Francia

Un condannato a morte è fuggito (Un condamné à mort s’est échappé ou Le vent souffle où il veut)
di Robert Bresson, 1956


Film di fuga o trattato di libertà, disamina concreta e "sonora" di un’ostinazione, e di un istinto, e di una paranoia, e di un’amicizia. Un’essenzialità inaudita, come le parole comunicate attraverso il muro di una prigione. Ma terribilmente emozionante. Chi vi scrive l’ha vissuto con il batticuore. Meraviglioso.

Nouvelle vague
di Jean-Luc Godard, 1990

"Avanti, amico, cosa fa lì?"
"Faccio pena"

Carrelli, onde marine, carrelli come onde marine, foglie foglie foglie, un giardino che va curato sempre, e almeno un piano-sequenza da far gelare il sangue – quello delle luci che si spengono nella casa, ma non è il solo. Domiziana Giordano è incantevole, ma la scena dell’affogamento è da denuncia penale. Alain Delon è, e basta.

"Il ricordo è l’unico paradiso da cui non si può essere cacciati. Il ricordo è l’unico inferno a cui siamo condannati"

Inafferrabile, impalbabile e astratto. Sornione e affascinante. Il doppio e il ribaltamento, l’uomo e la donna, l’uomo e il tempo. l’Inferno dantesco e il De rerum natura, sincresia di cinema, letteratura, musica. Acuto, complesso, ma davvero bellissimo.

"C’è qualcosa che non sa fare?"
"Non so piegare i pantaloni al buio"

Una lunga domenica di passioni (

Frank Costello, faccia d’angelo (Le samouraï)
di Jean-Pierre Melville, 1967

Le samourai è un noir duro, spigoloso, asciutto e privo di fronzoli, caratterizzato da un’unità narrativa e spaziotemporale assoluta (un solo scopo per ogni personaggio, orari scanditi, e Parigi come un labirinto metropolitano) e dominato dal volto, dal corpo e dall’impermeabile di un Alain Delon semplicemente perfetto.

Molte le scene bellissime, oltre ovviamente al disperato finale autodistruttivo: tra tutte, l’incontro sul tetto tra Costello e il killer, e il serrato dialogo psicologico (un lunghissimo piano-sequenza) tra l’ispettore François Périer e la donna di Costello. Che era, non a caso, Nathalie Delon.

Ovvi rimandi al cinema classico nordamericano, ma ravvivati da un ineccepibile senso della morale, da un nichilismo diffuso, e soprattutto dalla messa in scena precisa, magistrale e di rara precisione di Jean-Pierre Melville. Da qui, debiti a destra e a manca in una manciata di cinematografie successive.

Bello, bello, bello.

Link: imprescindibile, Nicola Moroni.

FFF2005
Tykho moon

di Enki Bilal, 1996

Il secondo (dei tre) film del più influente fumettista francese è un’opera affascinante, ottimamente realizzata, diretta con onestà, e con una buona tonnellata di ottime idee: lo "zelatore del mese", la versione lunare e "ristretta" di Parigi, la "lucetta da lucciola", e via dicendo. E la cura scenografica permette una vera immersione nel mondo ironicamente noir di Bilal.

Però è anche un film presuntuoso e tronfio, con personaggi che si parlano addosso per minuti e minuti senza dire una benedetta fava e senza trasmettere nulla, troppo noioso e troppo al di sotto delle sue eccessive ambizioni. A volte vacuo in maniera irritante, ma in fondo tanto bizzarro e inusuale da meritare un indubbio interesse.

Julie Delpy, chissà perché ancora prostituta, è deliziosa. Michel Piccoli che ammattito sproloquia per tutto il film di immortalità e di patologie geopolitiche è un po’ patetico, ma è tra le cose più divertenti.

In questo momento dovrei essere in sala a vedere Wonderful days. Ma è evidente che non ci sono.
Forse lo recupero domani, forse no. Sono davvero assonnato. Domani mattina, Miyazaki.

Le Garçu

di Maurice Pialat, 1995

Un film che apre con le note di "You’ve been flirting again" e si chiude con "Human behaviour" (entrambe di Bjork) non può che destare dal principio la mia simpatia.

Al di là di ciò, Le garçu è un film che a partire dall’esperienza autobiografica, e attraverso una complessa identificazione attore/autore, costruisce un ritratto umano e intenso di un uomo, e riflette sull’essere padre e figlio (e su non esserlo più), arrivando a malinconiche e intense considerazioni sulla caducità dell’amore, e della vita.

Bravissimo Depardieu, strabordante e perfetto, ma non da meno la (davvero) splendida Géraldine Pailhas.

Lo sguardo di Pialat, per quanto tecnicamente puntualissimo, può non piacere. E può non convincere la sua estrema spontaneità, il suo stile ellittico e ridotto all’osso, il suo finale monco. Ma non gli si può negare una capacità incredibile di essere toccante senza dover spiegare il perché allo spettatore, e apprezzare il modo affettuoso e illuminante con cui utilizza nel film suo figlio Antoine.

Per quanto mi riguarda, inaspettatamente commovente.

La Glace à trois faces (Lo specchio a tre facce)

di Jean Epstein, 1927

Non parlo tanto del muto (paradosso verbale). Un po’ perché non lo mastico. Un po’ perché, nonostante la notevole offerta bolognese, ne guardo poco. Dall’inizio dell’anno, e quindi del blog, ho visto solo quest’altro (tra l’altro, molto bello). L’occasione stavolta è stata il film che proiettavano successivamente: The fly.

Molto interessante. Dai, è il mio primo Epstein, mi sbilancio: molto bello. Anche grazie alla durata (45′), all’ottimo pianista presente in sala (Remo Anzovino) e all’eccellente restauro: come nuovo. Un uomo e le tre donne che gli girano intorno, una storia moderna di umiliazione femminile e di naturale contrappasso, vista la fine che fa il tizio in questione.

Stupefacente la modernità linguistica del montaggio, la struttura che unisce la paratassi dei "capitoli" ai continui flashback, e alcune trovate visive, soprattutto le soggettive dall’interno dell’automobile durante la "fuga" (in senso musicale) del finale.

Il disprezzo (Le mépris)

di Jean-Luc Godard, 1963

(edizione integrale francese)

Nella versione italiana rimaneggiata da Carlo Ponti, assassino travestito da mecenate, è uno dei più vergognosi massacri distributivi della storia del cinema italiano. Ne ho avuto coscienza vedendo tale versione a sprazzi dopo la visione di quella originale. Che è, invece, bellissima, e degna della sua fama.

Un film sul cinema e sull’arte, complesso e stratificato ma in fondo di una scioccante e diretta semplicità categoriale: il disprezzo è quello provocato dal contrasto tra la figura dell’arte pura, rappresentata dal geniale progetto omerico di Fritz Lang, conscio della sua natura di simbolo, e quella della sua commercializzazione, rappresentata dal disgustoso (e bravissimo) Jack Palance. Quasi un alter-ego di Ponti: un film che contiene già al suo interno la critica dell’operazione editoriale a cui è sottoposto.

Il diprezzo è quello che l’arte (la Bardot, la musa, la bellezza) prova nei confronti dell’artista (Michel Piccoli) nell’istante della sua corruzione, con l’Odissea che da metacinema si trasforma in chiave di lettura di un’angoscia artistica ma anche esistenziale: prima l’inquietante assenza negli studi di cinecittà (la morte del cinema: sequenza citata pari pari da Niccol in S1m0ne), dalla claustrofobia di un appartamento (scena infinita e catatonica, in cui succede tutto e niente, e gli attori danzano con perfezione intorno alla mdp), e infine l’ariosa e tuttavia ansiotica sequenza della villa malapartiana. E infine, la tragedia improvvisa e priva di catarsi.

Intellettuale e affascinante, girato divinamente e così pieno di spunti da essere quasi enciclopedico. Forse più interessante che bello, più glaciale che appassionante, ma di un’attualità sconcertante, e assolutamente essenziale.

Ho parlato (bene) anche di: Questa è la mia vita, Bande à part, Alphaville.

Le due inglesi (Les deux anglaises et le continent)

di François Truffaut, 1971

Prodotto ovviamente impeccabile, con una regia che abbonda di carrelli e iridi, è francamente un’opera su cui si può tranquillamente soprassedere, o almeno così l’ho trovato nella mia umile e limitata conoscenza del cinema di Truffaut. Forse perché la matrice letteraria, dichiarata fin dai titoli di testa, e che porta alla scelta della "voce narrante" (di Truffaut stesso), è interessante linguisticamente, ma appesantisce irrimediabilmente il film.

Alcune scene sono comunque bellissime: prima tra tutte la lettera con il racconto di Muriel sulla sua perdita dell’innocenza: straordinaria. E l’inizio, e il finale. Stranamente funziona meglio quando è volutamente disgustoso, quando lavora con il "corpo amoroso" non solo all’interno ma anche all’esterno, in modo insomma centripeto (i sentimenti) sia centrifugo (le secrezioni).

Gli anni in tasca (L’argent de poche)

di
François Truffaut, 1976

Truffaut dipinge un tratteggio leggero e intelligentissimo di una fetta di infanzia che se ne va (non per niente, sta per iniziare l’estate), e lo fa con una padronanza impressionante dei canoni della coralità (perfetti alcuni piani sequenza, ma lo stile è vario e mai risaputo). Ma soprattutto con un affetto e un rispetto inauditi e ammirevoli, che fuoriescono anche solo dal modo in cui li riprende (vicinissimo ma senza violarli), in cui affronta il dramma di Julien, e infine dal bel monologo del professore (Jean-François Stévenin, evidente alter-ego del regista).

Una valanga di scene bellissime, ma non frammentate e separate come si potrebbe pensare. Tra tutte, quella del bambino volante ("Gregory ha fatto boom!"), quella dell’interrogazione con gli occhi sull’orologio (salvato dalla campanella…), quella del monologo molieriano ("al ladro al ladro…"), quella geniale del cinema (quasi un gag da cinema muto). E molte altre.

Amami se hai coraggio (Jeux d’enfants)

di Yann Samuell, 2003

Jeux d’enfants è un oggetto abbastanza bizzarro. L’illustratore Yann Samuell, al suo esordio, sceglie una strada che coniuga le scelte barocche di Jeunet (il film, se guardato con superficialità, potrebbe sembrare uno spin-off di Amelie) con uno stile iperattivo e cartoonesco (macchina da presa volteggiante e mai ferma, effetti speciali sfavillanti), che ha tra i suoi riferimenti anche il Boyle di Trainspotting (omaggiato esplicitamente in una scena).

Il risultato è un’operetta piacevole (anche se seriamente tautologica) che racconta il gioco eterno e sottilmente perverso tra due amici (o qualcosa di più) come unica difesa contro la morte, il dolore e più in generale contro l’orrore del tempo che passa. Tempo che infatti viene sistematicamente annullato, con ellissi anomale (perlopiù decennali) e una sensazione di sospensione che fa il paio sia con la natura fumettistica dell’operazione, sia con l’incapacità di crescere (e di invecchiare) dei due protagonisti.

Di certo più grafica che narrativa, più interessata agli sviluppi di un concetto che a quelli dei personaggi che lo mettono in pratica. D’altronde era difficile, vista l’immaturità e l’antipatia che caratterizzano i personaggi di Marion Cotillard (di cui sono innamorato dai tempi di Taxxi) e Guillaume Canet (che è invece insopportabile: sarà gelosia?).

Comunque la bidimensionalità dell’operazione può anche non essere un limite. Questo assalto terribilmente romantico, allo stesso tempo cinico (molti "scherzi" toccano davvero punti dolenti del quotidiano) e zuccheroso (perché è amore incondizionato, che non si ferma nemmeno di fronte alla morte), la reazione può essere diversa. O si va in iperglicemia, oppure ci si soddisfa le papille gustative e si finisce il film con un sorriso, beato e beota.