I bambini di Cold Rock (The Tall Man) di Pascal Laugier, 2012
Una delle firme di punta del cinema horror “estremo” francese, Pascal Laugier, scrive e dirige il suo primo film in lingua inglese ambientato negli Stati Uniti, in verità una produzione franco-canadese, levando il pedale del gore ma mantenendo il gusto, già mostrato nel suo discusso Martyrs, per il ribaltamento prospettico e per i twist narrativi. La sceneggiatura, tutt’altro che impeccabile ma piuttosto divertente per chi sa stare al gioco, è infatti l’elemento migliore del film insieme alla regia, dove Laugier piazza qualche pezzo di bravura per innalzare il film dalla media dei thriller di Serie B con ambizioni metaforiche. Il suo The Tall Man, pur essendo un po’ scombinato, è comunque un ibrido interessante e curioso, più difficile da inquadrare di quanto sembri; manca giusto un po’ di coraggio e il cast non è del tutto adeguato (anche se Jessica Biel ce la mette tutta) ma è davvero brillante l’idea di usare l’ambientazione in una deprimente cittadina di minatori disoccupati nello stato di Washington per rappresentare, non tanto la crisi economica o culturale, ma il definitivo decadimento di un intero immaginario, quello della provincia americana. Con uno sguardo da “straniero”, Laugier predilige il gioco narrativo ma pizzica anche il pubblico con un interrogativo morale.
Un sapore di ruggine e ossa (De rouille et d’os)
di Jacques Audiard, 2012
(Ciò che racconto accade nella primissima parte del film, non è niente che non sia già raccontato dal trailer italiano. In ogni caso, per correttezza: spoiler alert.)
Costretto suo malgrado a badare al figlio, lo spiantato Ali si trasferisce a casa della sorella ad Antibes dove si mette a lavorare in discoteca. Fuori dal locale conosce Stéphanie, una bella e turbolenta addestratrice di orche: la riaccompagna a casa dopo una rissa di cui è stata vittima, le lascia il numero di telefono. Tempo dopo, mentre Ali continua ad arrancare passando da un lavoro all’altro, Stéphanie ha un terribile incidente sul lavoro e perde entrambe le gambe. Un giorno, rimasta sola in casa, compone il numero dello sconosciuto buttafuori. La porterà in spiaggia. Questo è soltanto l’inizio del nuovo film di Jacques Audiard, che senza pretendere di replicare la densità narrativa di un capolavoro come Il profeta racconta una storia d’amore brutale, inconsapevole eppure necessaria, tra due anime costrette a ridefinire i loro confini e le loro coordinate. Schivando le categorie e le etichette (ma anche sfuggendo alla tentazione di fare un film sul corpo: la mutilazione è più un innesto che un obiettivo), Audiard trascina i suoi personaggi in una narrazione libera dalle costrizioni, capace di affiancare al dramma più straziante un’inattesa ironia e una sensualità travolgente, perdendo (perdonabilmente) qualche colpo quando si immerge quasi con spirito “sociale” nello sgradevole sottobosco del lavoro, riprendendosi del tutto quando colpisce i suoi protagonisti con lampi di epicità, coraggio, grandezza – segni di una straordinarietà già presente ma ancora tutta da conquistare, sfidando la paura di sé e dell’altro. Il loro “racconto di formazione” è infatti una terribile marcia a ostacoli che Audiard organizza con perizia e un pizzico di sadismo: i personaggi sono messi costantemente e spietatamente alla prova, fino alle estreme conseguenze – ma non è tanto la meta a interessare Audiard, quanto il tragitto: alla fine del giochi, il proprio destino è scritto nelle ferite, nelle lacerazioni e nelle ossa rotte, memorie indelebili, sempre presenti, della strada percorsa per trovare o ritrovare la luce. L’uso degli effetti speciali, abbinato al realismo della messa in scena e alla predominanza della camera a mano, crea un contrasto che amplifica se possibile la magnifica prova di Marion Cotillard, struccata ed emaciata per gran parte del film eppure sempre incredibilmente magnetica; con il rischio di sminuire la performance del pur adeguato Matthias Schoenaerts: ma vale la pena correrlo. Inaudito e perfetto, persino commovente, l’uso espressivo nella colonna sonora di “Firework” di Katy Perry, in una delle scene più intense e significative del film.
Ciò che mi ha davvero conquistato di The Artist, film muto in bianco e nero che negli ultimi mesi è diventato un vero “caso” (tanto da diventare uno dei favoriti per i Grossi Premi Americani del prossimo anno) è che funziona, benissimo, quasi a prescindere dall’impressionante ingombro del suo progetto. Il rischio di un film simile era, chiaramente, quello di un’operazione ironica che ammiccasse ai cinefili (non necessariamente agli “esperti”: agli amanti del cinema) dimenticando il pubblico, risultando velleitaria, presuntuosa o – peggio ancora – fredda e sterile. In verità Hazanavicius utilizza l’artificio insieme scaltro e coraggioso della riproduzione quasi-filologica del cinema degli anni del muto per restituire un’esperienza di un’onestà e di una semplicità semplicemente rinfrescanti; non mancano i pezzi di bravura, come la citatissima e irresistibile scena onirica in cui il sonoro “invade” il sogno di Valentin, ma il risultato è emozionante, autentico, quando non commovente – penso al montaggio parallelo che introduce la risoluzione finale, o alla sequenza meravigliosa in cui Bérénice Bejo si nasconde nel camerino di Valentin e ne abbraccia l’abito. La configurazione narrativa ricorda, per ovvie ragioni, quella di uno dei massimi capolavori del cinema americano, Singin’ in the rain, ed è difficile non pensare a Gene Kelly di fronte alla mimica e al corpo del favoloso Jean Dujardin, ma la bellezza di The Artist è proprio nella sua capacità di non trincerarsi dietro una facile nostalgia fine a se stessa, né per quella del muto nello specifico né per l’inevitabile mutamento che il cinema attraversa e continuerà ad attraversare lasciando alle spalle i detriti del passato: quella che vuole raccontare Hazanavicius è una storia d’amore e di orgoglio, di ossessione e di rinascita, che prescinda dai linguaggi con cui viene raccontata per andare dritta al cuore – ma mantenendo come perno inamovibile una passione vitale e travolgente per il cinema e per le sue storie.
Comunque la si veda, una cosa è certa: questo dovrebbe essere il migliore dei Carnage possibili. Quale regista avrebbe potuto adattare un testo come quello di Yasmina Reza meglio di Roman Polanski? Quattro personaggi, un appartamento, e un problema da risolvere che dà il La a uno scontro tra personalità che monta in modo impercettibile ma ineluttabile mutando gradualmente il loro linguaggio e persino i loro volti (le citazioni di Bacon non sono lì per caso), sollevando il sipario sulle ipocrisie borghesi e mandando in frantumi le etichette di una contemporanea lotta di classe che sembra sempre più un futile litigio tra bambini – mentre i bambini stessi, nel parco giochi, dimenticano e vanno avanti come se nulla fosse. Una carneficina senza carneficina, recitata in modo spaventoso da tutti e quattro gli attori (su cui Kate Winslet regna come una divinità), che ha sicuramente molti limiti strutturali – di cui è specchio la durata veramente esigua – ma che Polanski riesce a raccontare con maestria e senza protagonismi, sfruttando in modo assolutamente cinematografico (in barba alla provenienza teatrale) le geometrie e i riflessi della claustrofobia domestica. E massacrando di volta in volta le fragilissime intenzioni dei suoi personaggi e delle loro convenzioni civili con una perfidia sorniona, autentica e sana, di cui l’assenza di una vera catarsi non è che l’ennesima riprova.
Nota: ho visto il film in lingua originale (al cinema Apollo di Milano, che dio li benedica) e non capisco come si possa vedere un film simile doppiato. Poi fate voi.
Un film su un copertone assassino dai poteri telecinetici che prende vita nel deserto australiano mentre un gruppo di “spettatori” assiste munito di binocoli alla carneficina sembra essere un soggetto difficile da prendere totalmente sul serio. Ma Dupieux ha le idee piuttosto chiare, e lo mostra fin dalle prime battute, aprendo il film con un perentorio scavalcamento della quarta parete: questo film, dice il personaggio, è un omaggio al nonsense, all’elemento insondabile che è presente anche in piccola parte in qualunque opera cinematografica. Ma quel buco nero che fa da collante tra la ragione e la passione qui divora completamente il film espandendosi fino a diventare una riflessione sul cinema spudoratamente teorica (il film smette di esistere in assenza di spettatori) ma insieme divertita e liberatoria, violenta e raffinata al tempo stesso. Uno scherzo surrealista buttato sullo stomaco che potrebbe sembrare una mera parodia del b-movie se non ne abbracciasse effettivamente il metodo visivo e narrativo, trasformandosi invece in un thriller sopraffino e ridotto all’osso, anche se effettivamente tirato per le lunghe, che se da un lato rappresenta l’autentico grado zero dell’intervento del mistero e dell’oscuro nel tessuto della realtà quotidiana (sulla falsariga, che so, di David Lynch o di Stephen King, anche se è impossibile non pensare immediatamente al Duel di Spielberg) dall’altro osserva il suo stesso intervento sulla materia cinematografica con un piglio scherzoso e sarcastico da teatro dell’assurdo: l’unione di queste pulsioni razionali e irrazionali è l’anima di questo piccolo, sinceramente bizzarro ma divertentissimo film, difficile da amare ma assolutamente da non perdere.
Il film non ha una data d’uscita italiana. Nel frattempo è già disponibile in DVD e Blu-Ray l’edizione francese. Il prossimo 11 aprile uscirà anche l’edizione inglese in dvd e Blu-Ray.
Il truffacuori (L’arnacoeur)
di Pascal Chaumeil, 2010
L’esordio dietro la macchina da presa di Pascal Chaumeil, ex assistente alla regia del Luc Besson dei tempi d’oro, è passato nelle nostre sale pressoché inosservato: si tratta in realtà di un film gradevole e divertente, che riprende con mano sicura e ritmo implacabile un canovaccio piuttosto risaputo (quello della scoperta dell’Amore Vero da parte di un personaggio cinico e disilluso) e che utilizza come cardine della sua sceneggiatura scaltra e leggerissima proprio la consapevolezza degli stilemi del film amoroso a suo stesso vantaggio: invece di ribaltare i luoghi comuni dei rapporti psicologici tra giovani uomini e giovani donne li abbraccia in toto, sfruttandoli però puntualmente, con affetto derisorio e una fermissima padronanza del racconto. Dove fallisce semmai è nel contorno, con la sotto-trama riempitiva di Marc e Mélanie (la bravissima Julie Ferrier); la Paradis dal canto suo a volte sembra un po’ sperduta e fuori ruolo, mentre è invece perfetto il fascinoso bastardo Romain Duris, la cui bellezza francamente disturbante sospettiamo abbia considerevolmente sviato la nostra capacità di giudizio. Nell’impallidito noioso macrogenere della commedia romantica, un film sufficientemente intelligente e ben realizzato è un esemplare in via d’estinzione.
Se c’è una cosa che si deve indiscutibilmente riconoscere a Gaspar Noé, è la sua impressionante coerenza: Enter The Void non è certo un film perfetto, ma è la sua indefessa pervicacia a renderlo così unico. Per esempio, l’ultima ora di film è costruita in modo volutamente massacrante per lo spettatore, con una narrazione che allunga a dismisura i passaggi temporali pur di non perdere di vista la coerenza dello stile narrativo, per poi terminare con alcune scelte visive e narrative che cercano di suscitare una reazione accesa (anche di rigetto o di derisione) dopo che l’attenzione era stata sopita o ipnotizzata dalla ripetitività. Ma nonostante questa sfida diretta ai centri nervosi e alla “pancia” non sia del tutto riuscita, a seconda poi della sensibilità dello spettatore, nel suo insieme il film di Noé è un’opera autenticamente straordinaria. Prima di tutto nel senso che non ha nulla a che fare con l’ordinario: Enter the Void è un’esperienza ben più che inusuale nel panorama cinematografico, un progetto visuale trasversale che prende in possesso dal cinema forme definite della narrazione come il melodramma e influenze dichiarate (in primis, l’ultima parte di 2001 di Kubrick) e decide di raccontarle con una libertà e, ancora, una coerenza progettuale che lascia spesso senza parole. La scelta più evidente è quella di raccontare tutto attraverso una soggettiva – o meglio, tre tipi di soggettiva: una “fisica” (distinta dalla scelta iperrealistica di visualizzare anche i battiti delle palpebre), una “esterna” usata per i flashback (con l’attore ripreso di spalle da vicino, come in un videogame: una scelta che ci permette di uscire dal quadro restituendo l’importanza negata fino ad allora al personaggio) e una – diciamo così – “spirituale” o “onirica”, che poi è quella attraverso cui vediamo gran parte del film, con una predominanza di plongée e grandangoli, in volo su una Tokyo reale e immaginaria insieme. L’impianto tematico del regista francese è spesso ingenuo nei riferimenti alla circolarità della vita e della morte, e si è già accennato a quanto sia estenuante l’ultima ora di film, che risente troppo della violenta caparbietà di Noé, ma tutto ciò che viene prima è davvero uno dei film più frastornanti ed eccitanti degli ultimi tempi: le immagini frattali ispirate all’assunzione di allucinogeni si alternano a un melò intenso e straziante costruito con un uso sapiente e coraggioso dei flashback (che sono in assoluto la cosa migliore del film e uno dei momenti più alti del cinema europeo dello scorso anno), la fotografia di Benoît Debie e il contributo artistico di Marc Caro hanno un vero incontro di destini con la città di Tokyo, la direzione degli attori sfugge alle dinamiche usuali (e che trova pane per i suoi denti nello sconsiderato esibizionismo di Paz de la Huerta) e la sceneggiatura scopre immediatamente tutte le carte fin dai primi dialoghi così che ci si possa fare un’idea autonoma di ciò che verrà. Che sia il viaggio post-mortem verso la reincarnazione (“They say you fly when you die”) o, come preferisce sostenere Noé stesso se proprio vogliamo dargli retta, il sogno allucinato di un uomo morente per effetto delle sostanze contenute nel suo corpo – in un misto di chimica e di spiritualità dilatato a dismisura in cui si incontrano il mondo dei sogni (e degli incubi) e il viaggio nel tempo, e nel proprio tempo: “DMT only lasts for six minutes but it really seems like eternity. And it’s the same chemical that your brain receives when you die. It’s a little bit like dying would be the ultimate trip”.
I titoli, creati in collaborazione con Thorsten Fleisch, sono un capolavoro a sé stante.
Il film è nel listino BIM ma non ha ancora una data d’uscita.
Per una volta vale davvero la pena di fare i precisini: se non riuscite ad aspettare che arrivi in sala, guardate il film su uno schermo grande, più grande possibile, non guardatelo sul portatile, guardatelo in alta definizione o, se possibile, in Blu-Ray.
L’illusionista (L’illusionniste)
di Sylvain Chomet, 2010
Tratto da un soggetto che Jacques Tati non riuscì (o forse non volle) mai a trasformare in film, il nuovo lungometraggio di Sylvain Chomet più che nell’intento di riportare nelle sale lo spirito dell’autore francese (nonostante l’omaggio palese non finisca nell’adattamento ma arrivi addirittura a un paradossale, buffo “incontro” tra il protagonista e il Tati dello schermo) riesce in quello di riportare tra il pubblico un’idea di cinema (d’animazione, e non solo) che forse si è perduta – allo stesso modo in cui, raccontano con chiarezza le vicende di Tatischeff, è svanita tra le platee d’Europa la fascinazione per i trucchi e per i prestigi del mago. Una sensazione di rottura trasparente e immediata: non a caso pochissimi secondi dopo l’inizio del film, un bambino dietro di me ha chiesto ai suoi genitori a voce molto alta “ma non parlano?”. Con un tono tendenzialmente scocciato, anche se l’intuizione era corretta e lui se n’è accorto prima di voi: la differenza con il cinema d’animazione a cui sono/siamo abituati è evidente, e dopotutto lo scarto con la malinconia nei confronti del passato è al centro del film. La fortuna, in questo caso, è non aver sentito più quel bambino per tutto il resto del film: mi piace pensare che sia stato conquistato dalla capacità di Chomet di raccontare una storia di solitudine e affetto, pur così dolente nei suoi ultimi rintocchi, con un’ironia d’altri tempi, un gusto spiccato per la costruzione delle scene e per la caratterizzazione di contorno (i miei preferiti: i tre gemelli iperattivi) e un desiderio violento di raccontare per immagini che nel cinema europeo ha ormai pochissimi profeti. “I maghi non esistono”, sentenzia Tatischeff nello sconcertante e addolorato finale, ma Chomet la sua piccola magia se l’è portata a casa.
Il film è nelle sale da una settimana ma forse non ve n’eravate accorti. Accorgetevi.
L’aspetto più originale del biopic su Serge Gainsbourg che Joann Sfar ha tratto proprio da una sua opera a fumetti è senza dubbio quello più debitore del linguaggio da cui è adattato: il grande cantante francese viene accompagnato (o ossessionato) per tutta la sua vita da una sorta di doppio da lui creato durante l’infanzia e chiamato La Gueule (dietro a cui si nasconde il solito Doug Jones). Tridimensionalizzando La Gueule sullo schermo, idea tanto folle quanto efficace, Sfar riesce a dare per un po’ al suo film un senso e una consistenza quasi cartoonesca, alleggerendo il materiale “pesante” di un’infanzia minacciata dall’occupazione nazista, ma reiterare questa idea senza varianti per le oltre due ore del film mostra presto la corda. E il piccolo inganno che si cela sotto di essa.
Il problema maggiore di Gainsbourg è insomma che, una volta messa da parte la trovata iperbolica e surrealista, il film cade immediatamente in quasi tutti i tranelli del film biografico musicale, dalle altalene del maledettismo al gioco mortifero e fine a se stesso delle somiglianze tra il cast e i personaggi interpretati – anche se la spaventosa performance mimetica di Eric Elmosnino è senz’altro da applaudire. Ancora di più, finisce nel trappolone dell’accumulo episodico di singoli sprazzi della vita dell’artista, separati peraltro da improvvise ellissi lunghe anche mesi o anni. E alla fine del film conosciamo un sacco di aneddoti su Serge Gainsbourg, ma possiamo davvero dire di aver conosciuto Serge Gainsbourg?
Non mi risulta prevista un’uscita italiana. Se masticate il francese, potete acquistare il dvd francese.
Non sarebbe l’atteggiamento più corretto e rispettoso nei confronti di un film, quello di andare a pescare soprattutto le considerazioni "relative", ma nel caso di Solomon Kane può essere almeno utile per apprezzare ciò che funziona – perché, diciamolo, non è moltissimo. Il film dell’inglese Bassett è una produzione europea che cerca un suo posto nel percorso del cinema epico-fantasy (a partire da un personaggio della letteratura pulp vecchio di ottant’anni e più) e lo fa con un budget abbastanza ridotto ("solo" quaranta milioni di dollari) e un cast di facce semisconosciute – a partire dal protagonista James Purefoy, quasi-sosia di Hugh Jackman che, lo capite da voi, non è che sia proprio un trascinatore di folle.
Insomma, relativamente alle condizioni produttive e alle ambizioni spettacolari, Solomon Kane si difende piuttosto bene e il tratto più caratteristico, quello che lo tiene in piedi quasi per tutta la sua durata, è la sua cupezza: tanta pioggia, tantissimo fango, botte, sangue, un aiuto considerevole dal minaccioso set ceco, qualche scelta trucida/violenta che un film hollywoodiano forse si sarebbe risparmiato, un personaggio con un dilemma morale vero e un look che lévati. E un Purefoy che, tutto sommato, ce la mette tutta per non sfigurare e alla fine porta a casa il suo risultato. Il divertimento non manca, almeno per metà del film: purtroppo ci sono anche intere decine di minuti in cui non succede sostanzialmente un cazzo e non ci resta che aspettare con impazienza che qualcuno si decida a tirar fuori pistoloni e coltelloni e faccia una bella stragetta. Poi, va da sé, basta guardare con entrambi gli occhi aperti per vedere spuntare le poverate dietro l’angolo: qualche fondale impietosamente brutto, una principessa da salvare non proprio carismaticissima (Rachel Hurd-Wood) e soprattutto la parte finale, con un villain (Jason Flemyng) conciato in quel modo e un super-mostro-demone in CGI che sembra uscito da un videogioco per la PS2 trovato nei cestoni del supermercato.
Ecco, quello dell’infamia dell’offerta speciale sembra essere anche un po’ il destino di questo film. Tornando al discorso iniziale: probabilmente, di quel cestone, Solomon Kane sarebbe il miglior film. Ma sempre nel cestone sta.
I love you Phillip Morris
di Glenn Ficarra e John Requa, 2009
Che un film venga maltrattato in fase distributiva è una cosa che fa tristezza in ogni caso, che il film sia bello o brutto. Ovviamente, la rabbia cresce se si tratta di un film ben riuscito. E aumenta esponzialmente se le motivazioni del maltrattamento hanno a che fare con questioni come la paura che il pubblico italiano dovrebbe avere nei confronti di una storia d’amore tra due uomini. Un riassunto di quanto è accaduto in Italia a questo film (che negli states sta avendo delle difficoltà del tutto diverse, ovvero legali e burocratiche) si può trovare su Cineblog: e quando l’inganno promozionale e la mutilazione hanno radici di questo genere, le parole "tristezza" e "rabbia", semplicemente, non bastano più. Un cappello essenziale, anche se è una storia che avete già sentito cento volte: perché ogni tanto si torni a parlare di questi scempi, le cui motivazioni commerciali o di marketing sono difficilmente giustificabili.
Detto questo, il film di Ficarra e Requa, tratto da una storia realmente accaduta, nella sua edizione originale è davvero una bella sorpresa: un film che a volte fa leva su meccanismi comici non proprio raffinatissimi e su qualche luogo comune, ma che sa giocare con grande intelligenza sul meccanismo dell’inganno, trasferendo le "truffe" del protagonista sulla pelle degil spettatori – fin dai primi minuti, che fanno immediatamente a brandelli le certezze del pubblico sul personaggio e sul suo contesto, ponendo la bugia patologica come base narrativa dell’intero film, come un avvertimento: non credete a nulla di ciò che vedrete. A parte l’amore ovviamente. Jim Carrey è eccezionale, a metà strada tra la sua anima più cartoonesca e il suo piglio più drammatico (entrambi annullati a vicenda dai ribaltamenti della vicenda), una sceneggiatura solidissima, qualche momento da antologia (la prima rivelazione dell’omosessualità di Steven, il montaggio dei tentativi di fuga) e una storia d’amore insensata, assurda e incontrollata – come sanno essere le vere storie d’amore.
Gli amori folli (Les herbes folles)
di Alain Resnais, 2009
Alcune delle cose che ho letto, distrattamente, in giro (se avessi tempo per leggere con attenzione probabilmente ce l’avrei per scrivere: questo post attende ormai da quasi due settimane) fanno leva sul fatto che Resnais ha quasi 90 anni, ed è incredibile che un regista quasi novantenne porti sullo schermo un film dotato di una tale dissacrante e anarchica libertà, sotto ogni punto di vista: un fatto. E un aspetto umano certamente ammirevole che mi interessa poco, così come, non è una novità, mi lascia piuttosto freddo l’ossequio nei confronti del regista: a ognuno la propria formazione, ancora una volta, persino più che il proprio gusto.
Ma non crediate, ah, non crediate. Alain Resnais questa volta mi ha preso abbastanza sottogamba. Non mi ha conquistato del tutto, lo ammetto, ma mi ha fregato – ed è cosa buona e giusta. Sono uno spettatore che adora essere preso per i fondelli: Les Herbes Folles è un film intelligente e sorprendente sotto questo aspetto, non tanto per quel che dice o racconta, una storia d’amore imprevedibile e insensata, sradicata dalla ragione come un fiore cresciuto sul dorso di un vulcano acceso, ma per come sceglie di dirlo. Un sano e onesto surrealismo di vecchia scuola che non risiede certamente solo nell’ormai noto finale beffardo: la cosa più bunueliana, per esempio, a mio parere, è l’idea di celare allo spettatore il passato di Georges, una prevaricazione sul senso e sulla narrazione che lascia tanto stupefatti quanto divertiti. L’altro aspetto straordinario di Les Herbes Folles è senz’altro quello tecnico: al di là di alcuni pezzi di bravura (uno tra tutti: il piano-sequenza della cena) basterebbe citare la sequenza dell’incontro davanti alla sala dove George è andato a vedere I ponti di Toko Ri. Non tanto per la sequenza in sé ma già per l’intenzione iperrealista di ricreare quel set, a quel modo, con quei colori, come se non ci fosse altro modo per disegnarla – così come, allo stesso modo, Les Herbes Folles dà l’impressione di un film che ha già dato molto, quasi tutto, in fase di progetto. Ma se, aggiungo, quello di Resnais è un film che eleva programmaticamente ad arte il difetto narrativo, lo scarto, l’ellissi, l’assenza, l’omissione, il gioco cerebrale del ribaltamento spazzato via da un impeto sentimentale che fa rumore, che sposta l’aria, forse che odora persino – finisce per conquistare di più proprio per il suo essere allegramente scombiccherato, ciancicato, a volte più simile a una poetica demenza che a qualcosa di compiuto, irrazionalmente spassoso a patto di entrare in sintonia l’umorismo di Resnais (non del tutto chiaro al sottoscritto in una buona metà dei casi), insomma, folle e anacronistico come un’erbaccia che con il cemento attorno non c’entra più granché. Ben venga, l’erbaccia.
Tutte le migliaia di altre cose che avrei voluto scrivere di questo film, due settimane fa, le ho dimenticate. Apposta.
Micmacs à tire-larigot
di Jean-Pierre Jeunet, 2009
Sono pochissimi (forse nessuno) i registi francesi dell’ultimo quarto di secolo ad aver avuto la stessa fortuna e riconoscibilità globale di Jean-Pierre Jeunet. Senza dubbio, in qualche modo, tutto nasce da quel gioiello di Delicatessen, diretto nel 1991 in coppia con Marc Caro, la cui notorierietà è però quasi del tutto irrilevante se confrontata con quella di Il favoloso mondo di Amélie – con tutta probabilità, uno dei film europei più visti di sempre, nel mondo. Piaccia o meno: da queste parti, lo dico, quel film è un beniamino.
Ciò nonostante, Jeunet si è sempre risparmiato molto, ha diretto soltanto sei pellicole nel giro di quasi vent’anni, e non si è nemmeno più fatto tentare dagli states dopo Alien: La Clonazione, film gustosissimo e sottovalutato. Insomma, è rimasto sostanzialmente uguale (o fedele?) a se stesso, procurandosi moltissimi fan ma pure non pochi nemici – spesso e volentieri per il fatto che il cinismo crudelissimo e satirico di Delicatessen e i neri toni fiabeschi del successivo La città perduta fossero stati allentati in seguito da un romanticismo assolutamente sfrenato che in molti hanno scambiato per mera iperglicemia, discostandosi comodamente dall’opera del regista (divenuto troppo celebre per essere anche amato?).
Micmacs à tire-larigot non dovrebbe suonare come una sorpresa per nessuno che abbia visto i suoi film precedenti: un film estremamente grafico, caricaturale, ingenuo e forse infantile nel trasmettere il suo universale messaggio di pace – e, proprio per tutte queste ragioni, assolutamente irresistibile. A patto ovviamente di saper scendere a compromessi con il proprio cinismo, di saperlo mettere da part, e ne vale la pena perché ci si diverte come matti: Micmacs pesca dalla cinefilia, dal circo e dal fumetto d’autore per raccontare un’inarrestabile e comicissima rivincita degli oppressi e degli emarginati e, grazie alla prima collaborazione di Jeunet con il direttore della fotografia Tetsuo Nagata, è anche visivamente sorprendente, con un gusto della composizione (anche cromatica) che mostra come, nonostante le innumerevoli imitazioni che negli ultimi 10 anni hanno creato quasi un sottogenere nel cinema europeo, Jeunet abbia ancora uno stile solidissimo.
Tra l’altro, in Micmacs il regista recupera alcuni tratti della sua magnifica opera prima, non solo auto-citandosi in una breve inquadratura che farà scendere i lucciconi dagli occhi a chi è cresciuto con Delicatessen, ma meno specificamente recuperando quel talento nel narrare, più che con le parole, attraverso il linguaggio del corpo dei suoi attori-acrobati (Dany Boon è un ex mimo, la ballerina-contorsionista Julie Ferrer ha un passato nel circo, Dominique Pinon è Dominique Pinon), rinunciando al dominio del voice over che aveva forse appesantito un altro film bellissimo e sottovalutato di Jeunet – ovvero il suo penultimo, Una lunga domenica di passioni.
Insomma, questo è un film di Jean-Pierre Jeunet, in tutto e per tutto – ma che potrebbe anche riavvicinare alcuni aficionados della prima ora, se decideranno di stare al gioco fino in fondo. Prendere o lasciare. Fate voi: io me ne sto qui, a braccia aperte.
Non mi risulta sia prevista per ora una data d’uscita italiana. Nel frattempo, in patria il film è uscito sia in DVD che in Blu-Ray.
L'uomo nell'ombra (The ghost writer) di Roman Polanski, 2010
Mi addolora un po' il pensiero che quando il nuovo film di Roman Polanski uscirà nelle sale si parlerà di tutt'altro, in primis delle traversie personali del regista ma anche delle implicazioni politiche del confronto tra Adam Lang e Tony Blair, e non del film stesso, del film e basta: già per una questione di principio, ma anche e soprattutto perché The ghost writer è davvero un grande film, che come ogni approccio di un autore al cinema di genere nasconde sotto i canoni del genere vibrazioni morali che trascendono gli stilemi narrativi e visivi.
Gli aspetti più stupefacenti di The Ghost Writer, al di là dell'intreccio fantapolitico, sono infatti tutta opera di Polanski. Da una parte, l'incredibile sceneggiatura, adattata dal regista insieme a Robert Harris a partire da un romanzo di quest'ultimo, non solo per la struttura perfetta, di soffocante e geniale inevitabilità, ma anche per i dialoghi, tra i più acuti e acuminati del suo cinema recente – uno script che trapassa con un uso beffardo e cupo della sagacia le convenzioni e l'uso stesso dell'ironia nel noir. Dall'altra parte, la messa in scena, che non si poteva sperare più rigorosa e ammaliante, tra ossessioni hitchcockiane per i feticci, una tensione costruita sui silenzi che arriva dritta da Frantic, e un gusto senza tempo per autentici pezzi di bravura – tra cui un finale che dire magnifico è dire poco.
A completare il quadretto di un film a cui, davvero, non si può dire niente (se non che lo svelamento conclusivo non è dei più imprevedibili: ma ci interessa davvero, a quel punto, soprattutto se è raccontato in questo modo magistrale?) c'è il cast, con un Ewan McGregor particolarmente in forma in testa a tutti. Ma il meglio lo danno i due personaggi femminili: una bionda e una mora, come da tradizione noir: Kim Cattrall e Olivia Williams. Questa, a quasi 42 anni, si conferma come una delle attrici dell'anno, di sicuro uno dei volti più talentuosi del cinema britannico.
Perché fare mille premesse quando un film va così dritto al punto, quando è così indiscutibilmente bello? Un prophète è straordinario, senza dubbio uno dei più bei film europei dell'anno, probabilmente il più intelligente, soprattutto per come sa mettere insieme le aspirazioni autoriali e le convenzioni del cinema di genere, il gangster movie e il film carcerario e una storia di sopravvivenza e dominio dai netti confini morali e filosofici.
E poi Un prophète è un oggetto quasi alieno, certamente unico, non soltanto per il suo ritmo anomalo, ma per come elementi enormemente distanti riescono a trovare una dimensione comune, per come la crudezza della realtà si ritrova stemperata dalla consistenza del sogno e della visione.
Assolutamente imperdibile.
Nelle sale dal 19 marzo 2010.
Per quanto io vi spinga a vedere in sala e promuovere quanto più potete questo splendido film, si tratta di un'opera costruita anche sui contrasti tra le lingue, e sarà quindi inevitabilmente impoverito dall'edizione italiana. Se potete, recuperatelo anche in versione originale.
Alzi la mani chi aveva rabbrividito all’idea che il regista di The Mission avrebbe girato un film recitato principalmente in inglese. Sinceramente, io no, ero tranquillo: Johnnie To è uno dei maestri indiscussi del cinema odierno e non è certo uno sciocco. Infatti il suo Vengeance è un film decisamente personale e identificabile, ma nemmeno per un secondo corre il rischio di sembrare un "Johnnie To for dummies" né tantomeno il suo stoicismo sanguinario muta di fronte ai dilemmi di un differente pubblico.
Ambientato tra Macau e Hong Kong, co-prodotto dai francesi, recitato in tre lingue e sceneggiato dal fedele compare Wai Ka-Fai a partire da un palese richiamo a Melville (il protagonista si chiama Francis Costello mica per caso), Vengeance si muove infatti in territori piuttosto riconoscibili, raccontando in verticale la vendetta che dà il titolo al film e in orizzontale una storia di amicizia dove il codice d’onore e la fedeltà virile sono l’unica vera lingua unificatrice, riuscendo – anche grazie a una durata più lunga del solito – a fare qualche passo oltre il consueto heroic bloodshed e a riflettere in modo maturo e compiuto sulla morale e sulla memoria.
Ma non lasciando certo per strada la spettacolarità tecnica e soprattutto la perfezione scenografica che è uno dei punti vitali del cinema di To: la sequenza in cui Costello perde i suoi compagni tra la folla sotto la pioggia, per esempio, oppure quella della violenta sparatoria nel campo, sono esempi di puro, grandissimo cinema, e non sono i soli. Anche se il cuore del regista hongkonghese pulsa persino più forte altrove – quando i killer cucinano, vanno a tavola, mangiano, si studiano, ridono, si sfidano, si conoscono, si riconoscono, attendono.
La cosa che fa la differenza, rispetto al solito, è semmai la performance di Johnny Hallyday – ma è una differenza positiva: la rockstar francese ha una presenza scenica magnifica, riempie lo schermo e la città con i suoi 66 anni e i suoi occhi di ghiaccio. Al suo fianco non mancano però ovviamente volti noti e fondamentali come Anthony Wong, Simon Yam e Lam Suet.
Difficile esprimere davvero quanto il film sia bello, coinvolgente, intenso e insieme chirurgico, preciso e impeccabile: chiunque abbia visto un film di To sa di cosa sto parlando, sa cosa aspettarsi, e resterà probabilmente soddisfatto – mi auguro. Tutti gli altri dovrebbero solo muoversi e cominciare a recuperare il tempo perduto.
Il film ha vinto pochi giorni fa il Leone Nero come miglior film al Noir In Festival di Courmayeur. Non c’è ancora una data italiana ma il film è nel listino 2010 di Fandango. Cominciate a incrociare le dita. E pregate altresì che non doppino tutte le lingue in italiano. Se siete frettolosi, il film è già acquistabile in DVD edizione francese (purtroppo senza sottotitoli inglesi) e anche nella più economica edizione di Hong Kong, che però è Regione 3. Fate voi.
L’innocenza del peccato (La fille coupée en deux)
di Claude Chabrol, 2007
Un piccolo mea culpa: ho recuperato il film, tra l’altro con notevole ritardo, ormai parecchi giorni fa. E poi mi sono dimenticato, letteralmente, di averlo visto – e quindi di scriverne. Forse il film meritava diverse sorti anche da queste parti, perché si tratta comunque di un’opera di professionalità cristallina, costruita su un magistrale triangolo – anche se il mio personaggio preferito, quello di Caroline Sihol, ne è al di fuori. In ogni caso, il film mi ha colpito più che altro per la sua programmatica freddezza: una lucidità assolutamente glaciale che se anche fa parte delle scelte stilistiche caratterizzanti del film e del suo autore, rende anche difficile riuscire a immergersi nella vicenda senza distaccarsi da constatazioni puramente analitiche. Questione di metodo più che altro, e sulla precisione millimetrica e spietata di Chabrol non si discute, ma l’entusiasmo si ferma a un certo punto – anche a causa di un approccio alla materia che predilige metafore troppo forti e persino troppo incisive. Come quella, per esempio, che dà (addirittura) il titolo e la chiusura al film. Ma il modo in cui Chabrol provvede ancora una volta alla dissacrazione e alla dissezione dell’ipocrisia borghese (soprattutto con due sequenze: ovviamente quella dell’omicidio, terrificante per come interrompe violentemente all’improvviso un’assenza di crescendo che è tanto deliberata quanto piena di presagi, ma anche quella, tutta di negazione, dell’iniziazione di Gabrielle nel club di Charles) ha ancora pochissimi eguali nel cinema europeo. Una notazione di sconforto per il pavidissimo titolo italiano.
Il trittico in cui Bong Joon-ho, Michel Gondry e Leos Carax sono stati invitati a dirigere un mediometraggio ambientato nella capitale nipponica è stato uno degli eventi di Cannes 2008, più di un anno fa – e poi è finito un po’ nel dimenticatoio, nell’attesa (vana!) che uscisse nelle sale anche da noi. Ma è uscito in DVD per Regione 2. Procuratevelo, ne vale davvero la pena.
Interior Design di Michel Gondry
Una squattrinata giovane coppia arriva nella capitale: lui gira film sperimentali, lei nel frattempo va alla frustrante ricerca di un appartamento. Strano e imprevedibile come è sempre Gondry, questo tenero, malinconico e spassoso piccolo film parte da un’osservazione meticolosa e ravvicinata dei disequilibri di una coppia, in cui il fulcro è un lento e lunghissimo carrello all’indietro in cui i due litigano e si riappacificano, e arriva a una bizzarria mutante, quasi kafkiana ma profondamente gondryana – in ogni caso, sempre con il sorriso sulle labbra, con la sua inimitabile leggerezza, e un amore per il cinema che non ha quasi eguali. Stupefacente la fotografia di Masami Inomoto.
Merde di Leos Carax
Le fogne di Tokyo nascondono un "uomo" misterioso e mostruoso: quando viene arrestato per un inspiegato e anarchico massacro a colpi di bombe a mano, verrà difeso da un avvocato francese che gli somiglia e che parla la sua lingua. Forse il meno convincente, punta direttamente alla pancia ed è caratterizzato da una ricerca insistita e insidiosa del fastidio perturbante: ma solo perché siamo in un campionato di soli fuoriclasse. In realtà la metafora misantropa, terrificante e perforante di Carax coglie nel segno. Forse un po’ tirato per le lunghe, ma coerente fino all’assurdo.
Shaking Tokyo di Bong Joon-ho
Come previsto, il gioiello più prezioso del trittico. Uno dei migliori registi sudcoreani parte in modo quasi cronachistico dallo spunto attualissimo degli hikikomori (i giapponesi che si chiudono in casa per mesi perdendo ogni contatto con la realtà) e dall’ossessione nipponica per le scosse telluriche per costruirci poi sopra una specie di favola romantica post-apocalittica ricca di rimandi fantascientifici e persino accenni horror (come l’immagine inquietante e terribile del volto dietro il vetro opaco) in cui l’amore improvviso è la spinta definitiva e unica verso la libertà – un film sull’indeterminato coraggio della libertà da sé stessi, curatissimo in ogni dettaglio, visivamente sconvolgente. Un piccolo capolavoro.
Coco avant Chanel – L’amore prima del mito (Coco avant Chanel)
di Anne Fontaine, 2009
Non per fare il bastian contrario, ma davvero, cosa me ne faccio di un biopic senza un vero conflitto? In cui tutto è giustificato dall’incipit, in cui la piccola Gabrielle aspetta inutilmente il padre all’ingresso dell’orfanotrofio – perché dopo sarà tutto un "quella donna ha troppe piume, aspetta che gliele mozzo"? In ogni caso, il fatto che la vera Coco Chanel fosse notoriamente una grande dispensatrice di aforismi non autorizza la Fontaine a mettere in bocca alla Taotou una serie interminabile di panzane spacciate per massime di profonda saggezza.
Ma il problema di Coco avant Chanel – se togliamo il fatto che sembra un film del pomeriggio di Canale 5, e che è inverosimilmente piatto, e che è costruito, soprattutto nella prima metà, su una quantità persino irritante di cliché: ma fin qui nulla di inatteso – è che dei suoi tre personaggi non ci può interessare di meno. Perché? Coco è fondamentalmente una piattola, ma è tanto adorabile e indipendente. Balsan è un uomo retrogrado e maschilista, ma è tanto adorabile e simpatico. "Boy" (ovvero Alessandro Nivola, anche se è conciato come un giovane Massimo Lopez, gayness included) è un furbacchione che riesce a dare un colpo al cerchio e uno alla botte, ma è tanto adorabile e affascinante. Tutto così.
Però che vestiti, eh. Che emozione, i vestiti. Che palle.
Oppure forse il tutto si riduce al fatto che secondo me Audrey Tautou dovrebbe semplicemente finirla. Di fare cinema.
A fare di Peur(s) du noir più un film collettivo che un film a episodi è soprattutto la sua struttura, irregolare e sconnessa e non casualmente giustapposta – all’interno della quale sei nomi del fumetto d’autore raccontano la loro versione della Paura Del Buio, e in cui lo sguardo personale delle singole firme lascia comunque la sensazione di un’opera compatta, e che restituisce un senso d’angoscia atavico e, fatte le dovute differenze, quasi palpabile.
Ognuno infatti sceglie la sua strada, chi tirando in ballo metamorfosi kafkiane (Charles Burns, tra le maggiori sorprese del film), chi rimandi nipponici (Marie Caillou, la parte più esteticamente devastante – in senso buono), chi elementi simbolici ricorrenti (l’inquietante Blutch) chi suggestioni surrealiste (l’italiano – e un po’ deludente – Mattotti). Fino all’exploit finale di Richard McGuire, che con il suo segmento costruisce una vera apoteosi di tutto ciò che i colleghi avevano portato fino a un certo punto: il suo è invece un corto-capolavoro che ribalta le convenzioni e le prospettive del genere, e che fa un uso davvero rivoluzionario del nero - vero trait d’union dell’intero film.
Il film, proiettato in Italia tra gli altri alla Festa di Roma e al BilBolBul di Bologna, è uscito anche da noi in DVD, allegato alla rivista Internazionale, ma al momento mi riesce impossibile trovare un link dove poterlo acquistare online come arretrato, nonostante una volta fosse possibile farlo con tutti i loro titoli. E questo è male. Peccato, perché vale davvero la pena: se qualcuno sa, parli. Nel frattempo, potete sfogarvi con l’edizione francese.