Corea

[FEFF8]
Welcome To Dongmakgol,
PARK Gwang-hyun, 2005,
fantasy, European Premiere

Per il film di chiusura del festival era difficile chiedere di più: il primo lungometraggio di Park, ambientato durante la guerra di Corea, con toni che mescolano fantasie utopiche e infantili e la tangibile durezza della guerra, racconta una storia di amicizia e di cooperazione, di ristabilito equilibrio con la natura e con la natura umana, e di riscatto catartico individuale e collettivo dagli orrori (e dagli errori) della guerra. Cinema emozionante e universale, lieve e commovente, umanista ma profondamente pessimista da un punto di vista storico, una mescolanza di cinema di consumo e profondità autoriali come solo in Corea (quelli bravi) riescono a fare. Applausi a scena aperta in teatro alla scena dei pop-corn, ma anche il cinghiale ha fatto strage di cuori. Personalmente, ho sentito brividi indicibili quando Pyo sdraiato sull’erba ricorda l’orrore a cui ha assistito, e viene svegliato dal volto folle, luminoso e anarchico – come la natura – della splendida Gang Hye-jung. Difficile chiedere di più: e infatti ha vinto l’Audience Award.

[FEFF8]
You Are My Sunshine,

PARK Jin-pyo, 2005,
romantic comedy, European Premiere

Melodrammone coreano che, per ricattare nel modo più efficace possibile i suoi spettatori, sceglie dei temi leggerini: lo sfruttamento della prostituzione, il pericolo dell’AIDS, l’ignoranza sanitaria dei coreani, la bigamia, l’ingenuità dei campagnoli. Un pachiderma ben congegnato, noioso e insopportabile quanto si prospettava, con un bel finale (anzi tre), due bravissimi attori (lei era in No blood no tears, lui un po’ ovunque), una sola canzone in tutte le salse possibili, e un botto di mucche. Centoventitré lunghissimi minuti.

[FEFF8]
Bystanders,

IM Kyung-soo, 2005,
action thriller, International Festival Premiere

Se un thriller ti fa venir voglia sonnecchiare, non è un buon segno: pensate se il film è pure una mezza schifezza. Dopo cose come Tell me something e H, è un peccato vedere che qualcuno non ha imparato. Non sembra nemmeno un thriller coreano, Bystanders: persino la cura visiva – seppur discreta – è ettometri sotto i livelli del cinema di Seoul. Ma quel che è peggio, è che Bystanders è un film noioso come il limbo degli ignavi, ed è un film che non ne azzecca una: si capisce tutto subito, ci sono i detective più inutili del mondo (perché scoprono poco, le cose gli cascano tra le braccia), il punto di partenza già abusato in tutte le salse viene persino peggiorato, e i poliziotti coreani menano i sospetti, ma non quanto avresti desiderato. Tra gli episodi più sconsolanti del genere, da dimenticare in fretta. Ottima la coppia di protagoniste femminili, la bravissima Shin Eun-kyung di My wife is a gangster e la Kim Yoon-jin di Lost, e buoni gli spunti comici offerti dalla Shin (la Kim invece è una frignona), ma non bastano. Non vedi l’ora che finisca in fretta, ma tanto – ovviamente, come al solito – ci sono quattro finali. Contati.

[FEFF8]
Sa-Kwa,

KANG Yi-kwan, 2005,
drama, Italian Premiere

Sa-Kwa è un film in cui non succede niente. Stai tutto il film a pensare che prima o poi succederà qualcosa, e invece non succede niente. Si crea a piccolissimi e lentissimi passi un contesto socio/culturale che sembra star lì a preparare qualcosa, un fatto, un cazzo di trauma, anche minuscolo. Che poi però non succede. Si cerca di costruire un personaggio femminile complesso, ma poi – visto che non succede niente – si è vista solo una tizia sullo schermo per quasi due ore. Ci sono buone interpretazioni, location originali, un approccio romanzesco abbastanza inusuale per il cinema coreano (appunto, perché non succede niente), un occhio potenzialmente interessante sui rapporti tra uomini e donne in Corea (gli uomini sono egoisti, le donne sono stupide) e sul rapporto tra le diverse culture (città, periferia, campagna). Questa vacuità narrativa sarà anche progettuale, ma non cambia nulla: un film tristissimo, mortalmente noioso, e pressoché inutile.

[FEFF8]
Voice,
Equan CHOE, 2005,
Horror Day, Italian Premiere

Ed ecco a voi un’altro mirabile post su un film da cui sono scappato a gambe levate: il quarto episodio della saga "kor-ror" iniziata con Whispering corridors non è solo un horror targettizzato per le liceali coreane insicure, il che basterebbe a smontarlo agli occhi di chiunque non sia una liceale coreana insicura, ma è anche un horror misero, funereo e pallosissimo. Fuori dalla sala dopo una mezz’oretta, e pure in abbondante compagnia. Ma tanto per tappare i sensi di colpa, sono rientrato sul finale, per vedere – che so – se si era ripreso con il tempo. Mi sono solo fatto del male. Un film che apre con lo spartito-killer e che chiude con la lampadina assassina. Lo so che sembra buffo, ma no, non lo è.

[FEFF8]
Vampire Cop Ricky,

LEE Shi-Myung, 2006,
action comedy, International Festival Premiere

Posso permettermi di giudicare un film dopo meno di mezz’ora di proiezione? Visto che sono poi rientrato a più riprese e le cose non cambiavano, diciamo di sì. In tal caso, statene alla larga: Lee prende una buona idea (il vampirismo come metafora dell’ipereccitazione del maschio contemporaneo – più o meno), che in toni demenziali avrebbe potuto diventare quantomeno divertente, e la butta nel cesso applicandovi sopra un’inutile e noiosissima storia poliziesca, l’action più fasullo, qualche cameo figo (il tizio dell’incipit di Oldboy fa il cacciavampiri), e ovviamente una commediaccia bislacca e volgarotta. Ora capite perché sono fuggito dopo meno di mezz’ora di proiezione?

[FEFF8]
All For Love,

MIN Kyu-dong, 2005,
romantic comedy, International Festival Premiere

Sarà il clima del festival, o sarà che io sui coreani sono poco attendibile, ma io All for love me lo sono proprio bevuto. Il film è costruito sul modello dei film corali statunitensi (Altman, Anderson, così via) e soprattutto – almeno pare, io non l’ho visto – su Love Actually. Sembra che l’esperimento – non ricordo altri coreani simili – sia perfettamente riuscito: All for love gira intorno a una miriade di personaggi, con singole scene che all’inizio sono saggiamente microscopiche per poi allungarsi (donando una leggerezza rara alla visione, nonostante il caos), e con un tono che parte dalla commedia romantico-brillante per sfociare poi nel dramma e infine in una catarsi collettiva. Forse un po’ conciliatoria – anche se non per tutti – rispetto al cinema coreano che siamo abituati a vedere, generalmente molto più crudele con i suoi personaggi. Qui Min è persino sadico-apocalittico nella parte centrale, ma a tutti alla fine è data una seconda chance. E poi, cacchio, l’amore trionfa. Non è bellissimo? Forse il film coreano più esportabile che mi sia mai capitato di vedere, personalmente una graditissima sopresa.

[FEFF8]
Murder, Take One,
JANG Jin, 2005,
thriller, International Festival Premiere

Il nuovo film del regista di due film interessanti come Someone special e Guns & Talks è il racconto di un’indagine su un omicidio, raccontata in capitoli, ed è un film – se si può ancora dire – "coreanissimo": non contento di creare un estremo trambusto con i due 271 personaggi, Jang decide di basare il fascino del film – oltre che su una regia e su un montaggio sonoro molto sofisticati – sulla mescolanza continua dei generi. Così, se per tutto il film il thriller-noir più serio – con il solito balletto di interrogatori e poliziotti che menano i sospetti, un classico – va a braccetto con toni da commedia o addirittura da comedians, nell’ultima parte senza alcun preavviso diventa un ghost-movie. Tutto attorno all’indagine, una riflessione sull’invasività dei media (l’indagine è trasmessa in tv con grande successo: questa l’ho già sentita) che però fa un po’ acqua, mentre funziona meglio l’apparato visivo (l’inizio, con il carrello a salire che scopre la sezione dell’albergo è un pezzo da maestro). Comunque un bel film, molto tosto e ipnoticamente confusionario, ma cool e "eccitante". Probabilmente dimenticabile dopo una mezz’ora, ma dimenticabile con gran classe.

[FEFF8]
Love Is A Crazy Thing,

OH Seok-keun, 2005
romantic drama, Italian Premiere

Non ci si faccia ingannare dal titolo per la distribuzione internazionale: Love is a crazy thing non è una commediola né un film serenamente romantico, ma un dramma femminile che parte dalla crisi personale di una bella donna trentenne che per mantenere i due figli diventa un’accompagnatrice part-time, e finisce per parlare di auto sopravvivenza e del desiderio/bisogno di essere madri (due temi ricorrenti al FEFF8), di disperazione e solitudine, e soprattutto di prostituzione dell’individuo nella società coreana. Inutile dire che, come spesso accade, il film è quasi assolutamente universalista nel modo in cui tratta i suoi temi: così, è impossibile non rimanere sorpresi, scioccati, commossi. Un film che non scende troppo a patti con il pubblico, che sa essere duro e picchiare nei punti dove fa più male – anche letteralmente – e che, nonostante sia registicamente poco personale rispetto a molti suoi contemporanei, inventando poco – le ellissi/dissolvenze – e dedicandosi per lo più alla direzione degli attori (va detto che in Italia se qualcuno girasse in questo modo grideremmo al miracolo), ottiene la mia totale approvazione. Jeon Mi-seon è bravissima, quasi un’altra Lee Yeong-ae. Il tipo di cui si innamora è il gemello segreto di Quentin Tarantino.

[FEFF8]
Art of Fighting
,
SHIN Han-sol, 2006,
action, International Festival Premiere

Art of fighting è l’altra faccia di See you after school, il suo lato lower class (Cinema service versus CJ Entertainment?). Entrambi parlano della riscossa di un perdente sui bulli che lo malmenano a scuola. Ma là c’era il demenziale, le scaramucce, le divise, le arti marziali. Qui c’è la strada, il sangue, lo sputo, l’istituto tecnico, il riformatorio. E una lotta che è sporca come la strada e come le case, e come gli esseri umani che le popolano. E anche se la storia, usando la definizione di coma, è quella di un "Karate Kid de borgata", e non si risparmia anche di "scherzare" il pubblico rinverdendo l’abbinamento ormai spesso desueto tra cinema coreano e violenza quasi-gratuita, la rivincita "scorretta" di Byung-Tae sui soprusi dei suoi colleghi non fatica ad emozionare. Schietto e ironico, sornione e mai prevedibile. Niente male davvero.

[FEFF8]
See You After School,
LEE Seok-Hoon, 2006,
action comedy, International Festival Premiere

Il primo giorno in una nuova scuola per il "ragazzo più sfigato del mondo" (in senso clinico, è pure oggetto di studio), raccontato attraverso continue scansioni temporali, diventa il giorno della sua riscossa. Qualche volta la comicità, come nei modelli nerd vs bullies statunitensi, è propriamente demenziale quando non scatologica. Si ride di gusto, senza troppa vergogna ma senza nemmeno cadere nello schifosetto come in lavori simili come 100 days with mr arrogant. Ma essendo una commedia coreana, e abbastanza tipologica di quelle che in patria di solito sbancano le casse e la cui forza è l’intreccio dei generi (oltre che la confezione professionalissima anche se impersonale), alla commedia si sostituisce nel finale una svolta tragico/epica assolutamente fuori luogo, e, proprio per questo adorabile. See you after school è un film che faresti vedere ai tuoi migliori amici, e – vista la reazione della sala, tra applausi a scena aperta e un fondo continuo di risa – vi divertireste tutti come degli idioti. Evviva.

[FEFF8]
Rules of Dating
,
HAN Jae-rim, 2005,
romantic drama, European Premiere

Se una cosa mostra con chiarezza Rules of dating, film di un giovane e esordiente ma non privo di un certo talento registico, è che il sistema di narrazione e rappresentazione del cinema "mainstream" coreano, crisi commerciali e artistiche a parte, ha di per sè un qualche tipo di valore aggiunto, in qualche modo alchemico, che può persino salvare un prodotto dal disastro (ovvio, non lo fa sempre). Insomma, Rules of dating non funziona molto bene, o almeno non funziona sempre bene: è pesante, un po’ pedante, noiosetto, messo tutto sulle spalle di due bravissimi attori (entrambi vere star, visto che vengono da Oldboy e Memories of Murder), che però non possono tenere il peso di due ore secche (i minuti di troppo li si sente nei troppi finali). Però, tra indecisioni e mollezze, tra gentilezze romantiche e cattiverie tipicamente coreane (tipicamente, nel senso che il modello del ribaltamento delle "regole del’appuntamento" è abbastanza oliato a Seoul) ma persino più incisive del solito, ci sputa dritta in faccia un po’ di verità come in pochi romance recenti ci era capitato. E se siamo in una sala gremita di gente per l’apertura di un festival straordinario come il FEFF, la lacrimuccia potrebbe anche fare capolino.

Arahan, Ryu Seung-wan 2004

Arahan (Arahan jangpung daejakjeon)
di Ryoo Seung-wan, 2004

Vincitore del PiFan 2004 e presentato al FEFF di Udine l’anno scorso, Arahan è l’opera terza del regista di No blood no tears, ed è un film che mescola, senza preoccuparsi troppo dei confini di genere e delle “norme” rappresentative, una prima parte comica e bizzarra che per alcuni versi ricorda il tono di Chow (ma senza possederne la sintesi geniale, e senza affondare nel demenziale), e una seconda più seria in cui le arti marziali ripescate dalla tradizione hongkonghese diventano protagoniste.

Si legge un po’ di tutto, in giro, su Arahan: ma francamente, l’unica da dire è che ci si diverte, e a tratti come pazzi. Il film è pur sempre un prodotto Cinema service, con una confezione eccellente e una certa “schiettezza” di scrittura. Per questo può pure irritare, si capisce: qualche tamarrata di troppo, qualche step-frame ostentato, qualche ricercatezza inutile. Il film vale però soprattutto per la sua dimensione “spettacolare” e di intrattenimento, e su questo ci piove ben poco: a parte i combattimenti spesso eccellenti (quello nel ristorante è perfetto, l’ultimo invece stroppia), il film si mantiene su un equilibrio che tiene miracolosamente nella sua estrema instabilità.

Insomma, quando la butta sull’epica serissima e apocalittica non risulta ridicolo, e quando vuol far sorridere o ridere ci riesce: tanto basta, per quanto mi riguarda, per garantire lo spasso. Importante anche il contributo del cast: Ryu Seung-beom è bravo a gestire suo ruolo peterparkeriano di ex-sfigato, Yoon So-yi è semplicemente una fata.

The president’s last bang, Im Sang-soo 2005

The president’s last bang (Geuddae geusaramdeul)
di Im Sang-soo, 2005

Decisamente trascurato negli ultimi mesi, il (buon) cinema coreano ritorna per un momento tra le priorità del sottoscritto, incuriosito dai post di due persone affidabili (qui e qui: io non dico nulla che non abbiano già detto loro) e da una trama più che invitante. Ma qualunque cosa mi fossi preparato a vedere, il quarto film del regista di La moglie dell’avvocato è completamente diverso. E tra l’altro è bellissimo.

Certo, si fa un po’ fatica ad entrare nello “spirito” del film, insieme grottesco e drammatico, perché la prima parte è più che ardua. Ma non per le faccende storico-politiche, comunque di difficile comprensione per un pubblico impreparato sulla storia recente della Corea del Sud, bensì per l’assoluta libertà compositiva scelta da Im, che decide di ritrarre i suoi personaggi con piccole pennellate, sguardi, gesti, brevi frasi. La sensazione è di confusione e insieme di ottundimento, ma il risultato è che si crea un racconto corale sotto gli occhi dello spettatore senza che lo spettatore se ne accorga.

Poi, ovvio che c’è la scena madre. Perché Geuddae racconta una storia che gira intorno ad un fatto, e quindi è normale (e sano) che il film giri intorno ad una scena. Peraltro, tutta la “nottata” è una sequenza di grandissima forza, girata splendidamente (come tutto il resto del film: grande la confezione di Kim Woo-hyeong, nonostante sia il fotografo di Jang Sun-woo) e con accorgimenti tipici appunto del cinema corale – anche se di solito sono accorgimenti da climax finale, e non da metà film – come l’illusione di contemporaneità (aiutata dall’audio: ci sarebbero pagine e pagine da scrivere su una cosa così), e che termina con una tattica di “svelamento” (le stanze – in pratica il set – viste dall’alto) assolutamente geniale.

Ma vengono i nervi, a raccontarlo, The president’s last bang. Perché sembra solo un oggetto strano, come tante altre cose uscite dalle fucine di Seoul e dintorni. Che ci sia solo della gente che si spara e sanguina per 10 minuti, e intorno la noia. Invece no, c’è qualcosa, c’è molto di più. E c’è anche un finale mortifero e dimesso, lentissimo e straziante, che – a precindere da (o forse grazie a) un briciolo di squilibrio – toglie il fiato.

Mi dispiace solo, e non sono il solo, di non essermi potuto emozionare come avrei voluto. Ma c’è sempre una seconda occasione.

The red shoes (Bunhongsin)
di Kim Yong-gyun, 2005

Il secondo film coreano uscito in Italia nel 2006, non solo non è all’altezza del primo, ma i coreanofili (o coreafili?) dovrebbero fare finta di niente, oppure negare che questo film sia mai uscito. E’ la solita sfiga che accompagna i trend, sempre se accettiamo l’idea discutibile per cui quello del cinema coreano si sta trasformando davvero in fenomeno ultra-visibile. E la sfiga è che non c’è più filtro, passa tutto, e molte cose passano così, con il random.

E’ il caso di The red shoes, brutto, bruttissimo horror, scritto con una mano sola – in evidente stato confusionale – dal regista stesso a partire da una storia di Andersen, ma per cortesia, e prodotto con un occhio solo, rivolto ovviamente ad un pubblico rassegnato. Quasi un’istigazione alle lamentele di fine proiezione del pubblico stesso. Perché non solo Kim si limita a ribadire quanto già detto millenni fa dai colleghi giapponesi, resiscitando l’ormai morto-e-sepolto (se mai è esistito, ovviamente) new japanese horror – come se il pubblico coreano non avessere mai visto roba arcinota come The ring o Ju-on – ma il suo film si rivela anche dal punto dell’intrattenimento un pacco colossale, capace di addormentarti proprio dove vorrebbe colpirti.

Se Kim Ji-woon con (A Tale of) Two sisters, nonostante le molte (altrui) detrazioni critiche, era riuscito a dimostrare molta personalità rimodellando certi stilemi dell’horror nipponico intorno alle tendenze melodrammatiche del cinema coreano trasformandolo in qualcosa d’altro, Kim Yong-gyun costruisce solo un florilegio di ascensori e corridoi, neon rotti e sopresoni, capelli neri e donne che strisciano sul soffitto. Oltretutto, sbagliando tutti gli attori. E senza nemmeno la possibilità della scusante "teorica" (vedi The Call di Miike), ma come se il tempo non fosse passato e ci fosse ancora un’onda da cavalcare: son cose che fanno male al cinema.

Peccato per la confezione invidiabile, e una manciata di scene (non poche, a dir la verità: a Cesare quel ch’è di Cesare) che altrove avremmo apprezzato di più: la grandinata di sangue sul tetto, l’ipermestruo della bambina, un paio di flashback. Noiosissimo il prefinale, interminabile come da tradizione, e orribile il finale, circolare come da tradizione.

Ho sposato una gangster – My wife is a gangster (Jopog manura)
di Cho Jin-gyu, 2001

Una delle commedie coreane più note degli ultimi anni sbarca in italia: qualcuno se n’è accorto? Da principio destinato alle sale (magari 2 o 3 o meno), il film ha infine trovato la sua sistemazione ideale tra gli scaffali di alcune sparute videoteche nostrane, senza contare le copie in vendite che nessuno ha visto.

Peccato, perché My wife is a gangster, oltre ad essere una commedia piacevole e divertente, è un esempio abbastanza ben formulato e tipico dell’atipicità del cinema pop coreano e dell’applicazione ad esso delle non-forme pastiche: i generi esplodono, la commedia si mescola alle arti marziali, al demenziale, al dramma violento e tragico e inaspettato, al feroce romanticismo. La resa potrà essere anche un briciolo inferiore ad altri prodotti di simile fattura, ma ci si diverte, e non poco. La scena della lezione di fellatio è da manuale, e il finale perfetto dimostra che il tutto non era poi così cretino come voleva autodipingersi.

Ancora peccato: perché l’edizione italiana – acquistabile qui a una quindicina di euro – è ancora una volta davvero brutta, e – c’è bisogno di dirlo? – il doppiaggio è una vera schifezza. Poco male, per quelli pazienti c’è la traccia in coreano. Per gli impazienti, il bellissimo doppio dvd inglese costa una ventina di euro, ovviamente qui.

Lady Vendetta – Sympathy for Lady Vengeance (Chinjeolhan geumjassi)
di Park Chan-wook, 2005

UN POST IN 160 CARATTERI

"Alla 3za visione, ancora più lacrime e brividi, e una netta sensazione: che in senso oggettivo sia questo il suo capolavoro. Buona edizione italiana. Applausi."


(sms inviato il 05/01/2005, ore 17:46)

CONSIDERAZIONI DISORDINATE E SUPERFICIALI

vedere Lady Vengeance per la terza volta in un cinema è stato bello, vederlo in un normale cinema d’essai italiano bellissimo, vederlo con lei più bello, il tizio dietro che russava meno bello

Lee Yeong-ae è un’attrice dalla bellezza e bravura inumane, guardando lei nel trailer non mi ero accorto di statue bronzee con la testa mozzata ma guardando lei nel film ci si dimentica di esistere, questo è essere attrice, provateci voi a resistere a quegli occhi lucidi e ombrettati rossosangue o a quello sguardo al cielo e alla neve alla fine dai provateci

i rapidi flashforward dei genitori nel capannone e i flashback sonori nella stanza da letto, roba da insegnare nelle scuole di cinema

un certo paolo usa nel bene il termine "farsesca" ed è vero sì e la strega che scivola nel cesso fa ridere e non solo ma se non sapevate come definire la parola magone ecco ora lo sapete

il riassunto iniziale antichizzato che alla prima non mi aveva convinto è bellissimo, con un preciso senno di poi narrativo è addirittura meraviglioso

l’edizione italiana è buona, sì, c’è l’effetto-anime e l’effetto-Keira, ma sempre meglio dell’effetto-Chow, e comunque è professionale, e comunque è rispettata la varietà linguistica e la colonna sonora non perde intensità, e comunque Jenny non è doppiata, e comunque a tratti nemmeno Geum-Ja, e comunque nessuno è doppiato male come, che so, come la sorella di Ryu in mister vendetta

ho buttato la prima lacrima nella scena della ricostruzione mediatica ma ho iniziato a piangere più vistosamente durante le due traduzioni smettendo a tratti ma mai del tutto fino al tofutuffo, chiedo scusa a L per il fastidioso rumore di mucose

e chiedo scusa e in primis a me stesso per avere relativamente sottovalutato in una rarissima carenza d’entusiasmo festivaliero questo film alla prima visione mentre ora sospetto che sia questa la vera vetta di questo profondo eclettico straordinario istante di cinema che è la trilogia-a-posteriori di parkcianvùk

quando la tizia tira fuori il numero del conto corrente ti si ghiaccia il sangue anche se già lo sai, signori, l’essere umano

nel cinema regalavano dei bellissimi manifestini A4 plastificati appoggiabili, io l’ho preso e l’ho pure appoggiato e sfido il 2006 a produrre una locandina così bella

ecco se avete visto oldboy e ne volete un altro proprio proprio così altrimenti niente beh allora state a casa, idem per mister vendetta*
* "idem per mister vendetta" significa due cose

se poi dite oldboy mi è piaciuto di più vi capisco perfettamente, anch’io gli voglio tanto tanto bene e forse rimane anche il mio preferito, ma invece di insistere cocciutamente riguardatevi Lady Vendetta un altro paio di volte come ho fatto io e poi fatemi sapere

se poi dite mister vendetta mi è piaciuto di più vi capisco perfettamente e vi rispetto ma permettetemi di dissentire un pochetto

che differenza fa poi, che serve fare distinzioni e/o classifiche se ci troviamo di fronte ad una simile forma d’arte, mi chiedo io, che differenza fa

se esistessero i cinequadri appenderei in casa i titoli di testa di Lady Vengeance

UN’IMMAGINE

UN LINK

ne parlammo già in molti dalla Mostra di Venezia

[befana comes from korea]

Interrompo (solo per oggi) la mia pausa "natalizia" per ricordare a tutti che esce oggi (ripeto: oggi) nelle sale italiane il nuovo film del regista di JSA, Mr. Vendetta, e OldBoy, l’ormai affermatissimo Park Chan-wook, da queste e da altre parti adorato come una specie di divinità. Mica per niente: anche Sympathy for Lady Vengeance, titolo italiano Lady Vendetta, terzo capitolo della cosiddetta "trilogia della vendetta", pur essendo molto diverso dai due precedenti (già diversi tra loro) è agli stessi, alti, altissimi, altissimissimi, livelli.

Andate a vederlo tutti, oggi stesso. Io ho già un posto in prima fila, al primo spettacolo pomeridiano.

Ne parlai, ovviamente in toni entusiasti, insieme ad altri cinebloggers, anch’essi entusiasti, dall’ultimo festival di Venezia, dove il film non vinse il Leone d’oro.
Qui il nostro post.

L’arco (Hwal)
di Kim Ki-duk, 2005

Si muovono due anime dentro me dopo la visione, in sala, dell’ultimo film di uno dei registi che più ho amato negli ultimi anni. Due anime che corrispondono, più o meno – perché non condivido comunque estremità quali le lodi eccessive o immeritate "insufficienze" – alle due posizioni della diatriba che divide i cinebloggers fin dalla prima proiezione post-Cannes. Questo è un vero e proprio disclaimer: siete liberi, liberissimi, di insultarmi o di darmi del cerchiobottista per questo strano e schizofrenico post, ma al momento non trovo altro modo per esprimere con pienezza la mia – parziale – delusione per il film e la mia – sempre parziale – ancora rinnovata ammirazione per il suo autore.

L’arco è inequivocabilmente un film di Kim Ki-duk, in tutto e per tutto. E’ quello che Kim – e soltanto lui – poteva fare di un soggetto simile.

Allora perché noi che amiamo tantissimo l’ormai arcinoto regista coreano ne usciamo così sconfortati e delusi? Perché proviamo questa insoddisfazione che, nonostante l’aria di qualche critica pesante – soprattutto da fonti non sospette – non ci aspettavamo? Perché L’arco è un film che non taglia e che solo cuce, che non strazia e che solo affascina, un film né imperfetto né perfetto, forse solo un bel film, un gran bel film di cui non sentivamo la mancanza. Diavolo! Dov’è la stratificazione di Ferro 3, la passione di Address unknown, la struggente e violenta poesia di Bad Guy? Un solo anno da Samaria, ma sembra sia passato un secolo: e si dicono sempre le stesse cose, ma si ha l’impressione che siano sempre meno, le cose da dire. Speriamo solo che sia solo un passo falso, una pecca da perdonare a posteriori, non l’inizio della fine.

Paradossi della politica degli autori: se fosse un film di un altro regista tutti condanneremmo i suoi limiti – o meglio i suoi difetti – senza remore, tra gli sbadigli.
E invece no.

L’arco  è inequivocabilmente un film di Kim Ki-duk, in tutto e per tutto.  E’ quello che Kim – e soltanto lui – poteva fare di un soggetto simile.

Minore, certo, ma che forza: è ancora difficile trovare nel cinema mondiale un autore capace di far dialogare due personaggi tra se stessi, e con la natura, con il solo ausilio degli sguardi, dei silenzi. Senza dire una parola, condannando anzi tutte le parole che, nel mondo, vanno sprecate, e che sono l’unica vera violenza. L’arco è l’ulteriore e bella conferma di un cinema magico capace di sospendere se stesso e di sublimare l’emozione dei corpi e delle anime con metafore ardite ma miracolosamente mai stucchevoli. Un cinema che diventa aria e nuvola, per poi tornare ad essere carne, sangue, e poi morte, e di nuovo vita. Non va condannato solo per la sua – molto più che evidente – natura "interlocutoria". E’ imperfetta, ma un’opera sola, e sarebbe un grave errore a causa di essa perdere la fiducia nella grandezza di Kim.

Paradossi della politica degli autori: se fosse di un altro regista passeremmo tutti oltre i suoi difetti – o meglio i suoi limiti – e promuoveremmo, in lacrime.
E invece no?

A bittersweet life (Dalkomhan insaeng)
di Kim Ji-woon, 2005

Sun-woo, mafioso freddo, insonne e fichissimo, fa l’errore di sottovalutare le conseguenze dell’amore, e finisce in amarissimi cazzi: ne segue sanguinosa vendetta.

L’ultimo film del regista di Two sisters, presentato a Cannes quest’anno, ha diviso i cinebloggers come pochi altri. Un vero e proprio celebrity deathmatch: da un lato del ring i vistosi apprezzamenti: Cineblob, Hellbly e gli Spietati. Dall’altro le feroci detrazioni: Ohdaesu, il Topo modesto e Murdamoviez (un breve intervento su Scrive.it). Tocca a me fare l’ago della bilancia: Daljomhan insaeng è un film furioso o solo violento? Formalista o manierista? Supercool o superfighetto? L’ago pende sul sì.

Kim Ji-woon, ce n’eravamo accorti, è un gran bel regista. E il film è uno spettacolo visivo sopra la già curatissima media del cinema popolare coreano: difficile negarlo. Quello che può far innervosire è il pastrocchio citazionista: in una stroncatura questa motivazione ci sta come il cacio sui maccheroni. Kim riesce ad infilare i primissimi piani di Sergio Leone, il montaggio frenetico di Tsui Hark, l’elegia  samurai di Melville, i corridoi vendicativi di Park Chan-wook, il grottesco situazionismo di Tarantino e un finale che viene dritto dritto da A hero never dies di Johnnie To.

Quello che però sorprende è che il materiale è amalgamato ottimamente, che non si sente il peso delle derivazioni, e che le scelte concettuali del film – inusuale e modaiolo al tempo stesso – funzionano alla perfezione. Mostra la corda per altre ragioni, perché all’inizio scricchiola e alla fine stroppia. Ma la parte centrale, con la sepoltura nel fango e il duello nel capannone, è fantastica. E anche il finale – anche se esagerato e compulsivo – è davvero esplosivo.

E così, dopo un po’ di noia e un buon terzo di film in cui ci si chiede dove stia andando a parare, ci si ritrova a fissare inebetiti lo schermo come accadeva le prime volte in cui scoprivamo il cinema coreano, un cinema brillante e moderno, senza troppi peli sulla lingua né remore etico-visive, a volte violentissimo ma insinuante, non sempre bilanciato ma emozionante. Proprio come A bittersweet life.