The good, the bad, the weird
(Joheunnom nabbeunnom isanghannom)
di Kim Ji-woon, 2008
Il cinema coreano, si dice spesso, non sta attraversando il migliore dei suoi momenti. Ma ancora più della carenza di titoli che raggiungano i livelli di qualche anno fa, colpisce l’assenza di titoli che sappiano "bucare" l’attenzione internazionale attraverso acclamate (o chiacchierate) presenze nei festival o il sempre più dispersivo passaparola nella rete. Il quinto film del quarantaquattrenne regista di Seoul, in uscita in alcuni fortunati mercati europei in questo periodo, è un’eccezione.
Ma fino a un certo punto: vista la spendibilità internazionale di un film simile (anche soltanto perché chiunque conosce il western di Sergio Leone a cui il film di Kim si rifà vagamente, tanto più dopo il revival applicato da Tarantino di Kill Bill vol. 2, rispetto a cui TGTBTW è un po’ fuori tempo massimo) e vista la sua natura di annuale blockbuster sudcoreano (quello che il sublime The host fu per il 2006 e, ahinoi, D-War per il 2007) mi sarei aspettato, come dire, più rumore. Ma alla fine, chi se ne frega: peggio per chi se lo perde, uno dei film più divertenti della stagione e senza dubbio uno dei migliori western, sui generis, degli ultimi anni.
Infatti, nonostante qualche problema spiccato ed evidente – la durata prima di tutto, e taccio su tutto il resto perché preferisco concentrarmi su ciò che funziona – TGTBTW è uno spettacolo esaltante e spassoso, l’esempio che in Corea del Sud c’è ancora gente capace di fare cinema di puro intrattenimento senza far svaccare il tutto in puttanate cheap e modaiole. Certo, Kim Ji-woon abbassa notevolmente le sue ambizioni rispetto ai suoi bellissimi film appena precedenti, rinunciando a parte del suo fiammeggiante stile e lavorando più sul carisma degli attori: se su Song Kang-ho è inutile spendere altre parole di lode, la caratterizzazione più micidiale è quella dello spietato killer emo-punk con il volto della superstar Lee Byung-hun.
Ma anche se l’intensità di Memories e A tale of two sisters, e anche del troppo spesso sottovalutato A bittersweet life, sono distanti, non si pensi a un film sciacquato né tantomeno pigramente addormentato sulla scia del tarantismo più bieco: la messa in scena è ancora qualcosa di assolutamente straordinario, e se il ritmo si perde via nelle sequenze di raccordo, quelle più movimentate – oltre che ovviamente interminabili: si chiude definitivamente il cerchio tra lo spaghetti western e il cinema d’azione asiatico – sono quasi impensabili per la ricchezza e la cura delle inquadrature e dei movimenti di macchina, in una mescolanza irrefrenabile di grottesca esagerazione barocca e di rigorosa precisione che, davvero, non ha eguali al mondo. Figuriamoci nel western.