Il cinema di Takashi Miike è sempre stato difficilmente incasellabile ed etichettabile. Da qualche anno, il riconoscimento da parte della critica internazionale e il successo di alcuni suoi film in patria (in particolare Crows Zero) ha portato a una separazione tra anime ben distinte. Semplificando al massimo, da una parte ci sono i film che vengono presentati ai grandi Festival come 13 Assassins a Venezia nel 2010 e Hara-Kiri quest’anno a Cannes, dall’altra i film prodotti per il pubblico locale come Ninja Kids (2011) e Ace Attorney. È davvero strano pensare che i due film di questo post siano usciti a quattro mesi di distanza.
Hara-kiri: Death of a samurai (Ichimei)
di Takashi Miike, 2001
Per il secondo anno di seguito dopo 13 Assassins, Takashi Miike ha deciso di affrontare la tradizione dei chambara girando il remake di un film degli anni sessanta. Ma la sfida qui è moltiplicata: Harakiri di Masaki Kobayashi (in originale Seppuku) è uno dei film di samurai più famosi di sempre (venne persino presentato a Cannes) ed è considerato un classico del suo genere oltre che uno dei titoli più rappresentativi di uno degli autori nipponici più celebrati. E non solo: il remake è in 3D, primo film di questo tipo a essere ammesso a Cannes. Nonostante il rischio di un attrito nell’incontro tra tradizione e modernità, Miike si mostra ancora una volta all’altezza del compito riprendendo – oltre alla complessa struttura narrativa a flashback – molte suggestioni visive già presenti nel film di Kobayashi, ispirandosi all’originale fin dai titoli di testa, replicando la composizione delle inquadrature e in particolare la posizione statica e pittorica dei corpi nello spazio. Quello di Hara-kiri è un Miike diverso da quello che siamo stati abituati a vedere, controllato, preciso, senza una sbavatura, che si concede nella prima metà una scena di seppuku dalla violenza quasi insostenibile, ma che poi si concentra con stile essenziale sul racconto di un abisso tragico che si dipana man mano rivelando l’assurdità e l’ipocrisia dell’onore feudale, fino all’inevitabile duello finale. Che è distante dalla furia di 13 Assassins: qui lo scontro avviene in modo quasi caotico, con i corpi dei samurai che sbattono uno contro l’altro, affaticati e pesanti, privati di ogni codice e senso. Visivamente splendido (il direttore della fotografia è ancora Nobuyasu Kita), Hara-kiri vede anche l’incontro sullo schermo di due grandi attori: Yakusho Kōji è una star del cinema e della tv, mentre il protagonista (il cui vero nome è Takatoshi Horikoshi) è l’attuale e undicesimo Ichikawa Ebizō, ultimo rappresentante di una grande famiglia del teatro Kabuki. Una sfida meravigliosamente vinta.
Ace Attorney (Gyakuten saiban)
di Takashi Miike, 2012
Per chi non frequenta affatto il mondo dei videogame, può sembrare bizzarro che esista una serie adventure per Nintendo DS (nata su Game Boy Advance) ambientata nelle aule dei tribunali, il cui scopo è la vittoria del caso di turno da parte di un avvocato difensore. Ma la serie della Capcom è in realtà un successo enorme, ha superato 4 milioni di copie vendute ed era inevitabile, vista la popolarità in Giappone, l’uscita di un film ispirato alle avventure dell’avvocato Phoenix Wright, più di 10 anni dopo l’uscita del primo capitolo. Per mettere in scena la schematicità dei processi del gioco, si è ambientato il tutto nel futuro (i processi si devono chiudere entro tre giorni, le prove sono presentate come ologrammi) la struttura narrativa riprende quella dell’originale, divisa tra il dibattito in aula e il lavoro di detection vero e proprio. Il film è quindi tutt’altro che un courtroom movie tradizionale, è attraversato da un umorismo nipponico surreale e sopra le righe, sembra piuttosto un anime in carne e ossa fin dall’improbabile look dei suoi personaggi, e non si ferma nemmeno di fronte a suggestioni soprannaturali (il protagonista viene spesso consigliato da un fantasma). La verità è che quasi tutto ciò che accade in Ace Attorney è dedicato ai fan del videogame, pieno com’è di citazioni e ammiccamenti, dai coriandoli che cadono sui personaggi alla chiusura del processo alla catch phrase che è il simbolo stesso del gioco: l’avvocato con il dito puntato che urla “Obiezione!”, cosa che nel film succede in continuazione. A volte il risultato di questo lavoro di adattamento è esilarante, più spesso è bizzarro e sgangherato, altre è quasi incomprensibile. Il grande problema, per i non iniziati, è un’insistita meccanicità: restituendo i procedimenti del gioco in modo fedele, Ace Attorney finisce per diventare freddo e ripetitivo, oltre che ingiustificatamente lungo – diciamo pure interminabile. Per fortuna Miike lavora in modo compiuto e serio su qualunque progetto: il film è prodotto con grande cura visiva e il regista, pur trattenendo molto del suo stile vorticoso (ma i fan riconosceranno marchi di fabbrica come i jump cut nel finale), gestisce con dimestichezza l’alternanza continua dei toni demenziali con quelli drammatici, e con l’aiuto del cast (notevole: Manfred von Karma è il Ryo Ishibashi di Audition, il “robotico” giudice è Akira Emoto, il Dr. Akagi di Imamura) riesce infine nell’impresa di rendere i suoi personaggi credibili, e a suo modo persino umani.