Francia

Cuori (Coeurs)
di Alain Resnais, 2006

Capisci che un film non è proprio riuscito quando ti giri continuamente durante la proiezione per controllare se anche le persone accanto a te stanno provando le tue stesse sensazioni (nell’ordine: noia, nervosismo, insofferenza, eccetera) oppure se stanno vedendo un altro film ed è semplicemente il tuo gusto che non si è ben appaiato con le tue aspettative. In questo caso, notevoli queste e decisamente sconfortato quello.

Perché va bene che hai 84 anni e quindi non sai precisamente che cosa diavolo stai facendo (la costruzione è effettivamente mediocre persino nel caso dell’unico personaggio vero e sensato, quello di Sabine Azéma) e il tuo livello mentale è probabilmente quello dell’anziano scorbutico Arthur, ma c’è davvero un limite a tutto. L’idea di "cinema corale" di Resnais è in realtà una serie di scenette autonome e separate che danno l’impressione di un’improvvisata recita teatrale parrocchiale in cui dopo ogni scenetta gli attori si cambiano sul palco. Un’idea di cinema abbastanza primitiva e fastidiosa, e senza una vera idea di sceneggiatura.

Bello da vedere, ecco: la regia è eccellente (con alcuni bellissimi piani-sequenza con focale corta, come quello di apertura, riprese dall’alto che schiacciano i personaggi) e altrettanto la fotografia di Eric Gautier. Ma è tutto terribilmente artificioso e freddo (ma non nel senso in cui vorrebbe esserlo: la neve nei cuori qui non attacca, monsieur Resnais), forse anche per la recitazione costruita su un uso eccessivo e fuoriluogo della pantomima, e grazie a cui le sequenze vanno dalla più totale indifferenza alla voglia di entrare nello schermo e fare una strage. E la mia un-tempo adorata Laura Morante, sì, come temevo, si accende almeno una sigaretta tremando.

Ma la cosa per cui ci ricorderemo per sempre Coeurs, e che probabilmente tornerà a farci visita sul letto di morte, è la dissolvenza con la neve. Oh! voi anime perdute che avete ancora tanta voglia di vedere questo film, sappiate che ogni. singola. scena. di Coeurs è separata dalla successiva da una lunga dissolvenza incrociata con l’immagine della neve cadente. Signore e signori, lo snowfade. Ma siamo pazzi? Stiamo scherzando? No, non avete idea.

Silent Hill
di Christophe Gans, 2006

A dispetto di un trailer che aveva fatto alzare a molti – me compreso – le orecchie dall’entusiasmo pregiudiziale, anche per la prestigiosa firma dello script a cura di Roger Avary, l’adattamento del celeberrimo videogioco della Konami non è stato accolto alla sua uscita nel migliore dei modi. Anzi. Eppure, così com’era successo nell’interessante versione cinematografica della nemesi storica di Silent Hill, ovvero il Resident Evil della Capcom diretto da Paul Anderson, anche il film del francese Gans fa meno danni di quanto si potesse temere. Questo perché, nonostante la durata davvero eccessiva (due ore di survival game che non fa nemmeno troppa paura sono un po’ indigeste) e una parte centrale in cui si tende a ripetersi e a fare dell’horror risaputo (molti si lamentano dell’eccesso di bimbe dai capelli lunghi neri, e non a torto: qui c’è pure l’odiosa bimba di Tideland), Avary e Gans riescono a cogliere più volte nel segno.

Il primo grazie a intelligenti invenzioni narrative che incastrano tra di loro le suggestioni di tutta la serie ludica non limitandosi a "rifare" il primo episodio (il non-incontro tra Rose e Chris nei corridoi della scuola, la polvere che sale da terra come i rewind di Rules of attraction, il flashback un po’ didascalico ma inquietante), restituendo così l’originale senso di inquietudine dell’opera originale e parlando (senza strafare, ovviamente) di come di fronte agli abissi dell’essere umano persino il diavolo sia un male minore. Il secondo grazie ad una messa in scena a tratti inetta e esagitata ma altre volte davvero fulminante (le infermiere-zombie, l’uomo con la testa a piramide e lo spadone), che inizia con la riproposizione della nebbiosità tipica del gioco e che termina con un pre-finale che più barocco non si può. Chiude il tutto un finale silenzioso e malinconico che sembra uscito da un film coreano, e che si fa apprezzare non poco.

Non sono qui a sostenere che tutto vada per il verso giusto, perché ci sono mucchi di banalità, cumuli di ingenuità e parecchia noia, frasi insulse e senza significato messe in bocca ai personaggi solo perché suonano bene o perché suonano minacciose. Siamo ancora lontani insomma da un’interazione artistica compiuta tra cinema e videogioco sul grande schermo, persino in casi (come Silent Hill, appunto) che si presterebbero alla perfezione. Forse la sintesi migliore la si è ottenuta non allontanandosi troppo dalle dinamiche videoludiche (e sto parlando di Advent Children). Ma senza dubbio lo spettacolo non manca di un certo fascino.

L’amore sospetto
(La moustache)

di Emmanuel Carrère, 2005

La moustache, tratto da un romanzo dello stesso Carrère, parte da un’idea davvero bizzarra ma terribilmente stimolante: Marc (un Vincent Lindon sospettoso – non mi viene altro termine, la sua sola espressione è quella, ma gli riesce bene) decide di tagliarsi i baffi per un vezzo, ma tutta la gente intorno a lui non nota la differenza, anzi, nega che lui li abbia mai avuti. Soprattutto la sua fidanzata, di cui comincia a dubitare, perché pur di non accettare la propria follia chiunque sospetterebbe prima di tutto degli altri. E i baffi sono solo l’inizio.

Pur trattando e rappresentando temi interessanti come – ovviamente – la perdita dell’identità e la ricerca esasperata dell’annullamento della stessa – i viaggi senza meta nei nonluoghi, qui i battelli aeroportuali di Hong Kong -, l’interesse maggiore del film è al livello delle strutture superficiali del racconto, che si sviluppa come una variazione quasi metanarrativa tutta giocata sul ribaltamento e la forzatura della forma retorica del punto di vista.

Condividendo infatti in tutto e per tutto quello di Marc, anche nelle possibili visioni e paranoie, lo spettatore è altrettanto sperduto nel dubbio, e quando interviene la follia a chi guarda non resta che barcamenarsi come può tra passato e presente, sogno e realtà. Peccato che però tutto ciò si perda molto nella seconda parte, troppo occupata a tirare su metafore per non accorgersi che ci si annoia, e la senzazione è che nonostante la brevissima durata del film, giunto ad un certo punto Carrère avesse finito le idee per quello che sarebbe stato un bellissimo cortometraggio.

Si gusta con piacere e si dimentica al volo, come la realtà.

Un tantino fuorviante il titolo italiano, neh? Ma si sa, la francia è il paese dell’amore, ah, l’amour, e i francesi fanno solo film d’amore e si baciano con la lingua.

Cacciatore di teste (Le couperet)
di Costa-Gavras, 2005

Tratto da un romanzo dell’eccezionale scrittore americano Donald Westlake, il nuovo lavoro francese del regista greco di Missing e Z L’orgia del potere – uscito in Italia con grande ritardo, e in sordina – è sia un film morale molto esplicito (sui fini e sui mezzi, per semplificare) sia uno film sullo stato del mondo del lavoro in Europa. Ma è anche – cosa ancora più rilevante ed interessante – una brillante "applicazione di genere" fatta a spese (e a vantaggio) di entrambe le categorie.

Così, il film è una seria e impietosa occhiata allo sfacelo delle politiche del welfare – mentre nelle strade i "simboli dello status" sono sempre gli stessi, e dai lati dei camion continuano ad attirare lo sguardo della gente – e una arguta e ironica macchina di genere, realizzata con un ritmo molto serrato, secco e improvviso come i movimenti di macchina scelti da Gavras, e la cui sincope acuta tende forse a svilire o a mettere in secondo piano quanto viene detto, con chiarezza inquietante, sul mondo del lavoro, perdendo persino a volte qualche colpo.

Ma il film, tanto imperfetto quanto insospettabilmente amabile, si può avvalere della gigantesca interpretazione di José Garcia, vera forza motrice dell’opera, diviso tra la pazzia e la lucidità assassina, e non fa stonare mai nemmeno la sua voce fuori campo, prima narrativa e trasformata poi – con un colpo di coda non da tutti – in uno squarcio aperto su una quotidiana follia.

Assault on precint 13
di Jean-François Richet, 2005

E’ accaduto, di recente, almeno una volta. L’anno scorso: il film era L’alba dei morti viventi di Snyder. L’annuncio gridava vendetta al cielo, mentre i risultati erano positivamente sorprendenti. Ora, se proprio dobbiamo dirlo, qualche sbandata il francese la prende, e come rifacimento di Distretto 13 era forse un dito meglio – sempre per rimanere in Europa – l’unofficial remake Nido di vespe.

Però Assault è un film che colpisce nel segno in quello che si era preposto di essere: un b-movie che sembra un a-movie che sembra un b-movie. James DeMonaco, responsabile di un paio di porcherie come Jack e Il Negoziatore, sposta parzialmente il baricentro dell’azione all’esterno dell’edificio, costruendo inoltre un "nuovo" nemico, aggiornato ai tempi. Le ombre invisibili dei cattivi non fanno più paura, quello che fa paura sono le brutte sorprese. L’idea è buona, e soprattutto funzionale.

Chiaramente si perde mordente sul piano horrorifico e soprattutto si perde ogni respiro metafisico. Ma non essendo nemmeno avvicinabile all’opera seconda di Carpenter da cui è tratto, poco importa: Assault è un action tesissimo, ben girato e ben interpretato, con qualche personaggio azzeccato e qualche altro meno, alcune banalità – soprattutto nei dialoghi – ma anche una bella (e graditissima) faccia tosta nel trattare (male) i personaggi, senza badare tanto a correttezza, consequenzialità, amor proprio. Come la scena di Maria Bello (bella e brava) e Gabriel Byrne (diabolicamente noioso), sotto la neve: non ve la scorderete facilmente, almeno fino al mattino dopo.

Drea de Matteo è bruttina, truccatissima, rauca, ninfomane. Adorabile.

Tutti i battiti del mio cuore (De battre mon coeur s’est arrêté)
di Jacques Audiard, 2005

L’ultimo film del regista francese, di cui non ho colpevolmente visto altro, è un remake di un film indie americano del 1978 (con Harvey Keitel), da me sconosciuto fino a oggi. Ed è molto diverso da quello che mi aspettavo dalla trama e dal trailer.

Perché sotto alla tipica storia di una seconda occasione e di una fuga dal dolore quotidiano ricercata attraverso la forza della musica, scorre in realtà un film estremamente drammatico e dall’impronta personale, sia nello stile ricamato e raffinato nonostante l’apparenza grezza e mobile come le mani – le vere protagoniste, per tutto il film – di Thomas, sia nei contenuti, che sono quelli di un paradigma edipico macchiato da un sangue color noir.

Autentica rivelazione, per me, Romain Duris. Bravissimo, tiene su il film da sè: andrebbe forse recuperato in francese, vista la voce dicapriana affibbiatogli dal nostro inevitabile doppiaggio. Forse non sarebbe nemmeno così irresistibile senza di lui, perché Audiard si concede qualche vezzo europeista di troppo, almeno per i miei gusti. Ma la sua regia tesa, nervosa, ellittica, anticlimatica e sfrontata, è magistrale, e il film, che era prima solo il solito bel film, si alza notevolmente verso la conclusione, fino ad un finale tanto prevedibile quanto necessario e bello.

Stupido e inutile il titolo italiano, molto appropriato quello originale.

Andrea non c’era, c’era invece Rob81, nella sua prima trasferta "ufficiale" a Bologna. Ne ha parlato qui, ora vado a leggerlo, fatelo anche voi.

La marcia dei pinguini (La marche de l’empereur)
di Luc Jacquet, 2005

Nota: questo post si riferisce alla versione originale del film, recitata da Charles Berling, Romane Bohringer e Jules Sitruk. Non posso giudicare l’operato dell’edizione inglese narrata dal solo Morgan Freeman, né soprattutto quello dell’edizione italiana, affidata con scaltrezza all’altrove talentuoso showman Fiorello. C’è chi l’ha trovato sopportabile, chi insopportabile, e chi (come Alberto Crespi su FilmTv) ha addirittura – cosa concettualmente un po’ sconsiderata – tessuto le sue lodi, dichiarandola "la migliore delle tre edizioni". A voi spettatori il giudizio.

Dunque, è giunto da noi il film che, con gran sorpresa di tutti ha battuto (quasi) tutti i record di incassi, tra i documentari, nelle sale statunitensi. Una sorpresa soprattutto visto che si tratta di un film europeo, categoria spesso malvista dai grossi mercati nordamericani. Ben venga quindi il successo del documentario, che pur documentario, in senso canonico, non è. E’ piuttosto uno sguardo epico, avventuroso e romantico, più che scientifico ed esplicativo, su una della più belle tra le creature della natura.

Che non è per forza, nel dettaglio, quest’adorabile (e violento) skater-bird marciatore, ma che è l’istinto, che è il senso millenario di una ripetizione che va al di là della nostra concezione umana di attaccamento e di tradizione, e soprattutto al di là della nostra concezione ristretta del regno animale. La dimensione narrativa schietta è in realtà, alla fine, un bene, perché permette di immergersi con il cuore in una natura vergine, con una forza visiva (e quasi-visionaria) vigorosa, in cui la perseveranza e il sacrificio dei pinguini imperatori riescono, pur nei limiti di un lirismo un po’ furbetto e con una colonna sonora – di Emilie Simon – non orribile di per sè ma sbagliatissima, a impressionare e a commuovere.

Poi, insomma, con attori del genere, come si fa a sbagliare il film?

Nota2: veniamo a sapere da Jiro che Jacquet avrebbe disconosciuto la versione americana e – pare – quella italiana, dichiarando che quello "non è il suo film". Si attendono conferme o smentite.
Nota3: veniamo a sapere da Tremorvoid che, dopo le dichiarazioni di alcuni gruppi religiosi americani sulla "esaltazione dei valori tradizionali cristiani quali monogamia, famiglia e sacrificio", Jacquet avrebbe risposto ""veramente non c’è nessuna metafora, si tratta solo di pinguini".

Conclusione: Luc Jacquet ci è molto simpatico.

La città perduta o La città dei bambini perduti (La cité des enfants perdus)
di Jean-Pierre Jeunet e Marc Caro, 1995

Il secondo film di Jeunet e Caro, a quattro anni da Delicatessen, è molto meno noto, meno di culto, da noi: infatti il recente dvd italiano ha (inspiegabilmente?) un titolo diverso da quello, più preciso, della prima edizione. Quando non se lo filò nessuno. Ma immeritatamente: perché La cité è un’opera che riconfermava senza molti dubbi il gran talento di due autori cresciuti a pane e animazione, l’uno destinato a sicuro (e strameritato) successo internazionale, l’altro persosi a lavorare con gentaglia come Pitof.

La cité è un film cupo e bizzarro, creativo e "fumettistico" nel senso migliore del termine (ossia quello poetico, non solamente derivativo), forse meno cinico, satirico e incisivo che Delicatessen, ma anche più semplicemente emozionante. Una favola moderna, sghemba e dolcissima, con crudeli professoresse siamesi, un grande gigante gentile, e un piccolo esercito di Dominique Pinon: difficile resistergli.

Niente da nascondere (Caché)
di Michael Haneke, 2005

Data la complessità di questo film e l’impossibilità di dire qualcosa di sensato a proposito di esso a prescindere da alcuni elementi narrativi, avverto che potrebbero esserci degli "spoiler". Mezzi salvati.

Questa non-analisi si vuole programmaticamente e provocatoriamente fredda su materiale caldo proprio quanto le note di ghiaccio dell’opera danzano silenziosamente sui corpi dei personaggi, sulla città di Parigi, sulla Storia. Dunque, l’ultimo film di Michael Haneke si costruisce su tre percorsi narrativi.

Il primo è un mistery: il giornalista televisivo Georges Laurent riceve delle videocassette che riprendono l’esterno della sua casa; indaga per sapere chi e cosa ci sia nascosto dietro. Agli occhi dello spettatore, non lo scoprirà. Il secondo è una vicenda familiare: il figlio dei Laurent sparisce; i genitori pensano ad un collegamento tra il rapimento con le videocassette, ma il ragazzo era solo nascosto per gelosia nei confronti della madre, che crede adultera. Agli occhi dello spettatore, si sbaglia. Il terzo e più rilevante è un dramma personale che traccia una linea concreta e Storica tra il passato e il presente, sia da un punto di vista personale (l’errore fatto da Georges nell’infanzia e poi nascosto – consciamente alla moglie, inconsciamente nell’inutile negazione del sensodicolpa – che condiziona la vita di un altro uomo) sia collettivo (la guerra franco-algerina e lo schermo che sullo sfondo racconta della guerra in Iraq e della crisi mediorientale). Agli occhi dello spettatore, inermi, si risolve in improvvisa tragedia e in una catarsi solo verbale, una condanna legata alla potenza del marchio morale.

Tracciate queste linee essenziali del film e distintene le parti, si possono individuare nel film due opposizioni fondamentali. La prima è diegesi esterna / diegesi interna: data fin dalla prima inquadratura, è la continua confusione – e tensione quasi insostenibile – tra ciò che vediamo sullo schermo, ciò che vede il protagonista in soggettiva, e ciò che il protagonista vede – e modifica, con il telecomando – sullo schermo della sua televisione. La seconda, strettamente conseguente, è la – ben più risaputa – vero / falso. O meglio, manipolazione del vero: determinante la scena in cui il programma televisivo di Laurent viene creato – montato, letteralmente – di fronte agli occhi dello spettatore. Ma non solo.

Ne consegue che Caché, straordinaria (ora possiamo dirlo) opera teorica, metateorica, e allo stesso tempo fisica e metafisica, è un film sul vero e sul falso, sullo sguardo e sugli schermi, e quindi un trattato a-cinefilo sul cinema stesso. E ne conseguono talune e talaltre ipotesi sui vari misteri del film; ma subito schiacciate dalla potenza del linguaggio, che si crede assente ed invece è composito e strabiliante, steso come un pensiero lockiano sul piano bianco dello schermo e reso corpovivente nonostante – limiti, questi, ma dichiarati – la decisa glacialità, l’assenza di un termine ultimo, il nulla esplicativo, l’esautorazione dell’emozione. Se non per quell’urlo – nostro – soffocato dallo shock e dal colore del sangue, in una stanza vuota e attraverso lo sguardo di chi, di non sappiamo più chi.

Per definizione, in ogni problema in cui si presentino dei dati e delle ipotesi, si prevede una soluzione. Ebbene, parte del fascino di questo asciutto e bellissimo film è proprio l’assenza di tale soluzione. O almeno, così crediamo. Oppure possiamo pensare e credere che "agli occhi dello spettatore" sia stata negata, sia stata nascosta, proprio quella verità che abbiamo aspettato invano; che quel trauma, zampata implacabile di un autore geniale quanto bellamente sadico, sia un flashback negato e quindi privo di veridicità; che quel bambino ci abbia preso in pieno, su sua madre; che in quella "camera fissa" finale, su cui scorrono i titoli di coda, accada qualcosa che ci è sfuggito. Sarà la frustrazione dell’attimo, o l’autoconvinzione, ma io ci ho visto qualcosa – che non so spiegare e di sicuro non mi aiuta ad uscirne.

E la cosa che sembra – sembra solo – più rilevante: il mistero delle videocassette. Possiamo credere che dietro a quella telecamera, a spiare i personaggi, non ci sia – metafisicamente – nessuno? Ma è davvero metafisica, se siamo noi, noi spettatori, costretti e piegati alla coercizione visiva di Haneke, ai suoi imprescindibili infiniti piani-sequenza, a spiare la famiglia Laurent?

8 donne e un mistero (8 femmes)
di François Ozon, 2002

Operetta coloratissima che guarda al passato del cinema francese (e non solo), Otto donne è uno strano noir al femminile in cui Ozon, come già aveva fatto (meglio) Resnais prima di lui, inserisce un musical bizzarro e revisionista, per cui i personaggi cominciano a cantare classici della musica d’oltralpe, decontestualizzati e illuminati innaturalmente.

Il gioco è entusiasmante all’inizio, ma lo resta solo fino ad un certo punto. E quando diventa risaputo rimangono comunque i decor voluttuosi, la fotografia pastellata, e le straordinarie performances delle "otto donne". Una più brava del’altra, a voi la scelta: noi qui si adora la Huppert.

E’ abbastanza per divertirsi, e spesso parecchio, con il suo gioco di incastri e menzogne, una rivelazione al minuto e una sorpresa al secondo. Forse non mantiene le promesse dell’ambizione intellettuale che molti hanno visto e adorato, e che è probabilmente alla base del progetto, ma ad un livello più superficiale, ma sì, si difende con gli artigli.

La mia notte con Maud (Ma nuit chez Maud)
di Eric Rohmer, 1969

Le alterne vicende e le estenuanti conversazioni di quattro personaggi, due cattolici e due atei, che si intersecano in pochi giorni nella piccola cittadina di Clermont, dominata dalla sua imponente cattedrale gotica. Una proposta rifiutata e una presa di posizione, e la doppia verità che si nasconde tra di esse, e tra queste due donne, e tra queste due notti speculari. Sotto alle proprie certezze, spazzate via nel finale, l’unico equilibrio possibile è la menzogna. Una doppia bugia.

Un film di parole e sguardi, un’opera da camera (da letto) che si trasforma in un conte moral turbato e maliconico, caldissimo nonostante i cappotti e la condensa, universale nonostante la circoscrizione delle circostanze.

Ci vuole un po’ di pazienza, attenzione e soprattutto molto spirito critico (e autocritico), per amare Ma nuit chez Maud. Perché è un film che nell’apparente semplicità sfida i nervi, e perché pur parlando con un linguaggio "alto" e adatto ai temi, citando Pascal come fosse acqua fresca, cosa ormai rara al cinema, parla delle nostre contraddizioni morali quotidiane, del rapporto tra religione e coscienza. E lo fa con uno sguardo impietoso, secco, attualissimo.

La damigella d’onore (La demoiselle d’honneur)
di Claude Chabrol, 2004

"Cambia zona!"

Chabrol adatta un romanzo di Ruth Rendell, la stessa autrice del bellissimo La cérémonie: il risultato è un melodramma raffreddato e asettico, la storia di un amore inevitabile e folle, un noir tenuto sotterraneo come l’appartamento di Senta e bisbigliato come le piccole bugie di Philippe, girato con cura certosina, e costruito con grande intelligenza su schegge di sceneggiatura che vagano impazzite nella prima parte, per poi tornare a ricomporsi fino alla perfetta circolarità del finale.

Niente di cui innamorarsi perdutamente (tranne di Laura Smet, figlia di Johnny Hallyday: brava, bella e inquietante), ma comunque un buon film, una bella boccata d’aria che turba senza bisogno di urlare o strafare, che sa parlare dei rapporti tra uomini e donne (e del potere del denaro, presente in modo quasi ossessivo) tenendo anche in tensione i nervi, con molte inaspettati pennellate di ironia (come l’incontro con il barbone al parco), e che lascia un piacevole sapore amaro (e romantico) in bocca.

Benoît Magimel ha due espressioni: disinvolto e perplesso.

Clean
di Olivier Assayas, 2004

Clean è il racconto di una maturità raggiunta con la sofferenza. Non è certo il racconto di "una che ce la fa", ma piuttosto il percorso aperto di una donna che si sacrifica e (forse) vince, contro se stessa e gli altri, contro la maldicenza dei gossip, contro i buchi e il metadone, contro tutto.

Svolto tutto intorno alla magistrale interpretazione di Maggie Cheung, Clean ha in realtà una doppia articolazione: da una parte il desiderio, poi necessità, di una donna di essere madre, che diventa bisogno, poi necessità, di essere "pulita"; dall’altra la rassegnazione alla morte di una madre e il contrastante e imperterrito bisogno di perdono da parte di un uomo che, anche lui, torna nuovamente ad essere padre.

Un racconto di serenità ricercata, di una fuga dalla droga che prima è la via obbligata per riavere il proprio figlio, e solo in un secondo momento sentita: niente moralucce da due soldi, quindi, ma una storia profondamente morale, e che ci porta comunque solo alla fine della ricerca, e non alla sua realizzazione. E oltre a questo, un "roadless road movie" a cavallo tra quattro città-nazioni (Parigi, Londra, Vancouver, Los Angeles), fotografate con affetto e cinismo dallo stesso Eric Gautier di Irma Vep, fino a quel canto, alla realizzazione (forse) del proprio sogno, all’uscire fuori a respirare l’aria "pulita" di L.A.

Nick Nolte, sornione e bofonchiante, è al solito monumentale, ma Maggie Cheung è semplicemente incredibile, e lo è in tutte e tre le lingue che padroneggia nel film (francese, inglese, cantonese: è un’idiozia vederlo doppiato), tra elementi autobiografici (la fine della relazione con Assayas), lacrime e sorrisi, e una vena autodistruttiva scritta sul volto e nella voce che va pian piano trasformandosi in maternità, sotto i nostri occhi, e come un miracolo, in lacrime. Immensa, Maggie.

Formidabile, va detto, anche la regia di Assayas (pezzi da novanta: le focali corte nella splendida sequenza della sala da biliardo, o il piano-sequenza in cui Emily scende nel garage del ristorante a impasticcarsi), e davvero strepitosa la colonna sonora: molta farina del sacco di Brian Eno, oltre alla bellissima canzone che David Roback (che appare alla fine) ha scritto per la voce di Maggie Cheung: vi sfido a non commuovervi.

[il cinema ritrovato XIX]

Day five: 06/07/2005

Cento anni fa: i film del 1905

Programma n. 5. Protagonisti ed eroi (e niente divi)

Presenta Mariann Lewinsky

Accompagnamento al piano di Maud Nelissen

LOÏE FULLER (Francia/1905) Prod.: Pathé

LE PAPE LEON XIII AU VATICAN (France/1903) R.: Peter Elfelt

HUNDETHEATER (Francia/1908)

VIE DE MOISE (Francia/1905) Prod.: Pathé

PREMIÈRE SORTIE (Francia/1905) Prod.: Pathé Int.: Max Linder

LES FARCES DE TOTO GÂTE-SAUCE (Francia/1905) Prod.: Pathé

OUR NEW ERRAND BOY (Gran Bretagna/1905) R.: James Williamson. Prod.: Williamson Kinematograph Co.

UNTER DEM MIKROSKOP: LARVE DER WASSERFLIEGE (Gran Bretagna/1903) R.: F. Martin-Ducan Prod.: Charles Urban Traiding Co.

LE DÉJEUNER DU SAVANT (Francia/1905) Prod.: Pathé

DER KLEINE VIELFRASS (Francia/1905) Prod.: Pathé

OUR BABY USA (USA/1908)

RESCUED BY ROVER (version 2) (GB/1905) R.: Lewin Fitzhamon Prod.: Cecil Hepworth

MIXED BABIES (Gran Bretagna/1905) R.: Frank Mottershau. Prod.: Sheffield Photo Co.

Il quinto programma dei bellissimi "cento anni fa" della Lewinsky è incentrato sulla riconoscibilità e sullo statuto dei protagonisti prima della nascita del divismo. Oltre alle celebrità del tempo (il Papa come Loie Fuller dei Folies Bergere), più interessante è la terza parte, i cui protagonisti sono gli animali. L’anima circense del cinema si concentra sulle qualità fotogeniche dei canidi (straordinarie, anche se ai nostri tempi questa exploitation non sarebbe accettata), fino ad arrivare ad uno dei film più celebri del periodo, declinato in molte versioni nel tempo: Rescued by Rover, in cui un bellissimo cane salva la vita di un bimbo rapito da una zingara.

Les farces e Our new errand boy (spassose collezioni di scherzi di un crudele ragazzino anarchico ai danni degli adulti) sono quasi identici: uno è il remake dell’altro, e non si sa quale venne prima. Sono passati cent’anni e sembran mille.

Mi preparo a godermi un’immeritata e variegata vacanza: tra poche ore (tempo di fare un esame – a brevissimo – e viaggiare) non sarò più a Bologna. Il Cinema Ritrovato, per quanto mi riguarda, finisce qui. A chi resta, buona visione.

[il cinema ritrovato XIX]

Day four: 05/07/2005

Omaggio a André Deed – Programma 2 (1909-1910)

Accompagnamento al piano di Alain Baents

CRETINETTI FICCANASO (Italia/1909)

CRETINETTI HA INGOIATO UN GAMBERO (Italia/1909)

CRETINETTI DISTRATTO (Italia/1910) D.: 9’

CRETINETTI FRA DUE FUOCHI (Italia/1910) D.: 10’

COME FU CHE L’INGORDIGIA ROVINÒ IL NATALE A CRETINETTI (Italia/1910) D.: 13′.

In attesa della Grande Guerra, le Actualités Gaumont del 1914

GAUMONT ACTUALITÉS – Settimana n. 7 (febbraio) (Francia/1914) D.:10’

Accompagnamento al piano di Alain Baents

Il secondo dei programmi che quest’edizione del Cinema Ritrovato dedica a una delle maggiori figure comiche dei primi anni del secolo: André Deed, in arte Cretinetti. A parte la seconda, genialoide perché basata sulla proiezione renversante della pellicola ma non attribuibile a Deed (almeno così ha strillato un’autorevole voce dal pubblico), le sue comiche presentano una forma anarcoide irresistibile, che culmina con l’ultima, irresistibile, in cui Cretinetti, finito in un paradiso onirico per via di un’indigestione, travolge senza freni angeli e santi, Babbo Natale, Dio e il diavolo.

Le "attualità" della Gaumont che seguono l’omaggio a Deed riguardano il secondo mese del 1914. Oltre ai soliti potenti e ai vestiti sfarzosi delle dame, si nota una vera ossessione per il volo.

Ritrovati & restaurati

LE MARIAGE DE MADEMOISELLE BEULEMANS (Francia/1927) R.: Julien Duvivier. D.: 65’. Did. francesi

Partitura scritta e diretta da Marco Dalpane

Il primo film della serata è una commedia di Duvivier (con un tentativo più che sottolineato di sdoganamento dell’autore, con tanto di beneplacito renoiriano) tratta da una pièce teatrale di grande successo che prendeva bonariamente in giro le abitudini e il dialetto dei belgi. Come trasporre una cosa simile sulla pellicola muta? Il regista di Pepé le moko e Don Camillo ha molte buone intuizioni, come quella di utilizzare, oltre alle solite didascalie, alcune dipinte con tratti infantili e disegni caricaturali, con risultati esilaranti.

Ritmo di precisione millimetrica e un fine che più lieto non si può: davvero bello. Splendido restauro della Cinémathèque Française e grande il lavoro di Marco Dalpane sulla partitura, eseguita ieri sera da una ensemble di 8 elementi.

"Se fossi un architetto e dovessi costruire un Palazzo del cinema, sopra la porta d’ingresso collocherei una statua di Julien Duvivier. Il suo modo di raccontare delle storie con la cinepresa è diventato lo stile contemporaneo." (Jean Renoir)

Ritrovati & restaurati

LA COQUILLE ET LE CLERGYMAN (Francia/1927) R.: Germaine Dulac. D.: 40’. Did. francesi

Accompagnamento al pianoforte di Donald Sosin

Secondo film della serata, ben più noto e più visibile del primo (l’avevo visto pure io che il muto non lo mastico) è il celebre film di Dulac su sceneggiatura di Artaud. Incubo progressivo di castrazione sessuale e allucinazione simbolista socio-religiosa, irraccontabile ma non illeggibile, ricchissimo e inquietante. Molto del primo Bunuel (e qualcosa del primo Lynch, e non solo) parte da qui.

Il restauro del Nederland Filmmuseum è semplicemente impressionante.

[il cinema ritrovato XIX]

Day three: 04/07/2005

Cento anni fa: i film del 1905

Programma n. 3. Macchie e combinazioni


Presenta Mariann Lewinsky

Accompagnamento al piano di Alain Baents

DE MESAVONTURE VAN EEN FRANSCH HEERTJE ZONDER PANTALON AAN HET STRAND TE ZANDVOORT (1905) Prod.: Albert Frères

UN DRAME EN MER (Francia/1905) R.: Gaston Velle. Prod.: Pathé

LE MÂT DE COCAGNE (Francia/1905) Prod.: Pathé

LE RAID PARIS-MONTE CARLO EN DEUX HEURES (Francia/1905) R.: George Méliès

CHILDREN PLAYING AT WAR (Francia/1905) Prod.: Pathé

L’ENVERS DU THÉÂTRE (Francia/1905) Prod.: Pathé

L INDISCRET MYSTIFIÉ (Francia/1905) Prod.: Pathé

LA JOUEUSE ENRAGÉE (Francia/1905)

EINE BLUME DER KASBAH (Italia/1905) Prod.: Ambrosio Film

Un altro programma di film secolari, la cui natura questa volta non mi è stata del tutto chiara, ma tant’è. Per quanto sia stato lievemente meno interessante dei precedenti, ha molti motivi di fascino: come gli ultimi 4 brevissimi segmenti, tutti con protagonista il voyeurismo in qualche modo, il primo, con un uomo che per non bagnarsi i pantaloni è rimasto in mutande ed è inseguito da una folla inferocita, e soprattutto Le raid, opera di Méliès (purtroppo senza colore) spettacolare e divertentissima, tra una guardia con la panciona pneumatica, una macchina che rotola sulle scenografie alpine fumettistiche, e un uomo schiacciato a due dimensioni e poi rigonfiato come una ruota.

Sì, causa l’ammontare di impegni (!), ieri non ho visto altro.

[il cinema ritrovato XIX]

Day two: 03/07/2005

Cento anni fa: i film del 1905

Programma n. 2. Un programma d’epoca in onore del 1905 italiano

Presenta Mariann Lewinsky

Accompagnamento al piano di Neil Brand

EN TERRE SAINTE – JÉRUSALEM (Francia/1905) Prod.: Pathé

LA DANSE DU "KICKAPOO" (Francia/1904) R.: Gaston Velle. Prod.: Pathé

DEHLI, DIE GROSSE STADT IN VORDERINDIEN (Dehli, la grande città dell’India settentrionale, Francia/1909). Prod.: Pathé

LE CHIENS CONTREBANDERS (Francia/1906) R.: Georges Hatot. Prod: Pathé

OPÉRATION CHIRURGICALE (Francia/1905) Prod.: Pathé

LA POULE AUX OEUFS D’OR (Francia/1905) R.: Gaston Velle e Segundo de Chomón. Prod.: Pathé

LA PRESA DI ROMA (Italia/1905) R.: Filoteo Alberini. Prod.: Alberini & Santoni, Roma

DIX FEMMES POUR UN HOMME (Francia/1905) R.: Georges Hatot e Lucien Nonguet. Prod.: Pathé

Il secondo programma di film secolari è un’idea più che brillante: la riproduzione di un vero "programma" del 1905 (per di più di Fano), il cui manifesto è riprodotto nell’atrio. Programma imperfetto, per ovvi motivi: 4 delle otto opere presentate non sono le medesime di quella lontana rappresentazione. Ma si presenta comunque con filologica cura uno spettacolo così com’era, rispettando l’ordine delle scene (plein air, danses, actualité, dramatique, comique, à trucs, historique, comique) perché "questi non-film sono comprensibili soltanto all’interno di un programma".

Da segnalare all’interno del programma, oltre alle solite visioni di paesi lontani, due divertenti film ad inseguimento (uno con dei cani come protagonisti, l’altro con un uomo inseguito da dieci donne), un chirurgo che estrae una moltitudine di oggetti (anche vivi) dallo stomaco di un uomo, e una ricostruzione italiana della presa di Roma (nella foto), incompleta ma affascinante. La poule aux oeufs d’or l’avevo già visto, ma è sempre un piacere.

Ritrovati & restaurati

LA CADUTA DI TROIA (Italia/1911) R.: Giovanni Pastrone e Luigi Romano Borgnetto. D.: 33’. Did. italiane

Accompagnamento al piano di Alain Baents

"Il primo kolossal della storia del cinema" (?), finora perduto ed ora restaurato in una forma molto vicina all’originale, grazie alla collaborazione di tre cineteche: Bologna, Torino, Friuli. La storia dell’Iliade in 33 minuti, con molte scene di massa, imponenti scenografie bidimensionali, e le colonne di Troia che crollano diventando macerie sui corpi dei combattenti. Un oggetto incredibile, e con almeno un’immagine davvero visionaria: quella di Menelao ed Elena che, scortati da una Venere fantasmatica e da putti rotolanti, si allontanano da Sparta volando sul letto.

In attesa della Grande Guerra, le Actualités Gaumont del 1914

GAUMONT ACTUALITÉS – Settimana n. 1 (gennaio) (Francia/1914) D.: 8’

Ritrovati & restaurati

THE MATING CALL (USA/1928) R.: James Cruze. D.: 72’. Did. inglesi

Muto americano prodotto da Howard Hughes, The mating call è uno strano film che mescola commedia sentimentale, dramma sensuale e un fondo di thrilling, non senza un occhio alla contemporaneità: gli immigrati di Ellis Island, la desolazione post-bellica, il dominio sulla provincia dei klan e degli ordini di polizia, in un paesino che si chiama Evergreen ma dove le cose non sono proprio sempre verdi. Restauro digitale – rumore digitale compreso, ma stabilissimo – fatto in Nevada: ma allora a Las Vegas non sprecano solo acqua?

Precedevano il film delle actualités della Gaumont dei mesi che precedono la grande guerra. Scopriamo, tra le altre cose, la curiosa moda delle dame del ’14: infilarsi uno spillone di 40 centimetri nella capigliatura.

Ritrovati & restaurati

HEAVEN’S GATE (I cancelli del cielo, USA/1980) R.: Michael Cimino. D.: 225′. V. inglese

L’evento della giornata di ieri: la presentazione in Piazza Maggiore (il più grande schermo all’aperto in Italia, se ben ricordo) del film di Cimino nella versione integrale restaurata nel 2004 dalla MGM. La cosa più divertente è che né il regista né la produttrice Joann Carelli erano al corrente del restauro, almeno fino a poco tempo fa. Cimino si è detto preoccupato, vista la sua proverbiale puntigliosità: il fatto che abbia lasciato la proiezione dopo meno di un’ora non fa pensare il meglio. O forse aveva fame, chi lo sa.

Comunque, il film. Per chi non l’aveva mai visto (come me, per esempio – per molteplici ragioni, non tutte giustificabili), davvero uno spettacolo impressionante: magnifico e magniloquente, strabordante e interminabile, un affresco tragico e struggente sulla giustizia e sulla morale nella terra di frontiera. "All flesh is grass". Enorme.

[il cinema ritrovato XIX]

Day one: 02/07/2005

Apertura ufficiale del Festival: conversazione di Michael Cimino con Peter von Bagh, direttore de Il Cinema Ritrovato

Un breve e illuminante incontro con il regista di Deer Hunter e Heaven’s gate. Lungi dal tenersi sul binario del cinema, Cimino spazia parlando delle sue fonti d’ispirazione artistiche e architettoniche, della sua carriera e del suo "esilio". Ometto magro, occhiali neri e cappello da cow-boy, il volto segnato da molteplici interventi chirurgici, Cimino ha però uno charme incredibile, e quando racconta il suo bizzarro e commovente incontro con un morente Burt Lancaster, conquista il (davvero ristrettissimo) pubblico.

Cento anni fa: i film del 1905

Programma I – Tempo e racconto, prima parte

Presenta Mariann Lewinsky

Accompagnamento al piano di Alain Baents

EEN SPOORWEGTOCHTJE IN ZWITSERLAND (t.l. Un viaggio in treno in Svizzera, Francia/1905) Prod.: Pathé

CRÉATION RENVERSANTE (Francia/1905) R.: Segundo de Chomón. Prod.: Pathé

PANORAMA FROM THE ROOF OF THE TIMES BUILDING, NEW YORK USA (USA/1905) Prod.: American Mutoscope & Biograph Co.

EL HOTEL ELETRICO (Francia/1905) R.: Segundo de Chomón. Prod.: Pathé

SCHIFF AUF DEM NIL (Francia/1905) Prod.: Pathé

LA RUCHE MERVEILLEUSE (Francia/1905) R.: Gaston Velle. Prod.: Pathé

LA PERRUQUE (Francia/1905) Prod.: Pathé

CACHE-TOI DANS LA MALLE! (Francia/1905) Prod.: Pathé

LES TROIS PHASES DE LA LUNE (Francia/1905) Prod.: Pathé

Il primo programma di corti di cent’anni fa è incentrato sul tempo: dal movimento della macchina da presa (il treno – carrello ante-litteram, il panorama) al movimento all’interno del quadro.

Le scène à trucs dei brevi film di Segundo de Chomón (nella foto) per la Pathé sono incredibili: l’albergo miracoloso che "si ribella", bonario schiaffo al mito del lusso elettrico, e la "creazione", che altro non è che una pellicola girata al contrario. Interessanti gli sguardi su paesi altri, come la ferrovia svizzera o la navigazione sul Nilo. Gli ultimi tre sono invece uno spasso: un uomo chiuso in una valigia preda di due facchini imbranati, uno scherzo a base di colla ai danni di un uomo calvo, e una luna meliesiana che con le sue "fasi" sovrasta la decadenza di una tipica storia d’amore.

Ritrovati & restaurati

POPEYE THE SAILOR MEETS ALI BABA’S FORTY THIEVES (USA/1937) R.: Dave Fleischer. D.: 17′. V. inglese

IN OLD ARIZONA (USA/1928) R.: Irving Cummings e Raoul Walsh. D.: 95′. V. inglese

Il primo è un corto di Popeye contro un Bruto-Alì Babà: un quarto d’ora di trovate assurde nello splendore (davvero impressionante) del technicolor. Divertentissimo: e ve lo dice uno che Braccio di Ferro l’ha sempre odiato.

In old Arizona è invece (pare) il primo o uno dei primi western sonori. Ma al di là dell’ambientazione, è più che altro una commedia "triangolare" che finisce come un dramma delle passioni, ma senza mai perdere un sorriso ironico. Misogino, ancora molto condizionato dal muto (soprattutto nella recitazione) e stracolmo di allusioni sessuali non proprio sottilissime, ma senza dubbio divertente. Ottimo il restauro.

Ritrovati & restaurati

BRONENOSEC POTEMKIN (La corazzata Potemkin, URSS/1925) R.: Sergej Ejzenštejn. D.: 70’. Did. russe

Partitura originale di Edmund Meisel diretta dal Maestro Helmut Imig, eseguita dall’Orchestra del Teatro Comunale

Quella che si dice un’occasione unica: il celeberrimo film di Ejzenštejn nella cornice* del teatro del comune di Bologna. E il film è quello che è: un capolavoro. Tutto il quarto atto (sì, proprio quello della scalinata) possiede un’intensità ancora enorme, e i precedenti conservano una tensione incredibile. Altro che cagata pazzesca: bocca spalancata e cuore che batte. Merito anche (inutile negarlo) dell’ottima orchestra e della splendida partitura di Meisel, e del perfetto restauro: la copia più vicina all’originale che si possa concepire.

*mi si scusi per il luogo comune

Irma Vep

di Olivier Assayas, 1996

"Porqui Chinoise??"

In attesa di vedere Clean, l’ultimo film del regista francese in questi giorni nelle sale italiane, ho recuperato questo curioso esperimento di metacinema spiccatamente truffautiano, in cui un regista alter-ego di Assayas (interpretato - una mania - da Jean-Pierre Léaud) si trova a dirigere un assurdo remake dei Vampires di Feuillade con protagonista un’attrice cinese. E non una a caso.

Irma Vep è una riflessione a tutto campo sul presente e sul futuro prossimo del cinema (d’autore? europeo?): e se il futuro è visto con acido pessimismo nella figura del sostituto (luciferino) Lou Castel, il presente è il ritratto dell’indecisione sulla strada da percorrere: il recupero orgoglioso degli archetipi narrativi del muto e il remake come forma maligna di morte-del-cinema, l’allargamento dei confini ai nuovi linguaggi e le mode passeggere – l’oriente e John Woo - come reazione critica alla esplicitata "ombelicalità" del cinema francese.

Ma lo sguardo cinico di Assayas non funziona solo come malinconico ripensamento cinefilo ed autocritico (il personaggio del regista è un mezzo matto incompreso e finisce in clinica), ma anche quando si concentra sui personaggi, quando ci gira attorno con lo sguardo in spalla e senza stacchi, quando li fa parlare (e sovraparlare) e improvvisare, in un’atmosfera sospesa tra commedia e dramma, in cui le risate sono per noi e il dramma è, forse, quello di una cultura senza più sbocchi. Morire sì, ma con un ghignante sorriso sulla faccia.

Bene bene, ho cercato di scrivere di Irma Vep senza nominare Maggie Cheung. Ora lo posso fare? Maggie Cheung, Maggie Cheung, Maggie Cheung. Sperduta e bellissima, confusa e affascinante. Ma sempre, semplicemente, divina.

Nido di vespe (Nid de guêpes)

di Florent-Emilio Siri, 2002

Davvero una bella sorpresa, quasi (ma non del tutto) inaspettata, il secondo film del regista francese, oggi trapiantato negli Stati Uniti. Thriller carpenteriano nel midollo, quasi-remake di Distretto 13, un action tutto europeo (nella versione originale si parlano almeno quattro lingue) ma senza troppi vezzi d’autore che sfoggia una solidità difficile da trovare in un Besson o in un Pirès.

Racconto rimaneggiato dell’infinito incubo dell’assedio, e di una comunione contro un "nemico terzo" dall’invisibilità metafisica, Nido di vespe non perde un colpo: tiene altissima la tensione fino alla fine e ha la capacità incredibile già dalle prime battute di costruire personaggi (tanti, e credibili) in men che non si dica, senza dire più che lo stretto necessario. Per passare ai fatti, insomma.

Azzeccata la scelta del "nemico terzo" nella tratta delle bianche: gli albanesi non ci fanno certo una figurona, ma la scelta è coerente, politica e umana, e il bravo Siri riesce persino a trasformarla in espediente narrativo. Certo, non è un prodotto fresco o innovativo: ma è il tipo di film che vorremmo volentieri più spesso sulle nostre tavole.

Bello il cast paneuropeo, tra cui spiccano nell’ombra un mefistofelico Angelo Infanti e il solito Valerio Mastandrea. Per fare ruoli del genere, per cui è nato, gli tocca varcare le Alpi: davvero un peccato.