Germania

My Son, My Son, What Have Ye Done, Werner Herzog 2009

My Son, My Son, What Have Ye Done
di Werner Herzog, 2009

Inutile nasconderlo, sentiamo la mancanza di David Lynch. Da quando quattro anni fa decise con l’immenso INLAND EMPIRE di tracciare una netta linea di separazione tra chi era disposto ad accettare fino in fondo le conseguenze devastanti del suo cinema e chi no, ci ha fatto penare e continua a farci penare per un nuovo capolavoro. Non abbiamo invece lo stesso problema con Werner Herzog, che negli ultimi anni ha continuato il suo percorso autoriale con indefessa coerenza, sia con le forme del documentario sia, come in questo caso, utilizzando a suo beneficio il cinema americano per proseguire il suo discorso sull’uomo e sul contrasto tra natura e cultura, e i suoi indimenticabili ritratti di uomini che trascinati dalla visione del volto autentico della Terra hanno riplasmato il mondo alle condizioni della propria geniale follia.

Quello che My Son potrebbe sembrare ma non è: un contentino per i fan dell’uno o dell’altro; un divertissement per chi si diverte ad abbinare con superficialità i nani al primo e le cascate al secondo. Quello che è: un pezzo di cinema radicale calato nelle fauci della fiction, una parabola di scontro travestita da stand-off poliziesco, in cui l’importanza assolutamente centrale della provocazione linguistica, per esempio attraverso una direzione degli attori scopertamente antinaturalista, asciugata di ogni espressione oppure caricata fino all’estremo, è solo uno strumento come un altro per svelare agli occhi dello spettatore l’assoluta assurdità del mondo.

A patto che egli accetti le regole non così esplicite di ribaltamento delle aspettative che, seguendo la lezione dei due registi, passa attraverso lo straniamento per arrivare alla rivelazione. Sarebbe difficile capirlo se la presenza ingombrante dei due nomi non fungesse da freccia luce al neon? Fatto sta che, nonostante il film sia di Herzog e herzoghiano in modo preponderante, tornando all’osservazione iniziale, anche il produttore David Lynch ci mette ben più che una zampata. Non tanto nel nano di turno, ma in quel modo assolutamente unico di osservare il mondo e di renderlo immediatamente inquietante, di mettere fuori posto gli elementi che sostengono la realtà e mescolando le sinapsi che li connettono – ma anche nella misura in cui My Son sa raccontare con spirito autenticamente surrealista i paradossi della periferia e della famiglia americana.

Uno stile e una firma, a modo suo, che si incontra con perfetta alchimia con quello di Herzog e con un cast che, per primo, accetta le stesse regole (primo tra tutti l’incredibile Michael Shannon) per raccontare tra i pochi metri quadri di una strada che separa due case, con lo sguardo rivolto a una natura lontana e imperscrutabile, una lotta tragica che confonde arte e vita e che non può avere vincitori né vinti. La sintesi perfetta tra i due grandissimi autori, in attesa magari di un film che porti ancora una volta al di là le molte premesse e le partite aperte da questo, è comunque quanto di più sorprendente e frastornante, in tutte le accezioni possibili, ci possa capitare.

Il nastro bianco, Michael Haneke 2009

Il nastro bianco (Das weisse Band – Eine deutsche Kindergeschichte)
di Michael Haneke, 2009

Una delle prima cose che ho pensato dopo Il nastro bianco è stata che di rado di recente mi è capitato di vedere una tale incondizionata dedizione al contesto: il paradosso dell’ultimo film del grande regista austriaco è proprio la frustrazione della sua natura lineare di mystery tale, la negazione di una progressione risolutiva – nonostante il film inizi proprio con un mistero da decrittare. Infatti, tale enigma rimarrà per sempre irrisolto. O meglio, lo sarà ai personaggi, non allo spettatore, omnisciente suo malgrado: Il nastro bianco è un film che fa prima di tutto entrare lo spettatore all’interno della narrazione, rendendolo parte dell’intreccio proprio perché unico (o quasi) possibile testimone della Verità.

Da qui la dedizione al contesto: anche perché la soluzione dell’enigma non esiste, perché è sotto gli occhi di tutti. Troppo orribile, vero, ma soprattutto inconsciamente impossibile da ammettere: farlo vorrebbe dire di fatto arrendersi alle proprie disperate mostruose responsabilità, di fronte ai propri figli e al futuro del paese stesso – e il fatto che i personaggi la ignorino, anzi, non la prendano in considerazione fino all’epifania di una "anima pura" (a suo modo purificata dal sentimento in un mondo che sembra aver applicato un principio di repressione in cui la parte più scoperta del gioco è la soggezione dell’universo femminile) non fa che aumentare l’angoscia dello spettatore. Sono procedimenti che Haneke ben conosce e che applica sempre con grande mestria: Il nastro bianco è un film che, con il magnifico bianco e nero di Christian Berger, sembra ricercare il distacco più totale, ma che finisce per diventare, a suo modo, quasi un ossimorico film interattivo.

L’orrore che il paese e il suo affresco nasconde può essere svelato infatti solo da ne chi conosce il seguito: perché se Il nastro bianco è un film sulle radici più cupe della cultura tedesca del novecento, una "nascita della nazione" profondamente perturbante non solo se si pensa all’annuncio che chiude il racconto ma a quel che accadrà dopo, quello costruito da Haneke è più generalmente uno sguardo sui germogli di tutto il secolo breve nell’intero continente, un film su un Novecento le cui pagine sono scritte con il sangue e le cui parole recitano discriminazione, sopraffazione, punizione. La responsabilità, come al solito, sta nei semi di menzogna, castrazione e violenza lasciati dai padri: e il futuro, anche il nostro, nello sguardo dato a un passato così lontano e a ciò a cui gli anni a venire avrebbero assistito, non potrebbe essere più nero.

Ma Il nastro bianco non è soltanto questo: la dedizione al contesto di cui si diceva non è soltanto tematica ma anche figurativa – un livello, questo, su cui il film di Haneke si pone invece più semplicemente tra i risultati più alti delle ultime stagioni cinematografiche. Non soltanto la già citata stupefacente fotografia, ma tutta una messa in scena, sintetica, algida e crudele, che porta con sé l’esperienza del cinema di Haneke (per esempio sull’uso significativo dei piani lunghi, o del fuoricampo) cristallizzandola nella forma più lucida e perfetta.

Transsiberian, Brad Anderson 2008

Transsiberian
di Brad Anderson, 2008

Dopo L’uomo senza sonno, tutto sommato molto visto e discusso da noi, non pensavo che Anderson potesse avere dei problemi di visibilità dalle nostre parti. Invece il suo nuovo film, coproduzione anglo-franco-tedesco-lituana che ha conquistato la critica americana  (fin dalla presentazione al Sundance 2008), è uscito un po’ dappertutto negli scorsi mesi. Ma non in Italia. Dovrebbe essere nel listino di Mediafilm, ma non c’è traccia di un’uscita italiana.

Peccato, perché questo film è la conferma del talento del regista americano che in Europa ha trovato la sua seconda patria. Ecco, magari il film non supera un certo livello di guardia, spesso si rimane nel campo del mero mestiere: ma il quadrangolo morboso che si svolge sulla transiberiana da Pechino a Mosca nella prima parte (quasi tutto sulle spalle di Emily Mortimer, che se la cava egregiamente) perforato dall’avvento violento di Kingsley nella seconda, funziona che è una meraviglia.

Tra echi di Polanski e del Konchalovsky di Runaway train, Anderson mostra una conoscenza perfetta dei meccanismi di suspense e aspettativa, sa tradirli con furbizia (all’incirca a metà film), e tira fuori una cosetta non proprio freschissima ma abbastanza inquietante sul potere devastante della bugia – e magari prima o poi la fanno vedere anche a voi.

Nel frattempo potete acquistare il DVD su Play.com al prezzo di un aperitivo sui Navigli.

The reader, Stephen Daldry 2008

The reader
di Stephen Daldry, 2008

L’ultimo film di Stephen Daldry è diviso in tre parti ben separate, così come il libro di Bernhard Schlink da cui è tratto, e in altrettandi modi è possibile leggerlo – e così è stato fatto negli ultimi mesi. In realtà, la complessità tematica è parte della forza del film stesso, provocatorio nel suo cambiare rotta proprio perché dall’ambiguità delle differenze nasce la difficoltà, affascinante e ambiziosa, di prendere una parte, di decifrare completamente un film che, per sua stessa natura, non vuol essere decifrato del tutto.

Non si tratta quindi di scegliere cosa sia, o di che cosa parli. The reader è un racconto di formazione passionale, intenso e bruciante. E allo stesso tempo è un film che riflette, nel contesto storico del senso di colpa post-Olocausto del popolo tedesco, sull’origine del male e ovviamente sui suoi caratteri contingenti (secondo William Arnold "Nazism as more a product of explicable ignorance than inexplicable evil", forse semplificando eccessivamente). E allo stesso tempo, infine, è un film assai più intimo e insieme universale, un film sul segreto, sulla vergogna – i cui dettagli non si possono esplicitare senza rivelare i fondamenti della trama, ma Rober Ebert scrive, saggiamente che "The reader isn’t about the Holocaust, it’s about not speaking when you know you should".

Se le tre parti spingono singolarmente su ciascuno dei tre tasti, The reader alla fine è però più propriamente una suite in cui questi tre movimenti giungono a una sintesi – in cui uno stesso senso di colpa, nel processo catartico (fondamentalmente inane) da collettivo si fa individuale. Ma forse è proprio questa struttura così serrata e così multiforme, questa visione così audace e pur sorretta da una struttura così solida, probabilmente, a porre un freno alle emozioni che non solo dalla storia in sé, ma dal modo coraggioso in cui è raccontata, dovrebbero scaturire a cascata. Invece, The reader a un certo punto si ferm.

Rimanendo però un film di misteriosa, inesplicabile bellezza, da guardare a mente aperta, capace com’è di torcere alternativamente il cervello e le budella, e in cui nella terza parte, finalmente, anche il cuore, malato di silenzi e morente di segreti, può avere il suo ruolo. E infine, non ci sarebbe più nemmeno bisogno di dirlo, un film che contiene una delle interpretazioni più impressionanti, coraggiose e devastanti degli ultimi tempi – tanto che avrei voluto scrivere soltanto di lei per tutte queste righe, ma non trovavo le parole – quella di Kate Winslet.

Rescue dawn, Werner Herzog 2006

Rescue dawn
di Werner Herzog, 2006

Siamo così abituati, forse, e soprattutto in film a sfondo bellico o simili, e consideratela pure un’autocritica, a confondere messaggio e messa in scena, cinema e ideologia, che fa un certo effetto, straniante direi, trovarsi di fronte un film ambientato durante i primi fuochi della guerra nel Vietnam che riesce ad essere così asciutto e immediatamente commovente, a diventare insomma il semplice racconto di una sopravvivenza impossibile e di un eroismo i cui confini con la follia pura sono sempre più labili. Se alla regia c’è Werner Herzog, ci si sorprende meno.

Scritto dal regista e tratto da una storia vera, che Herzog stesso aveva raccontato nel 1997 nell’acclamato documentario Little Dieter needs to fly, da noi semi-inedito, il film racconta della cattura e della fuga del pilota della marina americana di origini tedesche Dieter Dengler da un campo di prigionia nel Laos, dove era stato rinchiuso dopo essere stato abbattuto durante i bombardamenti della regione (i cui storici filmati riapparsi pochi anni fa aprono in modo inquietante il film, cancellando immediatamente le tradizionali linee di demarcazione tra Storia e racconto, anche in senso morale).

E Rescue dawn è davvero un film di notevole impatto, nonostante Herzog, dopo molti e bellissimi documentari, affronti il racconto di fiction con una certa ingenuità, o almeno con scelte (di messa in scena e di direzione degli attori) che altrove lascerebbero di stucco. Ma la lezione appresa (e insegnata) da Herzog negli ultimi film fa sentire comunque il suo peso, anche se qui la narrazione è molto più pacificata, forse addirittura normalizzata: ma solo in apparenza, perché quello che conta davvero in Rescue Dawn è ancora lo sguardo sconvolto dell’uomo sulla natura, e soprattutto il posto occupato dall’uomo nella Natura, ritratta, quest’ultima, con la solita impalbabile e poetica semplicità.

Del film, apprezzatissimo dalla critica statunitense e ancora privo di una data d’uscita italiana, si è parlato nei mesi scorsi più che altro per le molte leggerezze con cui Herzog ha riadattato gli eventi narrati, scatenando le ire del fratello di Gene DeBruin (interpretato con incosciente e perfetta paranoia da Jeremy Davies) che ha creato un sito in cui esprime la sua protesta nei confronti delle ingiustizie propugnate dalla versione di Herzog. Ma con tutto il rispetto, tornando al cinema, da un regista come lui – come già abbiamo visto in Grizzly man, per dirne una – non solo non possiamo chiedere la veridicità storica, ma non vogliamo, non ci interessa proprio. Questo fatto non inficia insomma affatto la qualità del film, lo si riporta più che altro come curiosità.

Impossibile non parlare della solita impressionante performance corporea di Christian Bale, che non è solo un uomo di incredibile bellezza e fascino, ma uno dei più coraggiosi e pervicaci attori dei nostri tempi. Praticamente, un mutaforma.

Irina Palm
di Sam Garbarski, 2007

Una delle cose più divertenti di Irina Palm è raccontarlo poi ai tuoi amici, che non sanno che cosa sia, e godersi le loro facce: vaglielo a spiegare, poi, che questa trama – che sembrerebbe una cosa maliziosetta e un po’ porcellona, a spiegarla a maglie molto larghe – appartiene a un film così quieto, sommesso, malinconico, delicato, piacevole.

Irina Palm è stato additato da molti come una delle maggiori sorprese europee dell’anno appena trascorso, un po’ perché il suo regista a quasi sessant’anni è ancora praticamente un regista esordiente, ma soprattutto per la presenza inusuale di Marianne Faithfull, che uno in un ruolo così – la donna di mezza età che appende dietro il muro forato dal "buco della gloria" i piccoli simulacri della sua coscienza piccolo borghese, come il quadretto, il thermos del té – non ce la vedrebbe, e invece quegli occhi piccoli, vispi e tristi calzano alla perfezione sul ruolo di Maggie, come uno splendido grembiule adagiato su un corpo invecchiato e pieno di (bellissimi o grigi) ricordi.

Al di là di lei, ci sono molte cose che rendono Irina Palm un film da recuperare: tra queste, senza dubbio è principale il modo in cui Garbarski riesce a giocare con i suoi personaggi (soprattutto in quelli, più didascalici, del figlio e della nuora di Maggie, ma anche nel bellissimo ruolo affidato a Miki Manojlovic), ribaltandone l’identificazione senza mai prendere in giro lo spettatore, ma conducendolo per mano nella storia, con un garbo inaspettato e almeno due scene da conservare immediatamente nella memoria: la prima "lezione" tenuta da Dorka Gryllus (presenza inconsapevolmente meravigliosa: amore a prima vista) e la "rivelazione" ("I wank men off!") alle amiche del quartiere, che nascondono i loro squallidi altarini dietro l’ipocrisia perbenista del té delle cinque.

Alle Alle
di Pepe Planitzer, 2007
[Milano Film Festival 2007 - Concorso Lungometraggi]

L’amicizia tra Domühl, un capo-operaio alcolizzato; Ina, ex-galeotta di cui Domühl è innamorato; e Hagen, un malato di mente capitato per caso in quell’angolo di provincia tedesca, in cerca di un tutore che non arriverà mai.

Con un piglio che ricorda certo cinema sociale britannico, Planitzer racconta una storia in cui niente sembra andare per il verso giusto (e niente ci va, dopotutto) con la convinzione rassegnata, ma non del tutto pessimista, che la felicità non sia una questione di realizzazione a lungo termine, ma di singoli (e brevi) istanti di giustizia. Che non sia trovare un posto nel mondo, bensì il proprio posto.

Planitzer dimostra un ammirevole attaccamento ai personaggi, dipinti in un momento in cui l’amore e l’amicizia fa scaturire in loro un’umanità che sembrava ormai perduta – nell’alcol, nella follia, nella solitudine, nella disillusione. L’indulgenza totale nei loro confronti passa quindi in secondo piano rispetto alla loro insopprimibile sfortuna.

Astenersi aspiranti suicidi: potrebbe causare improvvise dipartite.

Le vite degli altri (Das leben der anderen)
di Florian Henckel von Donnersmarck, 2006

Non sono nemmeno il primo a farlo, ma anch’io devo chinare la testa: avrei avuto un pregiudizio negativo, o almeno, diciamo così, una buona dose di diffidenza, nei confronti di qualunque film abbia strappato di mano l’Oscar come miglior film in lingua straniera a Il Labirinto del Fauno. Ancora di più, trattandosi in questo caso di un film tedesco, nazione da cui negli ultimi anni sono usciti davvero ben pochi titoli che abbiano destato la mia attenzione. Invece, Le vite degli altri è un film assolutamente eccezionale.

E non solo: è un film di grande successo, non solo in patria e non solo nel circuito dei festival (dove ha comunque ricosso una quantità innumerevole di premi), diretto da un regista emergente, cosa ammirevole in un continente spesso troppo restio a "spingere" sui nomi nuovi. La ragione vive nella dote rara di riflettere su un dolorosissimo passato recente senza limitarsi ad un registro da "cinema civile", ma appassionando e coinvolgendo come un grande e complesso romanzo. In tutte le sue manifestazioni, sia visiva che narrativa, grazie anche a un tono che non rifugge i "comic reliefs" e una certa ironia mai forzata, e soprattutto grazie a una ricercatissima essenzialità che permette di tuffarsi in veri e propri varchi emozionali quando quella libertà e quella verità, spesso solo tratteggiate a parole, diventano azione, e diventano speranza.

Resta pochissimo da dire su un film che (quasi) tutti hanno già, giustamente, elogiato, impreziosito da una delicatissima e forse irripetibile armonia alchemica tra esigenze d’autore e cinema popolare. Una delle interpretazioni più incredibili e allo stesso tempo misurate degli ultimi anni (quella di Ulrich Mühe, enorme), alcune sequenze impressionanti (sopra tutte quella della doppia ispezione, che si conclude tragicamente, e il finale malinconico, catartico e perfetto) e la sceneggiatura di Henckel stesso, equilibrata e a tratti davvero sorprendente, fanno il resto.

Il diamante bianco, Werner Herzog 2004

Il diamante bianco (The white diamond)
di Werner Herzog, 2004

Il terzultimo documentario di Herzog, giunto finalmente nelle (davvero pochissime) sale italiane con un considerevole ritardo, come il successivo Grizzly man è il racconto di un superamento e di una tracotanza, della realizzazione di un sogno e dell’impossibilità di prescindere dai sacrifici che questo sogno richiede come pegni.

Ma più di tutto, e al di là di ogni possibile elucubrazione (e ce n’è, di materiale su cui elucubrare) Il diamante bianco è un film fatto di immagini di bellezza, istantanea e a volte sconvolgente. E’ un film che si immerge nella natura con uno sguardo di assoluta purezza, si appoggia al mondo e accarezza le cascate, si inquieta nel buio silenzio della foresta, si commuove di fronte alla debolezza e al genio degli uomini, alla nullità e alla forza degli uomini.

Splendido.

Non mi dilungo troppo perché questo nemmeno il film ha bisogno di tante parole. Quello di cui ha bisogno è di una distribuzione decente.

Grizzly Man, Werner Herzog 2005

Grizzly man
di Werner Herzog, 2005

Gli ultimi anni di vita di Timothy Treadwell, un uomo che ha vissuto intere stagioni a stretto contatto con i gli enormi orsi che vivono nelle pianure dell’Alaska (per poi lasciare la vita in quelle stesse terre), diventano nelle mani di Herzog materia per qualcosa che va un passo oltre il concetto di documentario, e comunque di sicuro oltre l’agiografia. Che viene accarezzata  – quasi con un inganno nei nostri confronti – nella primissima parte, ma che poi si trasforma nel ritratto complesso, sfaccettato e profondo, di un nuovo Kinski, un altro uomo “contro”. Non più “contro un regista o una produzione, ma contro l’intera civiltà”, quella in cui è costretto a vivere e da cui fugge rifugiandosi nella natura.

Così Treadwell si mostra per quello che è, figura affascinante quanto irrisolta, inafferrabile, dolorosa: un uomo che insegue il suo destino e la sua ossessione fino a morire davvero sotto i colpi violenti della natura (in)contaminata, senza badare alla logica o alle leggi che sono il fondamento della società fin dal momento in cui l’uomo ha deciso di percorrere la sua strada e lasciare che la natura corre. La parola chiave è “boundaries”, “limiti”, quelli che Treadwell non esitava (eroicamente o stupidamente?) a sorpassare, inseguendo la morte e facendosi da essa raggiungere. L’ultima anarchia possibile, la sua.

Ma quello che è più straordinario di Grizzly man, e che Herzog sottolinea, è il valore prettamente filmico del testamento visivo di Treadwell. Sintomatico e inconscio, ma prezioso: Treadwell inseguiva in una sorta di continuo diario (da qualche parte si direbbe “un confessionale”) – e non senza smanie egocentriche – l’idea per cui in mezzo alla natura sarebbe potuto diventare (orso, volpe, fiume) natura lui stesso. Anche davanti all’occhio fisso della telecamera. E pur non riuscendoci, perché non comprendeva forse a fondo la bellezza della natura intorno a sè, la registrava con la purezza dei pionieri del cinema, e con l’ingenua emozione del genio.

Ma Grizzly man, film emozionante, tragico e bellissimo, non si ferma qui, e con grande lucidità e chiarezza è una metafora del cinema e dei limiti della rappresentabilità. E di fronte alla morte, al rumore della morte, persino Herzog passa “dall’altra parte”, prende le mani della vedova e piange con lei.

1/2 mensch
di Sogo Ishii, 1986

Una discarica di tonnellate di metallo non-più-urlante lasciato là e abbandonato, rifiuto vomitato dalla nostra civiltà. All’improvviso una goccia di sangue scende dalle lamiere, cadendo a terra. Con questa immagine si apre 1/2 mensch, formidabile "documentario" sugli Einstürzende Neubauten, girato dal futuro regista di Electric dragon 80.000v e Gojoe, in occasione del tour nipponico del gruppo berlinese. Ed è un immagine che coglie subito e alla perfezione, oltre che l’anima che muove un simile progetto – l’interesse di Ishii, simile a quello di Tsukamoto, per la civiltà industriale – anche l’anima stessa della band tedesca: ridare sangue, pulsazioni, vita, all’inorganico e all’immateriale.

Più cinetrip che backstage, più videoart che videoclip. E poi, gli Einstürzende Neubauten. Da possedere, ad ogni costo.
 
Ora, io certe cose, si sa, le mastico poco, e quindi, detta la mia, ho invitato un gradito ospite: Gas, brillante semiologo, appassionato musicologo, e illuminante scrittore.
Insomma, per una volta, passo il testimone.




Tra due e trecento parole i due amanti si lasciano a porconi; x esce sbattendo la porta, volutamente. Il riflesso percussivo dello stipite obnubila la funzione di chiusura. È rumore, ben più significativo di un’onomatopea. Il linguaggio arranca quando ci si vuole avvicinare: il rumore è sempre più forte; se fossi uno di quelli che usano espressioni del tipo “eterno femminino” (d’ora in poi: EF), direi che va drit… ma non uso certe espressioni punto stimolanti per voi freak.
La violenza, dal canto suo (y), va ponderata: senza il calcolo, potrebbe rischiare di non fare del male davvero. Sarebbe uno spreco di intelligenza.
I dati del problema: (i) le operazioni; (ii) quel che può capitare a tiro in una società industriale, dal trapano alla forbicina per i peli del naso al martello pneumatico ai musicisti; (iii) nella musica industriale ogni pre-testo oggettifero (ogni oggetto che capita di vedere in un cantiere o in una fabbrica dismessa) diventa testo; (iv) nella musica industriale i musicisti vanno annoverati – termine ad uso dei servizi di sport – tra gli strumenti, e se non lo fanno – cioè se non diventano violenza ponderata – che vadano a suonare rockabilly – e non facciano finta di essere manco mezzi uomini né caporali.
Questo audiovisivo cerca e trova un piano di traduzione – unico corteggiamento possibile – tra se stesso, il cinema e la musica. Visto col jeune-cinefilo che sbava è poi un’autentica soddisfazione (espressione EF). Abbiamo sbavato insieme. Il corteggiamento è riuscito.
(La porta andrà su di un palco giappo-cino a fare del rumore, legalizzata dalla società industriale a scassarsi.)

[1919-1928]

Il vampiro (Vampyr – Der Traum des Allan Grey)

di Carl Theodor Dreyer, 1932

Un film fatto con la materia dell’inconscio, un film che è come un incubo. Un gran bell’incubo, comunque: ombre che vivono di vita propria, scene girate al contrario, apparizioni inquietanti (un viso distorto dalla vecchiaia, un uomo una falce e una campana). Un protagonista che ciondola e l’orrore che gli gira attorno, per separarsi poi dal proprio corpo e seguire le vie di Morfeo. Un vampiro chino su una donna stesa come fosse un dipinto di Fussli.

Mobilissimo e moderno (almeno rispetto all’opera riflessiva e religiosa di Dreyer), quasi muto ma espressivo come pochi. Incredibile l’interminabile soggettiva dall’interno di una bara. Vedere il mondo con gli occhi di un fantasma: inquietante e spiazzante, ancora oggi.

La San Paolo sta editando delle più che buone edizioni dvd dei film di Dreyer. Speriamo venga fuori anche questo.

La sposa turca (Gegen die wand)

di Fatih Akin, 2004

Gegen die wand, trionfatore alla Berlinale di quest’anno, sconta l’incapacità di dare una coesione ai generi. Parte come commedia inter-etnica (strappando qualche sorriso, soprattutto per il tono truce e suburbano). Poi prende poi una piega melodrammatica che rende il film, nonostante il ritmo acceso e molte buone idee, abbastanza noiosetto.

I generi si possono mischiare, ma ci vuole talento e capacità per farlo, doti che forse mancano ad Akin. Tanto più che la sua furia compositiva non porta alla compressione degli eventi, bensì a una struttura ellittica che, ammessa l’originalità, lascia da parte fattori essenziali per comprendere i personaggi e i loro cambiamenti interiori. Il risultato è una sensazione di incoerenza o comunque la perdità di una qualsiasi credibilità.

Il danno peggiore è quello portato al bel personaggio di Sibel, non solo imbruttendola (a Amburgo è uno schianto, a Instambul un cesso) ma anche e soprattutto distruggendo quello che era affascinante in lei: la sua vitalità, distruttiva e anarchica, si trasforma in una smania autodistruttiva che porta a terribili conseguenze (con uno spirito gore fuori misura).

Il finale (tolta la bella immagine disperata dei due corpi nudi in una tetra stanza turca) ha una gran parte nella mia delusione. Perché, visti gli sviluppi, mi aspettavo un finale simile, era anzi quasi scontato. Però, fino all’ultimo, ci speravo. Almeno quello. Niente da fare.

nota: La sposa turca è l’orso d’oro 2004. Questo l’orso d’argento 2004. Il "contentino Kim Ki-Duk". Berlino come Venezia. Un po’ di coraggio, no?