Francia

Martyrs, Pascal Laugier 2008

Martyrs
di Pascal Laugier, 2008

Tempo fa in rete si parlava molto più spesso (anche da queste parti: vedansi i post su Them e Inside) dello stato di salute dell’horror francese contemporaneo – di quello più estremo e violento, tendenza ri-sbocciata negli ultimi anni sugli schermi d’oltralpe, tra il grande giubilo dei fan del genere e l’invidia giustificata dei nostri compaesani. L’étoile di questa stagione era probabilmente proprio il film di Laugier, gradito da molti, e che a detta di alcuni spostava persino il baricentro del cinema horror.

In realtà, no. Ma proprio no. Martyrs tradisce le aspettative sia di chi voleva assistere a un altro robusto film del terrore, sia di chi voleva semplicemente spaventarsi come si deve. Laugier infatti, dando l’impressione di non sapere che pesci pigliare, spezzetta il film in parti facendolo ripartire daccapo ogni mezz’ora, modificando di volta in volta il baricentro narrativo: scelta originale, senza dubbio, ma che rende gran parte del film un pretesto accantonato in favore dell’ultimo segmento, e (soprattutto) lo rende un film assai indigesto – ma per i motivi sbagliati: il gore c’è, per carità, ma la noia lo batte in volata. E ve lo dice uno impressionabile.

Poi, fatto che il tutto si risolva in un’agghiacciante puttanata misticheggiante, di certo non aiuta.

JCVD, Mabrouk El Mechri 2008

JCVD
di Mabrouk El Mechri, 2008

JCVD è un film il cui fascino è impossibile negare, se si è cresciuti in qualche modo, volenti o nolenti, con il cinema di Jean-Claude Van Damme – che nel frattempo passava sullo schermo delle nostre televisioni. Anche solo perché la sceneggiatura è stracolma di riferimenti e ammiccamenti ai fan (il dialogo su quell’ingrato di John Woo è un buon esempio), quelli che hanno sempre immaginato una carriera "parallela" per l’attore belga – quella stessa che malinconicamente l’attore, nei panni di se stesso, si vede sfuggire dalle mani.

Allo stesso tempo però il film è esattamente l’opposto del cinema di Van Damme: si tratta infatti di un prodotto definitivamente autoriale – a volte ironicamente, a volte meno. Inizia con un lunghissimo e programmatico piano-sequenza, è costruito con una struttura a incastro di scuola tarantiniana, ed è pieno di scherzi metafilmici che culminano in una lunga sequenza quasi-onirica in cui il nostro si esibisce in un formidabile e interminabile monologo senza stacchi, da teatro dell’assurdo – sospeso tra la vita vera e il set, tra il personaggio e l’attore.

JCVD però possiede un’intelligenza che è vivaddio più rilevante della sua divertita smania di sfoggiarla, e che permette di superare lo scoglio di quello che potrebbe sembrare un giochetto autoriflessivo dal fiato un po’ corto. Ed invece è un film divertente, assolutamente irresistibile nell’alternare i toni tragici a quelli ironici, nel divertirsi con il pubblico mescolando in modo virtuosistico le diverse istanze di realtà, nell’alternare l’impianto serratissimo della sceneggiatura al gusto per l’improvvisazione.

E soprattutto, colpisce il coraggio di Mechri e di Van Damme stesso nel rappresentare questo bizzarro intruglio di meta-fiction e serissimo autobiografismo (la custodia del figlio, i problemi con la droga, il desiderio inespresso di voltare pagina) senza accenni di facile sberleffo ma anzi con una profondità inattesa – che l’interpretazione indimenticabile del protagonista aiuta a rendere ancora più incisiva.

Racconto di Natale, Arnaud Desplechin 2008

Racconto di Natale (Un conte de Noël)
di Arnaud Desplechin, 2008

A guardarlo da una certa distanza, il film di Desplechin sembrerebbe un altro racconto alla francese ambientato in una famiglia complicata o disfunzionale. Ma è sufficiente mettercisi davanti e guardarlo per accorgersi della sua unicità, della sua eccezionalità. Non tanto per la perfezione del cast (monumentali Mathieu Amalric e Anne Consigny) né per la sceneggiatura esemplare e misuratissima.

La cosa che colpisce di più è l’inestimabile ricchezza formale del film, il modo in cui Desplechin ha scelto di far interagire la mobilissima, luminosa e impeccabile fotografia di Eric Gautier e il furioso montaggio di Laurence Briaud, con una libertà quasi anarchica che sembrerebbe impensabile in un film così lungo, ma che ne rappresenta il tratto più distintivo – e che si appoggia alla perfezione sulla sensazione di frammentazione rappresentata da questo entropico, sgradevole e insostenibile quanto irresistibile, nucleo familiare.

Fin dal teatro delle delle silhouette che apre il film, passando per dissolvenze incrociate, iridi (tantissimi), sguardi in macchina, monologhi, visioni lupine, citazioni, schermi televisivi accesi per le feste (Dieterle, Donen, DeMille), e più in generale un modo sconvolgente e unico di fissarsi su dettagli apparentemente insignificanti per rivelarne la ricchezza – come il dettaglio di una foto che rivela una lacrima inespressa, delle note musicali lette nel silenzio della sera, o un silenzio che nasconde una verità celata.

Poi, Racconto di Natale è uno di quei film così densi e belli, un tale turbine di malinconia (ma riscaldato dal calore delle seconde occasioni, e infine dal potere del caso, della fortuna e del destino) da poter regalare a ciascuno un momento di verità, un istante di commovente epifania. Che per quanto mi riguarda è in quella cucina, di notte, nel dialogo doloroso, tardivo, necessario, tra Sylvia e Simon, a dirsi finalmente la verità – e il giorno successivo a riprendersi con la forza di un bacio la propria vita negata, tutto d’un colpo.

La classe, Laurent Cantet 2008

La classe – Entre les murs (Entre les murs)
di Laurent Cantet, 2008

La cosa che rende così speciale – e amato – Entre les murs, film che ha amichevolmente scippato a due meritevolissimi film italiani la Palma d’Oro all’ultimo Festival di Cannes, oltre alla freschezza e alla riuscita di una sfida effettivamente difficilissima, è forse il modo in cui si giostra tra i diversi linguaggi audiovisivi. Pur sembrando a prima vista un’opera facilmente inquadrabile, e magari assimilabile ad altre ambientate nelle classi scolastiche (come La scuola di Luchetti, con il quale ha somiglianze del tutto superficiali ma assai interessanti) il film di Cantet è infatti tutt’altro. Prima di tutto, come si sa, è progettato più come un laboratorio teatrale che come un film vero e proprio. Inoltre, a livello produttivo sembrerebbe ammiccare al mondo del documentario più che a quello della fiction. Ma proprio di fiction, purissima, si tratta, e inoltre il risultato ha una compattezza e una lucidità impressionanti, grazie alle quali si trasmette in modo immediato, anche se complesso e a volte impietosamente diretto, un’immagine di un conflitto sociale inedito.

Quello che si svolge, verticalmente, tra due generazioni vicine eppure incapaci di ascoltarsi. E quello che si svolge, orizzontalmente, tra i diversi volti e accenti della classe, in una periferia in cui l’integrazione c’è, o dovrebbe esserci, ma appare sempre più come un sogno o un’illusione, lo specchietto per le allodole turistiche delle comunicazioni ministeriali – quando basta una bocciatura per ritrovare, a 13 anni, la fine della speranza in un cambiamento, la strada di una casa lontana e inospitale. Un conflitto di cui i ragazzi sembrano essere quasi più consci che i loro professori, confinati all’angolo e senza più un vero "potere" a marginare il loro potere dissacrante, che è anche quello di una maggioranza abituata a essere silenziosa. E senza più nulla, nulla da insegnare – né, in definitiva, nulla da imparare.

Un conflitto che si svolge, nel coerentissimo affresco di Cantet, sempre e comunque tra le quattro mura. Al di fuori delle quali, il mondo è accennato soltanto dai riflessi riscontrati nella vita scolastica – è qualcosa che non esiste, è quasi antimateria. E’ un controcampo negato, ma per il quale, ugualmente, ci preoccupiamo e soffriamo insieme a François Bégaudeau, alla sua classe terza, a un’aula vuota e incasinata dove, l’anno successivo, si ripeterà tutto da capo, di nuovo. Senza più un senso.

Cous cous, Abdellatif Kechiche 2007

Cous cous (La graine et le mulet)
di Abdellatif Kechiche, 2007

Presentato alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2007, il film di Kechiche è l’opera che, secondo molti, avrebbe dovuto uscirne vincitrice – mentre come sappiamo dovette accontentarsi di diversi premi secondari, mentre quello principale andò a Lust, caution di Ang Lee. E l’alone di entusiasmo critico che circonda da allora il film, e che l’ha portato a vincere una miriade di premi, tra cui 4 César, non è per nulla ingiustificato.

La graine et le mulet è infatti un film straordinario. E nel senso letterale del termine: così come costruisce l’impressione di un’opera ordinaria, dal profilo europeo e dal sapore mediterraneo, sa poi prendere strade del tutto inaspettate, sorpassando e travolgendo le aspettative del pubblico. Te ne accorgi quasi subito, con quelle chiacchierate lunghe, lunghissime interminabili, intorno al tavolo – che, nella prima parte, funzionano quasi come un ripensamento della metodologia di presentazione dei personaggi. O nel modo in cui si palesa sullo schermo Rym – mangiando cous cous con le mani, succhiandosi le dita. Ma potrebbe essere tutto qui.

E invece, senza paura di dare fiducia a chi assiste (una cosa rara in un cinema come quello europeo che spesso dà l’impressione di sentirsi intellettualmente superiore allo spettatore) attraverso alcune libertà espressive e sintattiche, con una narrazione che si fa via via più serrata, si arriva a una seconda parte incredibile, di grande compattezza narrativa nonostante il numero di personaggi coinvolti, in cui si crea una tensione quasi palpabile da cui è davvero difficile fuggire. Fino a un quarto d’ora finale che lascia senza fiato, e a una chiusa improvvisa e crudele – o forse semplicemente inevitabile, per come è fatta la vita, e quel beffardo equilibrio che tiene insieme il mondo.

Assolutamente impressionante la prova d’attrice della giovane esordiente Hafsia Herzi, premiata a destra e a manca, più per il suo dialogo con la madre davanti alla finestra che per la sua sensualissima danza (annunciata dai poster spoilerosi). Da veri brividi sulla schiena, invece, sia per la performance in sé sia per la scelta testarda e coraggiosa di mantenerlo integrale e senza stacchi, il monologo urlato, quasi insostenibile, di Alice Houri.

Parigi, Cédric Klapisch 2008

Parigi (Paris)
di Cédric Klapisch, 2008

Contro di me si pone il fatto che non avevo mai visto un film di Klapisch – no, nemmeno quel film che nel periodo in cui vivevo a Bologna impazzava tra moltissimi miei coetanei, forse per una sorta di suggestione emulativa dell’erasmus-pensiero che però, dal canto mio, non ho mai trovato così attraente. O forse era solo invidia per chi in Erasmus ci era andato sul serio, chissà. Detto questo, suppongo non sia necessario essere un filologo dell’opera di Klapisch per uscire dal suo ultimo film sensazionalmente insoddisfatti.

Quello che mi sconforta di Paris, oltre al minutaggio davvero fuori dall’ordinario che renderebbe il film indigesto anche a spettatori più avvezzi a cose simili o più semplicemente al mito sempiterno della capitale francese, è che Klapisch dà l’impressione, per tutta la durata del film, di non saper bene dove andare a parare – forse convinto che basti riempire lo schermo di personaggi per fare del cinema corale, che basti farli incontrare per puro caso per parlare del Caso, mettendo in scena, più che quest’ultimo, un vero e proprio Casaccio. Poi, ovviamente le idee ci sono, e i personaggi pure. Ma l’impressione è che tutti questi volti, scaltramente variabili sotto il profilo sociale – che almeno ci venga risparmiata la solita manfrina altoborghese! – funzionino benino da soli e facciano solo disastri quando si incontrano o si scontrano.

Insomma, il fatto che la storia più riuscita del film – il professore di storia Fabrice Luchini che si innamora della studentessa Mélanie Laurent, peraltro una delle ragazze più fiche di Francia – sia basata su un tale polveroso cliché, dice molto sul resto delle vicende. Poi, il film ha i suoi alti e i suoi bassi, e senza dubbio sa migliorarsi e aggiustare il tiro, nella seconda parte, dopo un incipit ipermontato e furbetto e una prima metà in cui sulla stramaledetta Parigi ti verrebbe voglia di tirare una bomba. Ma sequenze orride come quella onirica in 3D ambientata nel software d’architettura (sic) o quella, telefonatissima, dell’incidente al ralenti, sono davvero difficili da digerire persino in un film che ad un certo punto sembra almeno saper ammettere i suoi stessi limiti.

Ne le dis à personne, Guillaume Canet 2006

Ne le dis à personne (Tell no one)
di Guillaume Canet, 2006

Piccole stranezze della distribuzione nostrana: il lungometraggio di Canet, talentuoso attore francese, dietro la macchina da presa per la seconda volta, è uscito nel paese d’origine quasi due anni fa, nel Novembre 2006. Per poi conoscere nei mesi successivi un successo senza precedenti: quattro Cèsar (regia, attore, montaggio e musiche) all’inizio del 2007, distribuzione globale, persino una recente uscita limited nei teatri statunitensi che ha suscitato non pochi entusiasmi da parte della critica.

Ma che fine ha fatto, in Italia, Ne le dis à personne? Sorprende che, nonostante la facilità fraterna con cui accogliamo spesso e volentieri opere d’oltralpe che poi vengono tacciate di eccessiva "francesità", si sia dimenticato per strada questo thriller mozzafiato. Che, se non è il capolavoro da molti sbandierato (perché è troppo lungo, o meglio perché si dilunga troppo) è ben più che un titolo interessante. Soprattutto perché Canet, nonostante la scarsa esperienza, è proprio un regista sorprendente. Furibondo e insieme misurato: doverosamente egocentrico nello sfoggio di una tecnica notevole (come nelle lunghissime fughe a piedi della parte centrale), così come sa tirare fuori i muscoli quando è il momento, allo stesso modo sa mettersi da parte in caso contrario.

Il resto lo fa l’ottimo cast, François Cluzet in primis, e una storia che va a scavare nei segreti e nelle bugie senza però essere morbosa o torbida – e significativo di un interesse morale nella vicenda è il piccolo ruolo che Canet si è ritagliato nel suo stesso film. Ma Ne le dis à personne non è solo tesissimo e ricco di colpi di scena, grazie a una sceneggiatura tra le più intricate che io ricordi ma con un’intelligente e coesa doppia risoluzione, ma mostra con il suo straziante e romantico finale il coraggio di essere catartico solo a metà – macchiando con le lacrime di compromesso una felicità raggiunta con il sudore e con il sangue, a rischio della propria vita. Hai detto niente.

Se volete, il DVD doppio su Play.com ve lo tirano dietro.

Les chansons d’amour, Christophe Honoré 2007

Les chansons d’amour
di Christophe Honoré, 2007

Delta Charlie Delta, sur la fréquence de la police
Delta Charlie Delta, la chanson de la mort qui glisse

Non nasconde un profondo affetto nei confronti del cinema francese del passato, il regista bretone: la struttura tripartita (le départ, l’absence, le retour) viene direttamente dai Parapluies di Jacques Demy, così come alcune precise scelte registiche (il personaggio di Julie che si muove su un tapis roulant), ma tutto l’apparato iconografico e narrativo (il ménage à trois, la tragedia improvvisa, e via elencando) affonda le sue radici nel terrano originario della Nouvelle vague. Ma Honoré ha l’intelligenza e il talento di sfruttare l’humus su cui è cresciuto, non limitandosi a succhiarne la linfa in uno sterile omaggio.

Così, attraverso le canzoni di Alex Beaupain (che appare nel film in una sequenza cruciale, proprio nel ruolo di un cantante in un locale), che non sono solo bellissime ma possiedono un’immediatezza emozionale fuori dal comune (fin dall’attacco dell’incredibile De bonnes raisons), e quindi perfette per lo scopo che si prefiggono, Honoré riesce a raccontare una storia che sta in piedi da sé – quella di una scoperta di sé che passa attraverso la perdita e la solitudine, quella di un sacrificio necessario per una catarsi personale che si porta dietro, con un sorriso e una canzone, l’odore tangibile di un volto fantasma – e che trapassa lo sterno fino al cuore senza bisogno di troppe spiegazioni.

I contributi maggiori vengono da un cast partecipe e affascinante (Louis Garrel è probabilmente l’uomo più bello di questo pianeta, su Ludivine Sagnier è meglio che taccia, ma anche gli altri sono davvero tutti eccellenti) e soprattutto da una regia che non lascia niente al caso, che è precisissima eppure estremamente carnale, addirittura vibrante: forse la convinzione così palese e sfrontata che un movimento di macchina possa ancora avere, di per sé, una portata emozionale basta a far sì che questo accada.

O forse è semplicemente un bellissimo film.

E comunque, studio editoriale is the new officina meccanica.*


Tra le altre cose, Premio Speciale della Giuria all’ultimo Torino International GLBT Film Festival.

Il film, dopo la presentazione a Cannes 2007, è uscito in Francia più di un anno fa: da noi invece non c’è ancora traccia di una distribuzione. Peccato. Consolatevi con il DVD edizione UK (poco chiaro se su quella francese ci siano i sottotitoli inglesi o meno), che è gararantito Artificial Eye: non è economicissimo ma è un buon acquisto.

*questa è sua.

Les Parapluies de Cherbourg, Jacques Demy 1964

Les Parapluies de Cherbourg
di Jacques Demy, 1964

Sotto la pioggia di Cherbourg, tra i décor pastello e i cappotti multicolori, si svolge l’amore impossibile tra Geneviève (una stupenda Catherine Deneuve appena ventenne con la voce di Danielle Licari) e Guy, intepretato da Nino Castelnuovo: lei è l’inseparabile figlia di un’ombrellaia in crisi economica, lui lavora in un’officina meccanica. Separati dalla partenza improvvisa di Guy per il servizio militare, ritroveranno nell’assenza una via per affrontare la vita – anche se il ritorno rivelerà con chiarezza la natura parziale della loro felicità. E che la vita è più spesso fatta di compromessi che di follie romantiche, ché "d’amore si muore solo nei film".

Una delle cose più interessanti di Les Parapluies de Cherbourg, uno dei melodrammi musicali più stupefacenti e struggenti mai realizzati, tra le vette del cinema francese di metà novecento, mi sembra stia soprattutto in una concezione coercitiva della regia che lo distanzia – apparentemente – da molti colleghi e coevi della Nouvelle Vague. Demy acuisce fino all’estremo, come riusciranno a fare pochissimi in seguito, l’utilizzo del musical (più in particolare, di una traccia musicale che si sostituisce del tutto al parlato) come forma di controllo totale, già insito nel genere stesso. Controllo sulla sceneggiatura, sugli attori, persino sui movimenti di macchina. Non poteva insomma essere differente, nemmeno di un soffio invisibile, Les Parapluies de Cherbourg: ed è anche su questa inesplicabile ma palese inevitabilità, così come quella del destino beffardo che racconta, che si costruisce la sua grandezza.

In ogni caso, a distanza di quasi mezzo secolo, un film che è ancora capace di ammaliare e commuovere – grazie, ovviamente, anche all’assoluto incanto delle canzoni di Michel Legrand. Un film di indescrivibile bellezza, che nel suo abbassarsi a scrutare nella feroce, indistricabile tristezza di cui la vita è fatta, ne diventa un simulacro più grande e splendente, tanto malinconico quanto immortale.

Il film è disponibile in DVD italiano, anche sulla rete. Peccato non sia proprio a buon prezzo. Se non vi interessano i sottotitoli italiani, volete spendere meno, e avere un’edizione davvero ben confezionata, su Play.com c’è l’edizione speciale inglese.

Grazie infinite all’eccellente UnoDiPassaggio per avermi messo la pulce nell’orecchio. E oggi è pure il suo compleanno: andate a fargli gli auguri.

Frontière(s)
di Xavier Gens, 2007

Alla curiosa rassegna itinerante 8 films to die for si accennò già scrivendo di Ian Stone: ma in realtà lo scorso Novembre vennero proiettati solo 7 film sugli 8 previsti, perché Frontière(s) si beccò un divieto ai minori NC-17 che lo rese inutilizzabile ai sensi del "festival", e vide costretta la After Dark a costruirgli intorno un’uscita a parte: sarà infatti nelle sale statunitensi il prossimo 9 Maggio. Ed è chiaro che un film troppo violento per una rassegna del genere non può non sollevare qualche curiosità.

Ed effettivamente il film di Xavier Gens, opera prima anche se uscita quasi in contemporanea con il bessoniano Hitman, a causa del quale si è già reso inviso alla critica internazionale, è costruito impilando uno sopra l’altro una buona quantità di topoi che, messi così tutti insieme, potrebbero sfiorare il ridicolo: i postadolescenti ribelli, il gerarca nazista, aborti affamati che vivono nel buio del sottosuolo, un’antologia del cannibalismo (ma senza scene di cannibalismo), aperte metafore politiche (riferite, come già in À l’intérieur, alla crisi nelle banlieu parigine). Anche le situazioni giocano al rilancio, e in questo senso c’è davvero da divertirsi: qui mettiamoci un lago di sterco suino, se non bastasse vai con la pioggia di sangue, e per finire una rotolata nel fango – catfight compreso – che non fa mai male.

In un certo senso però, se è vero che il film non è altro che uno slasher abbastanza tradizionale (lo scheletro è ancora quello di The Texas Chainsaw Massacre), sul sadismo applicato alla protagonista Karina Testa trova davvero una soluzione inventiva: quella di un personaggio che, da un certo punto in avanti (per la precisione dalla sequenza della cena), si muove esclusivamente per inerzia inconscia, mescolando il più classico "spirito di sopravvivenza" con un vero e proprio crollo psicofisico davvero convincente – tant’è che poi la risoluzione e la salvezza possono essere portate solo da un brutale livellamento, dall’abbraccio (parziale) con quella stessa furia animale che caratterizza i suoi personaggi.

Per il resto, rigetti di stomaco permettendo, una robetta che senza dubbio si fa vedere e che si fa pure dimenticare in fretta – ma davvero bella tosta, gradevolmente faticosa, e comunque assai meglio della maggior parte delle ragazzate prodotte oltreoceano. Che loro un NC-17 così se lo sognano.

Anche in questo caso, Valido era arrivato prima degli altri.

Inside (À l’intérieur)
di Alexandre Bustillo e Julien Maury, 2007

Il film d’esordio di Maury e Bustillo, quest’ultimo anche sceneggiatore e capo redattore del gagliardo Mad Movies, negli ultimi mesi ha gironzolato parecchio: da Cannes e Toronto l’anno scorso, è passato per molti festival di genere, come l’hollywoodiano Screamfest e il Frightfest di Londra (dove venne recensito da Valido). Ma che À l’intérieur possa trovare una strada distributiva dalle nostre parti, è tutto da vedere: si tratta infatti di uno dei film più violenti e truci prodotti in Europa negli ultimi anni, paragonabile semmai per le sue scelte estreme solo a certo cinema asiatico.

Non si tratta solo di sangue, né solo di paura: À l’intérieur è uno di quei casi, abbastanza rari per chi abbia uno sguardo preparato, in cui le barriere che solitamente rendono il gore materiale da tranquilli sgranocchiamenti vengono allegramente superate. In tal senso, una Béatrice Dalle gotica e irrefrenabile, il soggetto ridotto alla sua essenza, uno dei twist centrali più assurdi mai accennati (il risveglio del poliziotto), un bizzarro incipit in 3D da sopracciglia aggrottate (che però, come suggerisce il titolo, tramuta immediatamente il punto di vista da quello del classico slasher – vittima vs carnefice – a un inedito e solenne buio uterino), la prevedibilità della "spiegazione", la stupidità dei personaggi, tutti questi elementi di potenziale "disturbo" a nulla valgono di fronte a un film che riesce a colpire allo stomaco come quasi nessun altro in questo periodo.

Difficile infatti, o probabilmente impossibile, rimanere del tutto saldi di fronte all’impressionante repertorio di morti (perpetuate con grosse forbici, pezzi di specchio rotto, ferri da calza, pistole, fucili – e sempre dove fa più male) e a un sadismo davvero ai limiti dell’antologico, che si rifà ai peggiori incubi dell’immaginario maschile (la castrazione, per esempio) ma soprattutto di quello femminile, con un armamentario di pugnalate sanguinose nel reparto maternità (e nel reparto privazione) che comincia dall’horror-splatter più onirico e innocuo (il breve sogno che apre le danze, in verità una pacchia per gli amanti del vomito) per finire in un finale – annunciato, ma ugualmente stupefacente e altrettanto insostenibile – all’insegna della carne straziata, dei fiumi di sangue, e appunto di una  vera e propria epifania delle interiora.

Un’altra dimostrazione che il cinema horror francese è vivo e gode di ottima salute. E che, come in questo caso, è un cinema che sa fare quel passo in più – quello che distanzia il giochetto sterile dallo straziante cinema delle viscere, gli infantili sgozzamenti dal miglior horror possibile. Un cinema che, viste le brevi distanze, dobbiamo solo permetterci di invidiare.

Il dvd Regione1 (USA) del film è già in circolazione da qualche giorno, e su Amazon costa pure poco. Se invece avete dei problemi con le regioni, sarà acquistabile sull’Amazon l’edizione speciale francese, da domani 23 Aprile 2008.

Un bacio romantico (My blueberry nights)
di Wong Kar Wai, 2007

Che cosa faceva di My blueberry nights qualcosa di cui avere paura? In parte il fatto che 2046 ci aveva storditi, e non nel migliore dei modi possibili? Ancor di più, la paura di un’adulterazione dovuta all’espatrio (solo parziale: si tratta di una produzione franco-cinese) e all’uso della lingua inglese? Ebbene, di quei timori Wong Kar Wai fa carta straccia, facendo di Norah Jones (che è una rivelazione, a suo modo) quel che già fece della popstar Faye Wong dalle sue parti, e regalandoci un film che non è solo di palese e folgorante bellezza, ma che è anche un ammirevole esercizio di coerenza.

Il segreto di My blueberry nights è tutto in quella parola: nel suo non essere affatto una versione "occidentalizzata" delle sue opere hongkonghesi, ma l’esempio vivente e pulsante che il suo è ancora un cinema universale, a cui panorami e volti si adattano e di fronte a cui si chinano. Liberatosi dell’ingessatura che per un film forse troppo bello, troppo perfetto e inarrivabile, gli si era costruita attorno alle mani, Wong trova proprio nelle strade e nei panorami degli Stati Uniti, ma sopratutto nelle sue stanze chiuse e nei suoi volti e nelle voci, un modo brillante per sfuggire al rischio di uno svilimento, per eccesso di stilizzazione, del suo cinema – che proprio dello stile faceva la sua bandiera – e per tornare a raccontare la sua storia (aiutato con perizia dal crime novelist Lawrence Block), e le storie che le girano intorno, con una leggiadria che, soprattutto quando la Jones e Jude Law condividono lo schermo, non fa rimpiangere i tempi passati.

Comunque, questo è un film di Wong Kar Wai nel cuore, nella carne. Lo è ben oltre le bellissime immagini che l’eccellente Darius Khondji ha onestamente rubacchiato dalla palette di Christopher Doyle: ci sono i volti celati del passato, le reiterazioni musicali (Try a little tenderness) che assumono un significato differente ad ogni riproduzione, interi universi che stanno rinchiusi in una singola stanza (che sia un café di New York, un bar di Memphis, o un casinò del Nevada), lo stesso attaccamento quasi feticista agli oggetti (cappelli, chiavi, gettoni) che sconfina in quel romantico e bizzarro animismo che è tra le chiavi del suo cinema, l’ossessione malinconica e profonda e incancellabile per il ricordo, per il rimpianto.

E se anche il film non funziona tutto alla perfezione come quegli incredibili primi 15 minuti, se anche la parte con Natalie Portman è segnatamente meno riuscita di quella con David Straihairn e Rachel Weisz, poco male: My blueberry nights è un film che dà e che toglie – ma alla fine lo fa con grande, miracoloso equilibrio. Ci sarà sempre la struggente confessione di una nostalgia, ai bordi di una strada ricoperta di fiori, a far perdonare un urlo fuori posto o una piccola scivolata. E non pretendiamo che sia sempre Hong Kong Express: sarebbe impossibile, e forse non lo vorremmo nemmeno. Potevamo chiedere davvero poco di più a questa romantica storia d’amore – di un amore gustato e rimandato, che lascia sulle labbra – anche sulle nostre, di labbra – un sapore dolcissimo. Un sapore che persiste, e cresce nei giorni a seguire.

Un film inatteso, e bellissimo. E rimanete fino alla fine dei titoli di coda: c’è un pezzo che conoscete bene, e non vede l’ora di essere riascoltato.


Nelle sale dal 28 Marzo 2008

Persepolis
di Marjane Satrapi e Vincent Paronnaud, 2007

Il film tratto dall’autobiografia a fumetti della stessa Satrapi, dopo la presentazione a Cannes l’anno scorso, era così tanto atteso ed è stato così tanto elogiato in ogni sede immaginabile da lasciare ben poco a chi vi scrive, quasi dispiaciuto – in un certo senso: assai relativo – che il film non sia un capolavoro ma solo un film di stupefacente bellezza. Probabilmente è un bene che a un certo punto il film smetta di "salire" – forse per la sua vocazione di accumulazione di frammenti – e rimanga lì dov’è. Insomma, è difficile chiamarlo difetto.

Un racconto di formazione costruito con rarissima intelligenza e ammirevole completezza (non solo nella riuscita di un adattamento da un testo simile: ma sarebbe stato già molto), eclettico com’è nei toni e nelle scelte stilistiche (non facendosi mai tagliare le gambe dall’invadenza stilistica, appunto, dei suoi bellissimi disegni), godibilissimo al di là della serietà dei suoi temi di fondo e della prospettiva profondamente personale (in cui il confine tra l’autrice e la Dramatis Persona è davvero sottilisimo), che si dipana attraverso vent’anni (e più) di storia iraniana, raccontando con piglio ben poco accademico e irresistibile scioltezza una frizione tra due mondi, tra leggerezze da commedia e momenti di intensa commozione.

Se non l’avete già visto, siete difficilmente perdonabili. Ma se volete rimediare, e avete pure fretta, e vicino a casa vostra non c’è, e il doppiaggio italiano (a cura della splendida Paola Cortellesi, che pare abbia fatto un ottimo lavoro – e non stentiamo a crederci) c’è già in commercio il DVD francese. Buona visione.

Lo scafandro e la farfalla (Le scaphandre et le papillon)
di Julian Schnabel, 2007

Non è facile farmi piacere così tanto un film il cui protagonista è completamente paralizzato: quasi non me lo spiego, anche perché qui ci sono tutti i crismi del caso che generalmente me lo renderebbero indigesto. La sensazione di essere presi in giro, o meglio, di essere colti scaltramente sul vivo e scoperti nudi come vermi di fronte alle proprie emozioni, è sempre dietro l’angolo.

Ma Lo scafandro e la farfalla è talmente riuscito e commovente da far cadere ogni dubbia sulla sua possibile furbizia. Un film sulla potenza invincibile del ricordo (la memoria nel passato), prima di tutto, ma anche – chiaramente – sulla forza necessaria e sull’impellenza del racconto (la memoria nel futuro), giocato peraltro su un geniale ribaltamento prospettico (un campione eccellente della frammentata società postmoderna costretto suo malgrado a giocare nel campo della pazienza e della lentezza) che fa con la letteratura quello che Una storia vera di David Lynch fece con il viaggio.

A prescindere da ogni possibile lettura, la trasferta francese del regista newyorkese Schnabel diventa un film davvero bellissimo e assolutamente straziante (basti pensare alla scena della telefonata del padre, uno dei momenti più strappalacrime, in senso letterale, degli ultimi tempi) ma anche costruito in modo molto intelligente: per esempio, la scelta di ritardare il "fattaccio" e il controcampo della soggettiva iniziale – per cui Mathieu Amalric appare solo dopo più di mezz’ora (ma il tempo speso fuoricampo non gli impedisce una performance strabiliante). La bellezza e la bravura di Emmanuelle Seigner e soprattutto della stupenda Marie-Josée Croze contribuiscono non poco.

Un film che è anche un esempio di come si possa costruire un film ineccepibile intorno a un libro apparentemente "impossibile", e che diviene – anche grazie alle stupende immagini e alle scelte compositive mai banali del nostro adorato Janusz Kaminski – un inno stupefacente al potere demiurgico e salvifico dell’immaginazione umana, e per estensione alla magia del cinema.

Angel
di François Ozon, 2007

Ozon è uno di quei registi di cui, all’interno di un immaginario dibattito tra gli amanti più sconsiderati e i critici più insolenti, non mi sono fatto ancora un’opinione precisa. Prima di tutto perché ho visto ancora poco. Il perché sfugge anche a me, misteri della mia stessa psiche. Non fa eccezione, nella mia brevissima esperienza ozoniana, questo gran bel "esordio anglofono" del quarantenne parigino dopo otto notissimi film in lingua francese.

Se con 8 femmes aveva dimostrato di riuscire a gestire alla perfezione questo tipo di omaggio nostalgico (lì c’erano le Donne di Cukor, e molto altro), qui Ozon riconferma di avere le stesse capacità anche senza l’aiuto di quell’ipnotico e straordinario cast. Angel è però un melodramma smaccatamente plasticato: fasullo, ma nell’unica accezione in cui possa essere un complimento. E lo è: non solo racconta un’ascesa e una caduta nel più classico dei modi, ma si filtra attraverso l’espediente del gioco cinefilo. Dai fondali ai tessuti, dagli abiti ai set, fino ad ogni singola mossa o battuta, Angel si pone come un punto d’arrivo del cinema riproduttivo proprio della – certuni la chiamano ancora – postmodernità.

Chi bazzica qui sa bene che ciò non è considerato un male, se fatto con classe: e di classe Angel ne ha da vendere. Ma se tutto ciò vi può trovare infastiditi, di principio, statene lontani: Angel, per questa sua tendenza esplicitamente cerebrale, e profondamente superficiale, è un film che accontenta la vista più che il gusto, la mente più che il cuore – e tutto questo rende un po’ ardua la parte più propriamente "melodrammatica": proprio perché una volta che il gioco è aperto e sotto gli occhi, fin da subito, è difficile poi riuscire a buttare il cuore alle ortiche.

Ma tutta la prima parte (l’ascesa, appunto) è qualcosa di travolgente e sorprendente, costruito su barocchismi tanto spudorati quanto affascinanti, in cui molta della forza è dovuta all’interpretazione "insopportabile" di Romola Garai, che più che un talento mimico formidabile, che comunque le si riconosce, mostra un’ammirevole abnegazione al "metodo Ozon": sopra le righe eppure ad esso sottomessa. Imprescindibile per questo la visione in lingua originale.

2 giorni a Parigi (2 days in Paris)
di Julie Delpy, 2007

Ammetto, e non è la prima volta che lo faccio, di non avere nessuna voglia di scrivere questo post. Un po’ perché ho come l’impressione che negli ultimi tempi ci sia – dalle parti dei blog cinematografici come altrove, ma il primo insieme mi preme ben maggiormente – la tentazione a far diventare di ogni discordia una polemica, di ogni differenza un battibecco. E da queste parti il quieto (con)vivere, a costo di ignorare a denti stretti i toni meno pacati, è sempre stata – si può dire – quasi una regola non scritta. Nella maggior parte dei casi, rispettata e funzionale. Chiamatelo pure buonismo – che brutta parola – se volete, affari vostri. Però i tempi cambiano, e a uno, dopo un po’, passa la voglia.

L’altro motivo, più pertinente a questo post nato monco, è che 2 days in Paris non è propriamente l’oggetto cinematografico più stimolante degli ultimi tempi, nonostante l’esplicito apprezzamento dimostrato da altre parti. Intendiamoci, la Delpy fa il suo lavoro come si deve, presenta una storiellina antiromantica sulla scoperta tardiva dei propri limiti e sull’impossibilità dell’idillio amoroso, usa finalmente Adam Golberg come protagonista (il ragazzo è ripetitivo ma talentuoso, e l’ebreo americano paranoico gli viene benissimo) e ha l’autoironia di dipingere se stessa come la più grossa matta sociopatica stracciacazzi di sempre – con l’impressione ben poco vaga che ci sia del vero. L’impegno a non dire troppe stupidate c’è e si vede tutto.

Ma 2 days in Paris è un film che non solo non sono riuscito ad amare: l’ho davvero sopportato a malapena. E decisamente maldigerito, alla fine. Non tanto perché farebbe diventare scemo chiunque abbia dei problemi di gestione della pazienza riguardo alla comicità basata sul reiterato imbarazzo spettatoriale (l’ho detto più volte, mi ci metto nel mezzo), ma perché avere da giocare delle carte così buone, anche se false, e perdere tutte le partite in modo così impunito, è un piccolo delitto nei confronti della commedia. Ora, suvvia, non esageriamo, ci siamo anche divertiti, a tratti: ma perché ora, dopo due giorni, non voglio che parlarne malissimo?

Il post è finito. Mi rendo conto che andarmene così è da vigliacchi, e che dovrei spiegare meglio i perché no rispetto ai perché sì, in casi come questo. Ma, come ho detto in apertura, non ne ho nessuna voglia.

Adam Golberg senza barba è uguale a Sylar pure lui.

Le voyage du ballon rouge
di Hou Hsiao-hsien, 2007
[Cannes a Milano 2007]

Prima di tutto, un’onesta ammissione: non ho mai visto un film intero di Hou Hsiao-hsien. E ne ho pure avuto spesso la possibilità. Tra le altre cose, sono stato portato fuori strada dalla bruttezza di una copia VHS mai terminata di Città dolente, dalla difficoltà di reperire una versione integrale di Millenium Mambo, e via dicendo. il regista taiwanese (a differenza del suo quasi-allievo Tsai Ming-liang) è sempre stato per me un autore conosciuto solo sulla carta, sugli altrui commenti entusiasti, su spizzichi e bocconi di un cinema che avrei potuto amare. Ma la vita è lunga.

Detto questo, in questo suo primo film europeo, Hou racconta una storia che è davvero "di tutti i giorni", riprendendo e riproducendo il quotidiano con una leggerezza – pari a quella del palloncino del titolo – che non può non lasciare affascinati. Come il fatto che pur non succedendo praticamente "niente", in senso canonico – l’interesse di Hou è infatti programmaticamente focalizzato sull’inessenziale, su quello che generalmente rimane fuori dall’inquadratura e quindi dal tempo della visione – Le voyage du ballon rouge riesce a restituire, a piccoli tratti – nella tenerezza di uno sguardo, in una paura, in un ricordo, in una malinconia – dimensioni inspiegabilmente universali. Anche con l’aiuto di una fotografia stupenda (ovviamente zeppa di piani-sequenza) che dà una vera lezione di come si illuminano e come si riprendono i volti umani, come l’espressività quieta e dolcissima di Sang Fong).

Non mi sono strappato i capelli, perché la referenzialità cinefila ("Il palloncino rosso" di Albert Lamorisse) è in questo caso quasi stridente, perché la popputa Binoche è bravissima – davvero, roba da inchini - ma troppo innamorata di se stessa, e – questione del tutto personale – per lo strafogamento di marionette. Ma come ci sia riuscito, a fare tutto il resto, me lo sto ancora chiedendo.

Paris, je t’aime
di Registi Vari, 2006

Paris, je t’aime è il film collettivo che ha aperto Un certain regard a Cannes 2006, ed è composto da 18 corti di circa 5 minuti ispirati ad altrettanti arrondissements parigini (due di essi, peraltro potenzialmente interessanti, ne sono rimasti fuori). Una volta dichiarato che il film è un’esperienza abbastanza positiva, se non altro per la brevità e per la varietà – ma nemmeno sempre – delle sue parti, e che si può dire poco altro, vista la sottilissima e pretestuale congiunzione tra esse (sono tutte storie d’amore? Quindi?), la pericolosa tentazione è quella di mettersi a scrivere qualcosa su ognuno dei 18 segmenti che lo compongono.

A quanto pare ci sono cascato come una pera.

Bruno Podalydès
L’incontro tra un uomo cinico e solo e una donna svenuta per strada. Ridotto all’osso e non proprio scoppiettante come inizio, ma Podalydès (anche attore protagonista) ha un’espressività invidiabile.

Gurinder Chadha
Inevitabile che la Chadha tirasse fuori un’altra volta "l’amore ai tempi del meltin’ pot", tanto più che di Parigi si tratta. Naif fino allo svenimento, ma piacevole. Cyril Descours mette tenerezza, Leïla Bekhti è una ragazza da sposare.

Gus Van Sant
L’incontro tra due giovani – e bellissimi – ragazzi, segnato dall’incomprensione linguistica e concluso da una corsa nelle vie di Marais. Tra i segmenti migliori, come si poteva ben prevedere. Cameo di un’enormerrima Marianne Faithfull.
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Joel and Ethan Coen

Scherzetto semi-barocco che gioca con l’ignoranza e la paranoia del turista fai-da-te. Divertente sciocchezzuola e poco più, ma ovviamente girata come dio comanda. Steve Buscemi sperduto e picchiato è sempre un bel vedere.
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Walter Salles and Daniela Thomas
L’odiosissima Catalina Sandino Moreno è una messicana divisa tra il figlio e il lavoro di babysitter. In bilico tra commozione e ricatto, ma tendente a quest’ultimo. Apprezzabile dono della sintesi, ma c’è un limite alla mia pazienza. Che palle.

Christopher Doyle
Non ci sarebbe bisogno di dirlo, è un’autentica goduria per gli occhi. Balletti colorati, vestiti e capelli al vento, focali corte, Li Xin. Assolutamente vacuo, ma io me ne sono innamorato.
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Isabel Coixet
Un onorevolissimo terzetto paneuropeo (Sergio Castellitto, Miranda Richardson, Leonor Watling) in una storia d’amore, abbandono e responsabilità che ho pure gradito ma che ho già parzialmente rimosso.

Nobuhiro Suwa
Il segmento del regista di M/Other farà felici i fan della Binoche e pochi altri, ma Willem Dafoe, Caronte per bimbi conciato come un cowboy, ripaga di quei cinque minuti di frignata.

Sylvain Chomet

Il regista di Appuntamento a Belleville ripropone anche live-action il suo stile esagitati e cartoonesco. Uno di quelli che ci mette più del suo, ma forse esagera: dopo un minuto vorresti fare un mimicidio di massa.
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Alfonso Cuarón
Doveva esserci per forza, quello che ci piazzava il piano-sequenza. Secondo me se lo sono pure litigato. Al di là di quello, non c’è molto. Giusto il meraviglioso vocione rauco di Nick Nolte, se vi basta.

Olivier Assayas
Il segmento dell’ex-marito di mia moglie è un’interessante variazione sui suoi temi abituali, sia nell’impostazione che nell’indole. Maggie Gyllenhaal è bravissima nel rischioso ruolo di quella fatta fino ai capelli e ubriaca marcia. So che molti di voi recupereranno questo film solo per quest’ultima frase.

Oliver Schmitz
Il regista sudafricano, a me pressoché sconosciuto, gira uno dei segmenti migliori, capace di sintetizzare in pochi minuti una storia che – caso unico? – avrebbe meritato un film a sè. O almeno un po’ di tempo in più. A suo modo, struggente.
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Richard LaGravenese
Buon sceneggiatore e regista inesperto, LaGravenese dirige il noiosetto segmento di Pigalle, ovviamente ambientato in un peep-show. Puttane e romanticherie: ecco a voi uno che ha preso Parigi troppo alla lettera.

Vincenzo Natali
Cosa ci faccia qui dentro, questa insulsa ridicolaggine con Padron Frodo vampirizzato da una bonazza, andrebbe chiesto a chi di dovere. Sono passati 10 anni da Cube e questo tizio ancora ci mangia. Fermatelo.

Wes Craven
Da un Craven ambientato a Père-Lachaise ti aspetti come minimo un horroretto, e invece c’è il fantasma di Oscar Wilde che salva una coppia in crisi a suon di aforismi. OMG.

Tom Tykwer
Quasi una costola di Lola corre, otto anni più tardi. Di tutta la cumpa, Tom Tykwer è quello che ha sfruttato meglio il tempo a sua disposizione, e di sicuro quello che si è sbattuto di più. Sarà pure roba vecchia, ma visto il contesto forse è il segmento più bello. E poi c’è Natalie Portman, dai.
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Gérard Depardieu e Frédéric Auburtin
Gena Rowlands interpreta e scrive un segmento che funziona solo come omaggio al settantasettenne Ben Gazzara. Che però è newyorkese. E poi biascica, non si capisce nulla di quello che dice. Sbadigli.

Alexander Payne

A chiudere la sequela è la "storia d’amore", ben scritta, tra un’americana di mezza età e la città di Parigi herself. Solitudine, malinconia, cinismo, un deciso – e non sottilissimo – sarcasmo verso i compatrioti, ma con una punta di speranza: chi odia a morte Payne avrà pane per i propri denti.
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Them (Ils)
di David Moreau e Xavier Palud, 2006

Controindicazioni del non avere materialmente tempo: dover aspettare quattro giorni e quasi la mezzanotte per scrivere un piccolo ma decoroso post su un piccolo ma decoroso horror francese.

Controindicazioni dello scrivere un post dopo quattro giorni: non mi ricordo granché. Ho visto Them di sabato sera, da solo e al buio, mi sono sommariamente divertito, giusto una volta o due mi sono pure spaventato, appena appena. Ne ho apprezzato l’assoluta essenzialità, la gestione coerente delle unità aristoteliche, il gusto del recupero-del-puro-racconto, alcuni momenti che non saprei ripetere, la brevità (sembra poco, ma è un fattore importante) e il finale-beffa, risaputo ma dal buon effetto, e poco altro.

[poi, avevo un sacco di altre cose da aggiungere che non ricordo, c'era anche una cosa tipo "se vai a vivere in culo ai lupi nelle campagne rumene, e in più sei la macchietta dello scrittore inetto che si fa mantenere dalla fichetta, e in più sei il clone di Rodrigo Santoro (si intenda, in versione Paulo-di-Lost, non in versione Serse-di-Persia), e in più usi un portatile vecchissimo che monta un windows vecchissimo su cui giochi a Space Cadet 3D Pinball, cielo, un po' te la sei cercata", e altre osservazioni molto meno trattenute su Olivia Bonamy.]

Controindicazioni dello scrivere un post quasi a mezzanotte: ho già finito.

L’arte del sogno (La science des rêves)
di Michel Gondry, 2006


"Will you marry me when you are seventy and have nothing to lose?"

Attendevamo così tanto il terzo film di Michel Gondry dopo le meraviglie di Eternal sunshine of the spotless mind da non poter non avere qualche paura. Per l’assenza di Charlie Kaufman in sede di sceneggiatura (qui tutta farina del sacco di Gondry), per lo spostamento eurocentrico e paneuropeista (il film è ambientato in Francia e recitato in francese, inglese e spagnolo), per mille altri irragionevoli motivi. Ma, sempre se vi fidate, potete stare tranquilli: La science des rêves è un film magnifico.

In fondo lo spirito (romantico, romanticissimo) che lo muove è lo stesso del precedente: una storia tanto ironica e divertente quanto sottilmente disperata sull’impossibilità di amarsi e sull’incontro e lo scontro tra la realtà, la memoria e il sogno. Ma questa volta, invece che sottolineare l’irresistibile ma irriproducibile cerebralità kaufmaniana, Gondry decide di raccontare la sua storia d’amore con un’incredibile leggerezza, a volte davvero commovente in modo inspiegabile (perché gli basta una frase, o uno sguardo), che ha le sue radici più profonde nella tradizione della Nouvelle vague, ma che va anche oltre.

Perché è vero che il piglio registico è più tradizionalmente "europeo" che in ESOTSM (predilezione per la camera a mano, apparente predominio del piano diegetico su quello visivo), ma lo è solo in apparenza: perché quando la fantasia e l’estro del quarantatreenne regista versaillais prendono forma, ogni struttura implode, ghiaccia, esplode, prende fuoco, riconfermando Gondry come uno dei massimi affrescatori di sogni del cinema contemporaneo. Sogni che sono i nostri desideri, ma anche le nostre più profonde paure. Come quella di affrontare un mondo che alterna noia e avversità, e a confronto del quale la fase REM è un giaciglio ben più comodo e poetico su cui costruire la propria identità.

Quindi, quando la storia di Stéphane e Stéphanie si è dipanata, non ci importa quasi più lo spassoso e complicato rimescolamento della realtà compiuto da Gondry, che pone l’ultima parte del film – quasi irraccontabile, e sicuramente non razionalizzabile – e su un piano altro rispetto al mondo a cui il cinema ci ha abituati. Rimane piuttosto nel cuore quella vita vera da ricostruire a partire da, e abbandonando, i propri sogni. Una foresta in una barca bianca che cerca il suo mare. E una carezza, una tiepida e dolcissima speranza.

Nei cinema dal 19 Gennaio 2007

Nota: questa volta siamo sfuggiti al disastro del titolo. Bene. Speriamo solo che la Mikado (nella nuova gestione De Agostini) lanci il film in modo decente e faccia realizzare un doppiaggio quantomeno intelligente. Inutile dire che L’arte del sogno andrebbe visto nella sua versione originale, visto il crogiuolo di lingue coinvolte, ma sapremo accontentarci. Ci contiamo.