My Son, My Son, What Have Ye Done
di Werner Herzog, 2009
Inutile nasconderlo, sentiamo la mancanza di David Lynch. Da quando quattro anni fa decise con l’immenso INLAND EMPIRE di tracciare una netta linea di separazione tra chi era disposto ad accettare fino in fondo le conseguenze devastanti del suo cinema e chi no, ci ha fatto penare e continua a farci penare per un nuovo capolavoro. Non abbiamo invece lo stesso problema con Werner Herzog, che negli ultimi anni ha continuato il suo percorso autoriale con indefessa coerenza, sia con le forme del documentario sia, come in questo caso, utilizzando a suo beneficio il cinema americano per proseguire il suo discorso sull’uomo e sul contrasto tra natura e cultura, e i suoi indimenticabili ritratti di uomini che trascinati dalla visione del volto autentico della Terra hanno riplasmato il mondo alle condizioni della propria geniale follia.
Quello che My Son potrebbe sembrare ma non è: un contentino per i fan dell’uno o dell’altro; un divertissement per chi si diverte ad abbinare con superficialità i nani al primo e le cascate al secondo. Quello che è: un pezzo di cinema radicale calato nelle fauci della fiction, una parabola di scontro travestita da stand-off poliziesco, in cui l’importanza assolutamente centrale della provocazione linguistica, per esempio attraverso una direzione degli attori scopertamente antinaturalista, asciugata di ogni espressione oppure caricata fino all’estremo, è solo uno strumento come un altro per svelare agli occhi dello spettatore l’assoluta assurdità del mondo.
A patto che egli accetti le regole non così esplicite di ribaltamento delle aspettative che, seguendo la lezione dei due registi, passa attraverso lo straniamento per arrivare alla rivelazione. Sarebbe difficile capirlo se la presenza ingombrante dei due nomi non fungesse da freccia luce al neon? Fatto sta che, nonostante il film sia di Herzog e herzoghiano in modo preponderante, tornando all’osservazione iniziale, anche il produttore David Lynch ci mette ben più che una zampata. Non tanto nel nano di turno, ma in quel modo assolutamente unico di osservare il mondo e di renderlo immediatamente inquietante, di mettere fuori posto gli elementi che sostengono la realtà e mescolando le sinapsi che li connettono – ma anche nella misura in cui My Son sa raccontare con spirito autenticamente surrealista i paradossi della periferia e della famiglia americana.
Uno stile e una firma, a modo suo, che si incontra con perfetta alchimia con quello di Herzog e con un cast che, per primo, accetta le stesse regole (primo tra tutti l’incredibile Michael Shannon) per raccontare tra i pochi metri quadri di una strada che separa due case, con lo sguardo rivolto a una natura lontana e imperscrutabile, una lotta tragica che confonde arte e vita e che non può avere vincitori né vinti. La sintesi perfetta tra i due grandissimi autori, in attesa magari di un film che porti ancora una volta al di là le molte premesse e le partite aperte da questo, è comunque quanto di più sorprendente e frastornante, in tutte le accezioni possibili, ci possa capitare.