, Bad Guy, Address unknown]

The host (Gwoemul)
di Bong Joon-ho, 2006

"L’avete mai sentito dire? Il cuore di un padre che perde un figlio… Quando il cuore di un padre si spezza quel suono viaggia per chilometri. Ecco, avevo proprio bisogno di dirvelo."

Non si poteva chiedere di più, dal terzo film di uno dei migliori registi della Corea del Sud, già responsabile del bizzarro Barking dogs never bite e soprattutto del meraviglioso Memories of murder, perché The host è qualcosa più che un – innegabilmente – ottimo film di intrattenimento. Che già basterebbe. E lo è proprio nel senso in cui abbiamo imparato negli anni ad amare il cinema di Seoul e dintorni, ovvero una perfetta sintesi di uno schietto animo commerciale (il film è costato – e ha incassato – moltissimo, e produttivamente è un autentico blockbuster), l’interesse tutto coreano per lo studio dei generi e il pastiche (un family drama with monster?), l’amore spudorato per il melodramma e il disamore per le "risoluzioni semplici", e un discorso politico e sociale spesso sotteso che in questo caso non si ferma alla metafora ma – ancora una volta, grazie ai riferimenti alla cronaca – colpisce dove fa più male.

The host è insomma tutto ciò, un film complesso ma mostruosamente divertente – nel mio caso con sbalzi di entusiasmo quasi infantile – con tocchi di ironia inattesa (i figli che si addormentano mentre il padre fa "il" discorso) ma con un finale delicatissimo, intimo e commovente. E poi, un film visivamente stupendo, con una ricercatezza nella scelta dell’inquadratura che nel cinema mainstream occidentale generalmente ci sognamo, e un numero incredibile di scene al cardiopalma e girate con una straordinaria perizia tecnica (spesso piani lunghi, lunghissimi , con il mostro che "danza" insieme ai e sui movimenti di macchina) ma alternate a una "cornice" che si prende i suoi tempi e che va a pescare nei cuori dei personaggi grazie solo a uno sguardo (il cast in questo è eccezionale, nessuno escluso – ovvia la preferenza per Song Kang-ho).

E un mostro grosso, grossissimo, che sì afferra le persone con la coda e vomita ossa, ma che soprattutto, con la sua apparizione subitanea – la scena sul fiume è roba da antologia del cinema di genere – e con la sua presenza continua (e non "negata" come accade ormai da molti anni nel cinema horror occidentale e non solo) ribalta tutto da solo molte concezioni e convenzioni contemporanee dello "spavento" dai tempi di Alien. Permettendosi anche di concentrarsi anche su altro, sulla storia di una famiglia che lotta per la sopravvivenza, di uomini che si (ri)scoprono padri, e si (ri)scoprono figli e fratelli, e anche su quella di un paese, inconscio prigioniero culturale, vessato da un’occupazione a metà come quella di molti altri, e di una terra che si solleva dall’acqua, e si rivolta mordendo.

The host è un film che riappacifica totalmente con un cinema che ci mancava tantissimo, che – tolti i soliti noti ormai assunti alla notorietà globale – stavamo per dare per spacciato, ma che, finché ci sarà gente di cinema come Bong, continueremo ad amare e seguire con passione.

Non vedremo questo splendido film in Italia, e forse non ce lo meritiamo. Tre cinepanettoni, e nessun mostro grosso? Sappiate che con un briciolo di impegno e pazienza – voi sapete come, sennò chiedete pure al sottoscritto – ora potrete possederlo in una qualità molto più che dignitosa. E vendicarvi così dei signori che l’hanno bellamente ignorato.

Oppure potete comprarlo qui. Seh.

Memorabilia: [The Mostro Grosso Blog Aggregator]

Time (Shi gan)
di Kim Ki-Duk, 2006

Ultimamente, quando si parla di Kim Ki-duk, mi tocca fare l’avvocato del diavolo. Cinebloggers a parte, sempre sorprendenti nel loro massacrarsi a vicenda su ogni titolo possibile, sono veramente tanti – sicuramente una maggioranza – quelli che hanno bocciato senza tanti fronzoli l’ultimo filmetto del nostro predilettissimo regista di Bonghwa. Io stesso, viste le premesse, non ero più nemmeno così disperato dal fatto che la città che ha disastrosamente scelto di darmi i natali avesse ignorato bellamente la pellicola alla sua uscita, adducendo come scusa l’inerte cartello "chiusura estiva", prima che un ridente paesino della provincia decidesse di programmarlo a metà ottobre nella sua rassegnuccia proto-catechistica.

Sono d’accordo con molti di voi, usando la categoria del "bello" un po’ a casaccio ma premiandone i risultati, sul fatto che Time è forse il meno bello tra i film di Kim Ki-duk. Persino meno de L’arco: meno curato, meno "forte", meno (nel bene e nel male) sorprendente. Ma stranamente, toh!, (cambiando terminologia ad hoc) è più "riuscito" del precedente. Ma mai ci saremmo aspettati da costui un film – seppure così profondamente suo - così leggero, con toni che, a dispetto di un’inquietante linea narrativa di amore, identità e ossessione, sfiorano a tratti la commedia sentimentale.

Genere che non è propriamente nelle corde del nostro (lo si capisce dal fatto che faccia più ridere quando non vuole piuttosto che quando la butta in pochade), così come non lo è la parola parlata: la sceneggiatura non è così pessima come la si è dipinta altrove, ma oltre a contenere alcune frasi di inenarrabile bruttezza, non riesce a replicare quell’incredibile e silenzioso distacco immersivo (lo so, è un ossimoro, e non so nemmeno che diavolo sto dicendo) che rendeva grandi, grandissimi, i suoi film del passato.

Ma come direbbe Guido Meda, Kim c’è. E dopo un film passato a chiedersi se il nostro si sia parzialmente rincoglionito, e abbia girato per la prima volta un film indiscutibilmente brutto (o comunque davvero, ma davvero, difficile da difendere), arrivano almeno 10 minuti finali che, rimandando a molto del suo cinema precedente (soprattutto ai paradossi spaziotemporali di Bad guy), fanno quadrare il tutto con disperata precisione, e riconciliano del tutto con un film che, sempre nell’ambito di un’operetta un-po’-da-poco, senza troppi vertici (tutta la formidabile sequenza della pistolera) e con molti baratri (il parco con le statue para-kimkidukiane), sull’amore e su altre sciocchezze ha sì, eccome, qualcosa da dire. E lo dice con una semplicità disarmante, e con meno spocchia del solito (e del previsto).

Doppiaggio italiano indegno persino di Kiss me Licia, tra i peggiori che io mi ricordi di aver sentito nella mia breve vita. Chissà come suonavano meglio in coreano piccole perle di saggezza come "lavati", "ora sono più vecchia ma ci sto", oppure (e soprattutto) "andiamo a sparare, dico, con i proiettili veri?".

The king and the clown (Wang-ui Namja)
di Lee Jun-ik, 2005

Il cinema coreano sarà pur tra le cinematografie più interessanti e stimolanti del pianeta, ma il pubblico locale dimostra spesso di avere dei gusti abbastanza insondabili. A parte meraviglie come JSA o Welcome to Dongmakgol, non sempre i migliori film della stagione sono quelli più redditizi: basti pensare allo storico successo del pessimo Shiri, o al fatto che il cinema di Kim Ki-duk sia poco apprezzato e praticamente invisibile in patria (L’arco uscì in circa 3 sale per una settimana).

Caso eccellente è proprio The king and the clown, il campione di incasso storico dei botteghini della Corea del Sud: è il film coreano più visto in sala, nella storia di quel paese. Il problema è che il film di Lee, dramma storico-politico ambientato nel ’500 che si inserisce nel trend internazionalizzato – semplificando molto – delle storie d’amore omosessuali, e che vorrebbe avere premesse simili a quelle di Gohatto, nel confronto ci perde davvero la faccia e risulta inferiore persino a Brokeback mountain, soprattutto nella pessima gestione del melò.

I problemi del film sono poi molteplici, sia in fase di regia e fotografia, professionali ma terribilmente piatte, sia in fase di scrittura, dove più che altro alberga la noia, se non una trita banalità. Nonostante i temi trattati: più che una vera storia d’amore, il film suona come un’apologia piuttosto esplicita (fin troppo) della satira e dell’irriverenza nei confronti del potere. Una sorta di metafora anacronistica, quindi, che rimanda ai sistemi di censura e forse – nell’interpretazione un po’ elementare di Jeong Jin-yeong, sovrano folle e mitomane – alla figura del dittatore nordcoreano Kim Jong-Il.

In definitiva però, la scarsa riuscita del film è applicabile in relazione all’enorme successo ottenuto nelle sale coreane (ottenuto anche grazie al passaparola, e a folle di ragazzini che andavano a vederlo e rivederlo più volte), perché il film di per sè non è nulla di eccessivamente disastroso. Anche se sbaglia gran parte del cast e persino gli intermezzi comici, potrebbe farsi ricordare per l’onestà intellettuale con cui affronta i suoi temi, davvero delicatissimi. Ne abbiamo davvero bisogno?

Saving my hubby (Gudseura Geum-suna)
di Hyeon Nam-seob, 2002

Saving my hubby è una commedia coreana che si inserisce nel filone nottambulo – molto popolare negli anni ’80 – che ha partorito film come Fuori Orario, Tutto in una notte, eccetera. Avventure quindi ambientate nell’arco di in un’intera notte, in cui il protagonista deve raggiungere – in senso "favolistico" – uno scopo ben definito. Anche qui c’è in ballo la struttura della favola, e la protagonista è una ex-pallavolista (che quindi ha uno schiaffo che ti raccomando) il cui marito è stato rapito da malintenzionati mafiosetti: esce di casa per andare a riprenderselo, con la sua bimba cicciottella sul groppone, e sulla sua strada incontrerà le molte gentilezze degli emarginati e le stranezze della gente che vive di notte. Oltre ovviamente a due bande di gangster sul piede di guerra.

Il film è una commedia scanzonata e divertente, che limita persino i soliti i cambi di registro o i rallentamenti improvvisi tipici del cinema coreano buttandola decisamente sul versante cartoonesco (quello per cui se cadi da un tetto su sacchi della spazzatura sopravvivi), su un’idea di commedia abbastanza collaudata e senza particolari invenzioni, ma con un ritmo incalzante e spesso irresistibile. Ma, diciamocelo, il film è soprattutto Bae Du-na (splendida interprete di Mr.Vengeance e Linda Linda Linda) ed è tutto sulle spalle del suo faccino sconvolto, poi stupito, e infine pronto a tutto pur di salvare il maritino. Il film è quasi tutto lì, nelle sue reazioni perfette, nelle sue ritrovate schiacciate: la Bae ci dispone talmente bene che possiamo benissimo ignorare tutti i difetti del film, innamorati persi.


Oltre ai soliti Davide Cazzaro e Matteo di Giulio, da segnalare il lunghissimo articolo di Chicco Q su Plasticpassions e il post di Gokachu su Cinemainvisibile, che ne parlò più di tre anni fa.

When romance meets destiny (Gwangshiki dongsaeng gwangtae)
di Kim Hyeon-seok, 2005

Tra i film che non sono riuscito a vedere al FEFF8.

Diretto da uno degli sceneggiatori di JSA, When romance meets destiny è una commedia coreana abbastanza tipica, piacevole e intelligente, divertente e ben confezionata, e persino con qualche arma in più della media: come la struttura, che gonfia il "preludio" fino a due terzi di film (mostrando il titolo del film solo dopo un’ora, e dedicandosi quindi più all’osservazione dei personaggi che non alle loro azioni) e che incrocia saggiamente gli alterni destini dei suoi due protagonisti.

Senza troppe sbavature e senza l’eccesso di trivialità e volgarità di operazioni simili (come Everybody has secrets), ma con tenerezza e sensibilità (anche grazie agli attori, tutti molto bravi) e senza abdicare al "finale prevedibile a tutti i costi". Anche a costo di perdere – inevitabilmente – un po’ di mordente nell’ultimo terzo di film. Comunque, non si è qui di certo a gridare al miracolo, ma vorremmo vedere anche film simili nei nostri multisala. Vi piacerebbero, ci metto la mano sul fuoco.

Assolutamente inspiegabile (perché uno spoof nel mezzo di una commedia romantica?) la scena in cui il protagonista irrompe nella chiesa al ralenti con la musichetta di A better tomorrow. Ma sta di fatto che ho riso come un imbecille.