Giappone

Hara_kiri: Death of a samurai (2011) / Ace Attorney (2012), Takashi Miike

Il cinema di Takashi Miike è sempre stato difficilmente incasellabile ed etichettabile. Da qualche anno, il riconoscimento da parte della critica internazionale e il successo di alcuni suoi film in patria (in particolare Crows Zero) ha portato a una separazione tra anime ben distinte. Semplificando al massimo, da una parte ci sono i film che vengono presentati ai grandi Festival come 13 Assassins a Venezia nel 2010 e Hara-Kiri quest’anno a Cannes, dall’altra i film prodotti per il pubblico locale come Ninja Kids (2011) e Ace Attorney. È davvero strano pensare che i due film di questo post siano usciti a quattro mesi di distanza.

Hara-kiri: Death of a samurai (Ichimei)
di Takashi Miike, 2001

Per il secondo anno di seguito dopo 13 Assassins, Takashi Miike ha deciso di affrontare la tradizione dei chambara girando il remake di un film degli anni sessanta. Ma la sfida qui è moltiplicata: Harakiri di Masaki Kobayashi (in originale Seppuku) è uno dei film di samurai più famosi di sempre (venne persino presentato a Cannes) ed è considerato un classico del suo genere oltre che uno dei titoli più rappresentativi di uno degli autori nipponici più celebrati. E non solo: il remake è in 3D, primo film di questo tipo a essere ammesso a Cannes. Nonostante il rischio di un attrito nell’incontro tra tradizione e modernità, Miike si mostra ancora una volta all’altezza del compito riprendendo – oltre alla complessa struttura narrativa a flashback – molte suggestioni visive già presenti nel film di Kobayashi, ispirandosi all’originale fin dai titoli di testa, replicando la composizione delle inquadrature e in particolare la posizione statica e pittorica dei corpi nello spazio. Quello di Hara-kiri è un Miike diverso da quello che siamo stati abituati a vedere, controllato, preciso, senza una sbavatura, che si concede nella prima metà una scena di seppuku dalla violenza quasi insostenibile, ma che poi si concentra con stile essenziale sul racconto di un abisso tragico che si dipana man mano rivelando l’assurdità e l’ipocrisia dell’onore feudale, fino all’inevitabile duello finale. Che è distante dalla furia di 13 Assassins: qui lo scontro avviene in modo quasi caotico, con i corpi dei samurai che sbattono uno contro l’altro, affaticati e pesanti, privati di ogni codice e senso. Visivamente splendido (il direttore della fotografia è ancora Nobuyasu Kita), Hara-kiri vede anche l’incontro sullo schermo di due grandi attori: Yakusho Kōji è una star del cinema e della tv, mentre il protagonista (il cui vero nome è Takatoshi Horikoshi) è l’attuale e undicesimo Ichikawa Ebizō, ultimo rappresentante di una grande famiglia del teatro Kabuki. Una sfida meravigliosamente vinta.

Ace Attorney (Gyakuten saiban)
di Takashi Miike, 2012

Per chi non frequenta affatto il mondo dei videogame, può sembrare bizzarro che esista una serie adventure per Nintendo DS (nata su Game Boy Advance) ambientata nelle aule dei tribunali, il cui scopo è la vittoria del caso di turno da parte di un avvocato difensore. Ma la serie della Capcom è in realtà un successo enorme, ha superato 4 milioni di copie vendute ed era inevitabile, vista la popolarità in Giappone, l’uscita di un film ispirato alle avventure dell’avvocato Phoenix Wright, più di 10 anni dopo l’uscita del primo capitolo. Per mettere in scena la schematicità dei processi del gioco, si è ambientato il tutto nel futuro (i processi si devono chiudere entro tre giorni, le prove sono presentate come ologrammi) la struttura narrativa riprende quella dell’originale, divisa tra il dibattito in aula e il lavoro di detection vero e proprio. Il film è quindi tutt’altro che un courtroom movie tradizionale, è attraversato da un umorismo nipponico surreale e sopra le righe, sembra piuttosto un anime in carne e ossa fin dall’improbabile look dei suoi personaggi, e non si ferma nemmeno di fronte a suggestioni soprannaturali (il protagonista viene spesso consigliato da un fantasma). La verità è che quasi tutto ciò che accade in Ace Attorney è dedicato ai fan del videogame, pieno com’è di citazioni e ammiccamenti, dai coriandoli che cadono sui personaggi alla chiusura del processo alla catch phrase che è il simbolo stesso del gioco: l’avvocato con il dito puntato che urla “Obiezione!”, cosa che nel film succede in continuazione. A volte il risultato di questo lavoro di adattamento è esilarante, più spesso è bizzarro e sgangherato, altre è quasi incomprensibile. Il grande problema, per i non iniziati, è un’insistita meccanicità: restituendo i procedimenti del gioco in modo fedele, Ace Attorney finisce per diventare freddo e ripetitivo, oltre che ingiustificatamente lungo – diciamo pure interminabile. Per fortuna Miike lavora in modo compiuto e serio su qualunque progetto: il film è prodotto con grande cura visiva e il regista, pur trattenendo molto del suo stile vorticoso (ma i fan riconosceranno marchi di fabbrica come i jump cut nel finale), gestisce con dimestichezza l’alternanza continua dei toni demenziali con quelli drammatici, e con l’aiuto del cast (notevole: Manfred von Karma è il Ryo Ishibashi di Audition, il “robotico” giudice è Akira Emoto, il Dr. Akagi di Imamura) riesce infine nell’impresa di rendere i suoi personaggi credibili, e a suo modo persino umani.

13 Assassini, Takashi Miike 2010

13 Assassins (Jûsan-nin no shikaku)
di Takashi Miike, 2010

Nella luce fioca di una stanza spoglia, una donna senza nome, senza braccia e senza lingua scrive a chiare lettere su un papiro la missione di Shinzaemon, chiamato dai consiglieri dello Shogun a porre fine alle angherie di Naritsugu, pazzo fratello dello Shogun. Le parole sono “massacro totale”, e non lasciano alcuna possibilità di tregua: Shinzaemon dovrà mettere insieme una piccola squadra di samurai allo scopo di uccidere il dispotico Naritsugu – e la battaglia sarà lunghissima e sanguinaria.

Ambientato agli ultimi sgoccioli dello shogunato, a pochi anni dall’avvento del Periodo Meiji che avrebbe in breve tempo trascinato il Giappone fuori dall’era feudale e dentro la modernità, 13 Assassins è il film della definitiva maturità di uno dei registi più prolifici, idolatrati e importanti del cinema nipponico nello scorso decennio: un’opera possente e furibonda sulla linea della gloriosa tradizione del jidaigeki che al tempo stesso ne segna un superamento radicale, segnato dalla decadenza e dall’ineluttabilità. I samurai perseguono la loro missione con stoicismo suicida e con una sorta di dolente e implicita consapevolezza, quella della fine di un’era, inseguendo l’ultimo baluardo di un eroismo pronto a essere dimenticato dal tempo – perdendo di colpo in colpo il controllo del proprio corpo, ma sempre e comunque lottando, fino all’ultimo respiro, all’ultima goccia di sangue, all’ultima convulsione.

Un’immersione appassionante, violenta ed estenuante in una concezione fuori dal tempo dell’onore e della giustizia che, nel percorso che porta allo scontro, predilige lunghe sequenze preparatorie (interrotte qua e là da autentiche fiammate) e che all’incontrollabilità del regista sembra sostituire un più adulto e controllato rigore – dietro al quale però si intravede con chiarezza l’anima visionaria e folle di Miike, il suo senso dell’umorismo improvviso e stordente e un’irresistibile fascinazione per la coesistenza tra realtà e mistero, tra umanità e leggenda.

Nei cinema italiani dal 24 giugno 2011.

Confessions, Tetsuya Nakashima 2010

Confessions (Kokuhaku)
di Tetsuya Nakashima, 2010

Dopo aver diretto due film come il sottovalutato Kamikaze Girls e, soprattutto, come lo stupefacente e acclamatissimo Memories of Matsuko, Nakashima arriva al culmine della sua carriera con quello che è non soltanto il suo miglior film ma una delle opere più straordinarie, uniche e impressionanti prodotte in questi ultimi anni dal cinema nipponico: una struggente, sardonica, crudele e dolorosa parabola senza vincitori né vinti, che attraverso un’inesorabile slittamento dei punti di vista narrativi racconta una storia impossibile di vendetta e di follia, inserita nel contesto di un sistema scolastico che diventa sineddoche di un intero sistema, di un mondo che ha perso il suo baricentro morale, di esseri umani a cui di fronte all’ineffabilità del dolore non resta che pianificare il reciproco annichilimento. Con il coraggio di porsi delle domande vere sul sulla colpa con lo sfrontato e ammaliante cinismo di chi non lascia la storia in mano ai consueti meccanismi del peccato e della redenzione. Ma Confessions è anche un film che non ha alcuna intenzione di lasciar parlare solo i suoi personaggi e le loro storie: se da un punto di vista visivo Nakashima è sempre stato un regista spudorato e sopra le righe, questo suo ultimo film rappresenta insieme l’ennesima potenza del suo stile barocco e la dimostrazione dell’avvenuto controllo delle sue istante – in cui nulla è lasciato al caso, in cui ogni singola inquadratura diventa il quadro perfetto di un dilemma morale, con un rilancio continuo di pezzi di bravura che, anche grazie all’ausilio di una colonna sonora geniale che fa incontrare Bach con i Boris e i Radiohead di Last Flowers, risulta allo stesso tempo struggente e frastornante, lasciando alla fine dei giochi una sensazione di ubriacatura che è insieme inebriante e inquietante – un sorriso crudele, beffardo e disperatissimo.

L’edizione inglese del film esce il 25 aprile in Blu-ray e DVD.

Outrage, Takeshi Kitano 2010

Outrage (Autoreiji)
di Takeshi Kitano 2010

Non mi metterò a spiegare diffusamente perché, ma di norma è abbastanza inutile, persino nocivo, mettersi a leggere cosa pensa un regista del suo stesso film. Nel caso di Outrage e di Takeshi Kitano però è inevitabile porsi una domanda, se vogliamo, di natura sia produttiva che artistica: perché girare un film come Outrage? Perché interrompere una trilogia di ambiziosi e bellissimi (anche se in qualche modo irrisolti) film sperimentali per tornare a girare dopo 10 anni secchi non solo uno yakuza eiga ma quello che è una sorta di “grado zero” dello yakuza eiga kitaniano? E così, scartabellando, scopriamo che Kitano si è stufato, che ha costruito la trama intorno alle scene di violenza e non viceversa, che il regista di alcuni dei più straordinari capolavori del cinema asiatico (e non solo) degli anni ’90 aveva voglia di fare un film dichiaratamente per le masse. Un film con i gangster, punto. Un film di gangster che sparano. In cui non ci sia niente da scavare, non ci siano profonde riflessioni sulla vita e sulla morte, sull’arte e sulla poesia, ma solo gangster che sparano. Gangster che si uniscono, complottano, si tradiscono, si uccidono, e poi ricominciano da capo: unioni, complotti, tradimenti, omicidi, e di nuovo daccapo. Torniamo al problema principale: quanto vale la parola di un autore su un’opera? È un discorso troppo lungo e accademico, per il quale non siamo nel luogo più adatto, ma non c’è dubbio che Outrage sia una feroce dichiarazione d’intenti sia nei confronti del pubblico sia degli epigoni che Kitano (e altri protagonisti del cinema degli anni ’90) hanno creato, e per la sua distanza da quel metodo unita all’apparente similarità con i suoi film di un tempo, ha la forza propulsiva di un Manifesto. Quello che resta in Outrage è insomma lo scheletro del suo cinema più violento, sardonico e spietato, uno scheletro che forse Kitano voleva davvero lasciare a se stesso per restituire al pubblico al gusto del puro racconto – il che significa anche asciugare il cinema dagli orpelli semantici (e dalla sovrainterpretazione) e ridare l’epos puro del cinema in mano alla sua magistrale capacità tecnica e al potere delle immagini.Un gioco? Forse. Uno scherzo? Non proprio. Di sicuro, non una presa in giro. Insomma, i capolavori di un tempo sono lontani, ma Outrage non è un film da prendere sotto gamba. Forse anni fa avrei ironizzato sul fatto che la pronuncia giapponese del titolo nella sua versione occidentalizzata si scriva proprio “Autoreiji”, ma non ho più l’età per queste sciocchezze.

L’edizione giapponese del DVD è Regione 2 come la nostra, ma costa parecchio. Più economica invece l’edizione hongkonghese, che però è Regione 3.

Porco Rosso, Hayao Miyazaki 1992

Porco Rosso
di Hayao Miyazaki, 1992

“Un maiale che non vola è soltanto un maiale”

Lo so, non ha molto senso mettersi a parlare di Porco Rosso nel 2010. O meglio, mi correggo: non dovrebbe averlo se non avessimo dovuto aspettare 18 anni per vedere nelle nostre sale uno dei film più amati del grandissimo regista giapponese, per tacere del fatto che l’immaginifica e fantasiosa ambientazione milanese avrebbe potuto rappresentare un valore aggiunto per renderlo più “smerciabile”. Ma il nostro è un paese strano, è lo stesso paese dove i film d’animazione escono solo di pomeriggio perché “è roba per bambini”.

Ma Porco Rosso, come quasi tutte le opere di Miyazaki, è un film talmente universale da essere sostanzialmente senza età. Se le due sequenze in flashback, il ricordo di un amore magico nato volando sul pelo dell’acqua e l’incontro con la morte nella forma di una scia di aeroplani fantasma, valgono da sole tutto il cinema che potete immaginare, tutto il resto è semplicemente meraviglioso – e parlo di quel tipo di rara meraviglia per cui ci si sorprende a piangere senza motivo guardando dei bozzetti in bianco e nero accompagnati dalle musiche di Hisaishi, sui titoli di coda.

Porco Rosso è un capolavoro autentico e indiscutibile come ce ne sono (stati) pochi. Ed è nelle nostre sale, oggi, ora. Prendetevi un pomeriggio e andate a godervelo. Portateci i vostri figli e i vostri nipoti, se potete. In un certo senso, sono invidioso: avere l’occasione di scoprire il cinema di Hayao Miyazaki alle scuole elementari potrebbe davvero cambiare la loro vita. Decisamente in meglio.

Assault Girls, Mamoru Oshii 2009

Assault Girls (Asaruto gâruzu)
di Mamoru Oshii, 2009

Mamoru Oshii è uno degli autori più importanti dell’animazione nipponica e, più in generale, uno dei registi giapponesi più visionari e più amati dagli appassionati del genere: ma se la sua filmografia a partire dalla fine degli anni ’70 (soprattutto dal 1981, anno in cui iniziò a dirigere l’anime di Lamù) è davvero ricca, il pubblico occidentale abbina la sua firma soprattutto al seminale ed epocale Ghost in the Shell del 1995 e al suo incredibile sequel Innocence del 2004. Dopo la (personale) delusione del grottesco Tachiguishi Retsuden, comunque assai apprezzato da molti suoi fan, un paio d’anni fa a Venezia Oshii portò The Sky Crawlers, un bellissimo film d’animazione metafisico e purtroppo poco conosciuto nonostante sia da tempo in commercio anche in Italia. Con Assault Girls Oshii torna a dirigere un lungometraggio live action a quasi un decennio di distanza dal diseguale ma affascinante Avalon, di cui richiama a tratti alcune atmosfere, convenzioni e palette.

Questo cappello riassuntivo serve solo a prendere tempo perché io, in tutta franchezza, Assault Girls non sono riuscito a capirlo.

Lungo poco più di un’ora, il film è ambientato in una realtà simulata che ha le fattezze di un deserto dove alcune bellissime guerriere (chi armata fino ai denti, chi con la capacità di trasformarsi), accumulano punti eliminando degli enormi vermoni digitali che escono delle sabbie. Basta. Non c’è molto altro. Non c’è praticamente alcuna vera evoluzione narrativa, se non la decisione di unire le forze per un nemico più difficile da battere. Tra l’altro, il film si apre con un incipit verbosissimo che dà un contesto distopico ma che in definitiva è del tutto inutile ai sensi di ciò che verrà: dopo questo, c’è una (spettacolare) sequenza action finita la quale il film fa una brusca frenata. E in parole povere, non succede più niente fino a pochi minuti dalla fine. Poi: bang, boom, fine.

Ovviamente il film sotto il profilo visivo è una goduria, a cui contribuisce non poco l’accecante bellezza di Meisa Kuroki (e di Rinko Kikuchi, ma in modo minore) ma il film si ferma lì, al look post-tutto delle sue interpreti, alle pose plastiche, alle armi e ai mirini. Forse c’era qualcosa da capire che mi è sfuggito, un’altra profonda riflessione del Nostro sul futuro sempre più fragile dell’identità e dell’anima? Lo dico sinceramente: spiegatemelo voi. Perché io ci ho visto tre ragazze giapponesi che sparano ai vermoni, e poco altro.

L’edizione home video americana è region free sia in DVD che in Blu-Ray ed esce la prossima settimana.

Tokyo sonata, Kiyoshi Kurosawa 2008

Tokyo sonata
di Kiyoshi Kurosawa, 2008

Nel panorama del cosiddetto j-horror, i film di Kurosawa Kiyoshi sono sempre stati qualcosa a sé stante rispetto ai film di registi come Hideo Nakata o Takashi Shimizu, nonostante un film come Cure avesse messo istantaneamente KK nella lista dei registi complici del rilancio globale del cinema horror giapponese. Ma da Kairo a Bright future, da Charisma a Doppelganger, i suoi film erano qualcosa di completamente diverso, caratterizzati da un gusto spiccato per l’inquietudine, e da opposizioni tematiche che facevano di ogni suo film una specie di spaventoso rebus filosofico-metafisico. Oltre che da uno stile inconfondibile: soprattutto, erano registicamente su un altro pianeta rispetto a quasi tutto il cinema nipponico coevo.

Adesso Kurosawa Kiyoshi ha abbandonato l’horror: Tokyo Sonata è infatti un dramma ambientato nella capitale dei nostri giorni, le cui vicende ruotano intorno a una famiglia di quattro elementi: il padre che ha perso il lavoro ma non vuole rivelarlo alla moglie, il figlio minore che vuole suonare il piano a tutti i costi ma gli viene impedito, il figlio maggiore che fa volantinaggio e che sogna di arruolarsi nell’esercito americano, la madre che vive la sua frustrazione di casalinga. Ma anche in questo contesto inedito, "realista" tra virgolette, Kurosawa mostra una maestria e una cura impressionanti.

E’ interessante vedere come la sua esperienza del tutto unica nel cinema di genere, seppure sui generis, esca a piccoli accenni ma non cannibalizzi l’attenzione su un film capace di vivere di vita propria come dramma familiare. Ma anche qui, la tematizzazione è forte: Tokyo Sonata è prima di tutto un film sulle seconde occasioni, in cui il contesto storico del Giappone odierno è perfetto per raccontare di come per voltare pagina sia spesso necessario attraversare il trauma più estremo. Rinascere, insomma, dalle proprie stesse ceneri.

Ma Tokyo Sonata è anche un film che mostra una delle più laceranti dissoluzioni familiari del cinema recente, raccontate attraverso uno stile chirurgico che accompagna la violenza quotidiana, quella che si vive in famiglia, con uno stile che non ha fretta e che centellina le emozioni con un’attenzione a rendere significativi dettagli che normalmente sarebbero marginali (una tenda bianca mossa dal vento sullo sfondo, una finestra fuori campo che fa entrare la luce illuminando i personaggi) facendo crescere e modificando non soltanto le situazioni nel loro crescendo drammatico, ma anche e soprattutto lo stile stesso con cui i fatti vengono narrati.

Le due metà del film sono infatti profondamente diverse: la prima, preparatoria nella costruzione dei personaggi e dei loro complessi caratteri, è costruita attraverso inquadrature lunghe e fisse di ambienti familiari che vengono dritte dal cinema di Ozu e scenari urbani degradati – mentre la seconda parte si "scioglie", non solo nel gusto dell’invenzione strutturale (la ricostruzione di un fatto da più punti di vista) ma anche in una macchina da presa che si fa più mobile, che riscopre i carrelli, la diversità della composizione. Come se il film, nel momento in cui il dramma si fa vivo, cominciasse davvero a vivere – come se i personaggi stessi vivessero per quel dramma – da cui, nel migliore dei sensi possibili, usciranno per sempre cambiati.

La sequenza finale, che chiude la questione del "realismo", appunto tra virgolette, con la scelta geniale di quella inquadratura fissa quasi surrealista e della "uscita di scena" dei personaggi, è tanto un inno di speranza quanto uno sguardo cinico e spietato su una società come quella nipponica. Se i film di Kurosawa si concludevano spesso con l’Apocalisse, qui si sente il peso della sua assenza. Quasi come se l’Apocalisse, da quelle parti, fosse più che attesa – fosse la benvenuta.

Tokyo!, Gondry-Carax-Bong 2008

Tokyo!
di Registi Vari, 2008

Il trittico in cui Bong Joon-ho, Michel Gondry e Leos Carax sono stati invitati a dirigere un mediometraggio ambientato nella capitale nipponica è stato uno degli eventi di Cannes 2008, più di un anno fa – e poi è finito un po’ nel dimenticatoio, nell’attesa (vana!) che uscisse nelle sale anche da noi. Ma è uscito in DVD per Regione 2. Procuratevelo, ne vale davvero la pena.

Interior Design di Michel Gondry
Una squattrinata giovane coppia arriva nella capitale: lui gira film sperimentali, lei nel frattempo va alla frustrante ricerca di un appartamento. Strano e imprevedibile come è sempre Gondry, questo tenero, malinconico e spassoso piccolo film parte da un’osservazione meticolosa e ravvicinata dei disequilibri di una coppia, in cui il fulcro è un lento e lunghissimo carrello all’indietro in cui i due litigano e si riappacificano, e arriva a una bizzarria mutante, quasi kafkiana ma profondamente gondryana – in ogni caso, sempre con il sorriso sulle labbra, con la sua inimitabile leggerezza, e un amore per il cinema che non ha quasi eguali. Stupefacente la fotografia di Masami Inomoto.
 
Merde
di Leos Carax
Le fogne di Tokyo nascondono un "uomo" misterioso e mostruoso: quando viene arrestato per un inspiegato e anarchico massacro a colpi di bombe a mano, verrà difeso da un avvocato francese che gli somiglia e che parla la sua lingua. Forse il meno convincente, punta direttamente alla pancia ed è caratterizzato da una ricerca insistita e insidiosa del fastidio perturbante: ma solo perché siamo in un campionato di soli fuoriclasse. In realtà la metafora misantropa, terrificante e perforante di Carax coglie nel segno. Forse un po’ tirato per le lunghe, ma coerente fino all’assurdo.

Shaking Tokyo di Bong Joon-ho
Come previsto, il gioiello più prezioso del trittico. Uno dei migliori registi sudcoreani parte in modo quasi cronachistico dallo spunto attualissimo degli hikikomori (i giapponesi che si chiudono in casa per mesi perdendo ogni contatto con la realtà) e dall’ossessione nipponica per le scosse telluriche per costruirci poi sopra una specie di favola romantica post-apocalittica ricca di rimandi fantascientifici e persino accenni horror (come l’immagine inquietante e terribile del volto dietro il vetro opaco) in cui l’amore improvviso è la spinta definitiva e unica verso la libertà – un film sull’indeterminato coraggio della libertà da sé stessi, curatissimo in ogni dettaglio, visivamente sconvolgente. Un piccolo capolavoro.

Far East Film Festival 11 – Udine 2009

[Far East Film Festival 11]

Dunque, sì, sono stato a Udine gli ultimi due giorni e mezzo, ho visto (solo) 10 film dei quali tra l’altro 2 erano re-visioni, ho scritto a riguardo alcuni brevi e raffazzonati commenti su Twitter, e a questo punto, evitando considerazioni generali su un festival che è comunque, dio lo benedica, il migliore a cui partecipare nel nostro paese senza lasciarci lo stipendio di due mesi e/o buona parte del proprio equilibrio psicofisico, è il caso di fare un breve riepilogo sui film visti.

Cina

Probabilmente, la cosa più bella che mi sia capitata in questo FEFF è Cao Baoping. Il suo Trouble makers, la cui proiezione udinese era stata bloccata qualche anno fa, è una commedia incredibilmente feroce sulla corruzione della provincia, che, viste le strettissime maglie, mi stupisce sia riuscita finalmente ad arrivare a noi. Meno male, comunque: nonostante fosse l’ultimo film della rassegna (leggi: stanchezza micidiale) è un film che mi sarebbe dispiaciuto perdere, e che spero che prima o poi, mettiamola così, "si renda recuperabile".

Ma non solo: il nuovo film di Cao si intitola The equation of love and death ed più che un bel film, e molto più che "un film che non sembra cinese": è il segnale di una vitalità e di uno stile originale che in Cina non si vedeva da anni. Un film assolutamente nuovo, teso e coinvolgente eppure semplicissimo, e con una stupenda Xun Zhou.

Invece The story of the closetool di Xu Buming è un film molto più riconoscibile: quello che colpisce è la bizzarria della sua trama (il rapporto quasi ossessivo-amoroso tra una ragazza e il gabinetto che si fa costruire nel cortile) che nasconde una riflessione molto trasparente sul progresso impossibile nella Cina di oggi.



Giappone

L’Audience Award se l’è portato a casa, come da copione, il giapponese Departures. Che però non ho visto. Ho visto invece Love exposure di Sion Sono, che era con tutta probabilità il film migliore del festival: l’unico a cui ho mollato un cinque nel famoso "cartoncino" con cui si vota a Udine, l’unico con cui oserei usare la Parolona Che Inizia Con La Ci. Ovviamente, non è per tutti: stateci voi quasi quattro ore a farvi bersagliare da un film che inizia come un romanzo di formazione di un giovane diviso tra daddy issues e crisi mistiche per poi diventare una commedia demenziale perversa, una love story commovente, un pamphlet satirico surrealista, e un sacco ma un sacco di di altre cose. Io ci sono stato, e ne è valsa la pena: stupendo.

Anche se tutti erano lì per Yatterman di Takashi Miike, che immagino sia l’unico film per cui state leggendo questo post. Volete sapere com’è? Molto dipende da quello che vi aspettate. Più o meno. Volete una versione fedelissima dell’anime originale? Lo è, ripetizioni comprese. Volete un film profondamente miikiano? Lo è, perversioni comprese. A me, non essendo io un grande fan dell’originale, di questo film decisamente squilibrato e non del tutto riuscito, è piaciuto più quest’ultimo aspetto: Miike riesce a tirare fuori il suo stile (avete presente quei momenti in cui tutto ma proprio tutto si ferma e anche le situazioni più triviali e deficienti diventano come per magia profonde e commoventi?) e le sue ossessioni (per esempio una specie di pazzesca versione cartoonesca del finale di Gozu, ma basterebbe il look di Kyôko Fukada, AKA Lady Doronjo) e la sua capacità visionaria (il film è molto molto bello da vedere, per chi se lo chiedesse, quasi di più nelle parti statiche che in quelle d’azione) persino in un film così, che è progettualmente – e irresistibilmente – fatto di plastica.

Il terzo film giapponese visto è stato Climber’s High, da cui però sono fuggito dopo una quarantina di minuti perché mi faceva schifo, e – nonostante qualcuno del FEFF mi abbia sgridato – da più parti mi han detto che non mi son perso niente.

Corea del Sud e Honk Kong

Due i film che sono andato a rivedere nonostante avessi già dato: l’occasione dello schermone del Teatro Nuovo non è una cosa a cui si rinuncia facilmente. Uno è l’hongkonghese Ip Man, incredibile biopic di arti marziali di Wilson Yip – che in sala guadagna persino punti mostrando tutta la sua potenza e il suo fascino – e l’altro è il sudcoreano The good the bad the weird di Kim Ji-woon, che nonostante non abbia spezzato il cuore del pubblico di Udine continuo a trovare un gran bell’esempio di cinema di intrattenimento dalla produzione eccellente (oltre al fatto che, lo ripeto, c’è poca gente che sa girare come Kim) con un occhio ben aperto al mercato. Non è stupido e inconsistente come sembra, e come molti dicono.

Sempre dalla Corea del Sud arrivava la commedia Scandal makers, opera prima di Kang Hyoung-chul che ha fatto un macello al botteghino in patria, e che effettivamente contiene un sacco di cose che piacciono al pubblico coreano: bimbi che fanno le facce buffe, adulti che fanno le facce buffe, storie che starebbero benissimo in un qualunque film con Hugh Grant senza dover cambiare una virgola. Il film ha fatto impazzire anche il pubblico del FEFF, arrivando secondo. Tutto ciò la dice lunga sullo stato in cui versa la commedia sudcoreana, ma devo ammettere che il film fa molto ridere – e a un certo punto, diventa un po’ l’unica cosa di cui ci interessa. Quindi, bando ai passatismi, va bene così.

Deludente invece The accidental gangster, che prova un po’ tutte le strade più modaiole del cinema di Seoul: il film in costume misto con la commedia demenziale-cartoon che nella seconda parte, senza alcuna transizione, diventa una specie di serissimo e pallosissimo melò con le arti marziali – e un duello finale che è tra le cose più yeeuch che io abbia visto fare in un film coreano. Siamo seri, suvvia.

The Machine Girl, Noboro Iguchi 2008

The Machine Girl (Kataude mashin gâru)
di Noboro Iguchi, 2008

La giovane Ami, rimasta orfana e con un fratello a carico, cerca di proteggere quest’ultimo dalle angherie di una banda capitanata dal violento figlio di una coppia di spietati yakuza: come risultato, il ragazzino viene ammazzato, e alla protagonista – che riesce a salvarsi – viene amputato il braccio. Ma nonostante l’aggraziata divisa da liceale, Ami non è certo un’adolescente qualunque: e grazie all’aiuto dei genitori di un amico del fratello, anch’egli ucciso dai criminali, che le costruiscono ad hoc un degno sostituto per il braccio perduto, darà luogo a una sanguinosa e "demoniaca" vendetta.

Una storia di vendetta come se ne sono sentite molte altre, quindi. Ma nelle mani di Noboro Iguchi, anche sceneggiatore, che ha il talento di non prendersi sul serio per più di 3 minuti alla volta, The machine girl diventa qualcosa di più, un divertentissimo florilegio di smembramenti, sgozzamenti, sbudellamenti, armi tradizionali, arti marziali, decapitazioni: roba da far impallidire la maggior parte degli horror contemporanei, con uno spiccato gusto del "rilancio", ma con una leggerezza, un’ironia e un ritmo perfetto, che lo rendono stranamente fresco e digeribile, e con un tono che tra disimpegno e citazionismo (ad essere omaggiato in modo più diretto è il primo Sam Raimi) a volte (la scena del tempura, a cui ancora non voglio credere) si spinge oltre i limiti del demenziale.

A decine le scene degne di una citazione: dai genitori dei ragazzini cattivi morti che combattono i protagonisti vestiti come giocatori di rugby con le foto funerarie dei figli sull’armatura (e presentandosi come "Super mourners squad"), alla spietata madre del cattivo che indossa un "reggiseno a trapano", al tizio che viene torturato – letteralmente – "inchiodandolo": ma con l’antologia di ammazzamenti si potrebbero riempire diversi pomeriggi. Ma c’è anche una cura produttiva che è una spanna sopra la categoria low-budget a cui il film decisamente appartiene (insomma, si vede che è costato due soldi, ma son stati spesi con intelligenza) e per la spettacolare protagonista, la prodigiosa Minase Yashiro, non possiamo che sperare in un altrettanto prodigioso futuro.

In definitiva, un live action manga spassoso e inarrestabile, un lago di sangue di un’ora e mezza che non può non conquistare, sempre a costo di avere lo stomaco pronto e un senso dell’umorismo bizzarro e – non guasta mai – un po’ caciarone.

Il film uscirà in Giappone la prossima estate: nel frattempo, negli States è uscito invece direttamente in DVD, e ve lo potete già accattare.

Crows Zero, Takashi Miike 2007

Crows Zero (Kurôzu zero)
di Takashi Miike, 2007

Nell’enorme indistinta massa di film da lui diretti, ogni tanto Miike infila anche qualche bomba sfasciabotteghini: è il caso di questo film, che in patria ha fatto sfaceli: in senso relativo – ottavo tra i titoli locali, ventiduesimo tra tutti i film del 2007 – ma si parla di cifre davvero alte, soprattutto se rapportate alla sua filmografia. Si tratta in ogni caso del suo film di maggior successo commerciale ad oggi, e ha incassato – come riferisce Mark Schilling – quanto i suoi primi 50 film messi insieme.

Dopotutto, va a toccare nervi scoperti nell’ampio e alquanto bizzarro target adolescenziale nipponico a cui è rivolto: è tratto infatti da un popolare manga di Hiroshi Takahashi, e racconta di un liceo in cui la tipica competitività della scuola giapponese è portata al punto che le sezioni sono letteralmente in guerra tra di loro – mentre da noi nel frattempo ancora si macinano gli epigoni di 3MSC. Tra battaglie e pestaggi a ritmo di un rock che nessun sano di mente ascolterebbe davvero dalle nostre parti (a cominciare dagli Street Beats che appaiono sui bellissimi titoli di testa), e che fa il paio con il look postdark e postpunk dei suoi personaggi, Crows Zero è l’ennesimo esempio di come Miike riesca ad applicare alla perfezione la sua eclettica personalità a modelli di cinema più massificati.

Se ne sta quindi un po’ in disparte, infilando qualche perla miikiana qui e là (la sequenza grottesca del motorino, quella davvero surreale del bowling umano, qualche jump cut dei suoi, i molti improvvisi momenti intimisti, e via dicendo), lesinando violenze eccessive (nonostante le botte è tra i film meno "crudi" di Miike), dando al pubblico esattamente quello che si aspetta e concentrandosi il più possibile su un intrattenimento abbastanza "generico", ma assolutamente garantito. Tolto l’inizio davvero esplosivo (titoli, presentazione dei personaggi, prime risse), non ci si deve aspettare nulla di più che uno scheletro pretestuale e davvero esiguo – il rapporto tra i personaggi è basato più su impulsi nervosi che su moventi narrativo, figuriamoci quindi la psicologia e la sceneggiatura – sopra il quale l’azione convulsa, stilizzata e grafica, e spesso davvero spettacolare, si appoggia come una veste leggera.

Ma Miike, come sempre, c’è anche quando non sembra, tanto più su "materie" (il manga da una parte, i giovani violenti dall’altra) che conosce e sa gestire così bene: e infatti il film, relativamente alle leggi del mainstream a cui deve sottostare, è davvero una bella sorpresa – anche se a volte non ti ricordi che c’è Miike, dietro la macchina. Ma nell’interminabile duello finale tra i due fichissimi protagonisti Genji e Serizawa, sotto quel cielo piovoso, acceso, iperrealista, ah, lì te lo ricordi eccome.

Il film è disponibile da metà aprile in DVD. Essendo un’edizione giapponese, ha il vantaggio di condividere con noi la regione, ma lo svantaggio di costare uno sfracello. 25 euro per l’edizione standard, quasi 40 euro per l’edizione premium. E nessuna delle due ha i sottotitoli in inglese, per i quali bisogna aspettare un’eventuale release occidentale. Fate voi.

Big bang love, Juvenile A (46-okunen no koi)
di Takashi Miike, 2006

La cosa bella di un regista eclettico come Miike è che ognuno è libero di scegliersi il proprio Miike: quello furioso ed estremo di Izo, quello giocoso e irrefrenabile di Yokai Daisenso, oppure quello più intimista e cauto di film come Big bang love. E l’altra cosa bella è che nella maggior parte dei casi ci troviamo di fronte a un cinema fiammeggiante, stimolante, sperimentale.

Questo film, pur essendo una sorta di detection che prende vita da una storia d’amore e di interdipendenza nata dietro le sbarre di un carcere, prende grandi distanze sia dal film carcerario che dall’investigazione, utilizzando i generi – il detective, la scazzottata – per sostenerne l’essenza narrativa, ma basando l’intero film su un linguaggio assolutamente differente. Big bang love è costruito infatti su una totale abnegazione all’astratto, con scenografie teatrali in cui è negato qualunque tipo di orpello (sfondi, e a volte interni, compresi) e una fotografia contrastata (di Masahito Kaneko) in cui gli abiti, spesso divise, dei personaggi sembrano sembrano davvero galleggiare nel buio – e la loro inconsistenza quasi fantasmatica è rivelata dalla capacità della luce, letteralmente, di penetrari.

Visivamente contiene alcune tra le cose più stupefacenti girate dal regista giapponese, ma Big bang love è anche un film arduo, da affrontare con cautela. Lontano dalle sue opere più celebri, e forse più ammiccanti, possiede anche un’ardita deriva simbolista, abbastanza scioccante anche se assai affascinante. Ma come quasi tutti i film di Miike, alla fine ti lascia a bocca aperta, con il desiderio di averne ancora. Da recuperare.


Non sarà difficile recuperarlo: il film è uscito in Italia in DVD già da qualche tempo, in giapponese sottotitolato, nell’ottima collana Queer curata da Dolmen, e lo si trova un po’ ovunque a pochi euro.

Il titolo originale significa, circa, Un amore lungo 4.600 milioni di anni. Anno più, anno meno.

Like a dragon, Takashi MiikeLike a dragon (Ryû ga gotoku: gekijô-ban)
di Takashi Miike, 2007

E’ una fortuna che, nonostante la ormai consolidata notorietà internazionale, Takashi Miike continui a fare tutti questi film – ben quattro nel corso del 2007 – primo, perché ne abbiamo sempre qualcuno da guardare; secondo, perché, come lui nei suoi film fa sempre e comunque quel cavolo che gli pare, così permette a noi di scriverne quel che ci pare. E anche se è diverso tempo che non ne vediamo uno davvero degno dei suoi titoli migliori, allo stesso tempo è difficile che gli vengano male. Come faccia, rimane un mistero.

Per esempio, Like a dragon è tratto da un celebre videogioco della Sega (dal titolo esplicito: Yakuza), che non è certamente un punto a favore del progetto, visti i precedenti. Ma il videogioco aveva già in sé una marca autoriale (era scritto da Seishu Hase, prolifico romanziere noir nipponico e sceneggiatore di The City of lost souls, ed era costruito sulle stesse basi degli yakuza eiga miikiani) e in mano a Miike diventa un altro tassello del suo cinema furibondo, fiammeggiante, tenero e folle, un altro racconto sull’incontro impossibile con la morte e sulla perdita dell’innocenza. Che forse si perde un po’ nella tentazione del racconto corale – affastellando per amor di scrittura un tot di poco utili personaggi secondari – ma che nella sua progressione centrale (quella dello scontro tra Kiryu e Majima) è assolutamente riuscito.

Comunque la si veda, è difficile negare che l’approccio di Miike al videogame sia ancora sorprendente: Like a dragon, fratellino minore dell’enorme Dead or alive, mescola la rappresentazione dettagliata dell’ambiente urbano (qui minato da un innalzamento della temperatura che influisce sull’autocontrollo degli individui) a situazioni tipicamente "videoludiche" (e senza troppe remore: boccette che rinvigoriscono, auree di energia, colpi potenziati), una caratterizzazione dei personaggi che si rifà anche alla tradizione dei cartoon e degli anime (il Majima di Goro Kishitani è un memorabile villain immortale con mazza da baseball, benda da pirata e giacca leopardo) alle solite repentine svolte miikiane, intime e/o melodrammatiche, che in mano a chiunque risulterebbero fuori contesto, mentre il regista di Osaka riesce a renderle (come nel finale, dopo una catarsi letteralmente esplosiva) persino struggenti.

E se anche le variazioni improvvise di tono, ritmo e registro non vi dicono niente, o persino se vi annoiano, Like a dragon è anche solo – avercene! – un divertimento ineccepibile, bellissimo a vedersi e formalmente "irrispettoso" (il solito uso furioso dei jump cut e di ralenti e accelerazioni), forse narrativamente un po’ involuto e meno "duro" dei suoi film di yakuza più famosi, ma ugualmente onesto e, alla fine, un altro film di Takashi Miike di fronte a cui è difficile – o impossibile – rimanere indifferenti.

Sukiyaki Western Django, Takashi Miike 2007

Sukiyaki Western Django
di Takashi Miike, 2007

In un villaggio western post-apocalittico, in realtà senza tempo, e apparentemente abbandonato, si scontrano senza sosta e da tempo, sullo sfondo di storie d’amore fratricide e drammi shakesperiani, la banda dei bianchi e quella dei rossi – ispirate ai clan che si affrontarono nel medioevo giapponese nella Guerra Genpei del XII secolo. L’avvento di un cavaliere solitario e il ritorno di una guerriera leggendaria ne faranno collassare gli equilibri.

Come già si è intuito dai commenti del post in attesa, pare che ad affrontare una strenua difesa di Sukiyaki Western Django, uno dei tre film di Takashi Miike usciti nel 2007, si vada incontro a un vero e proprio muro di gomma: e sto parlando di chi effettivamente l’ha visto. Ma anche a raccontarlo a chi vorrebbe vederlo o ne è incuriosito, non va molto meglio: un western che nell’ottica di un “ritorno a casa” circolare, rimescola Sergio Corbucci e Akira Kurosawa, Sergio Leone e la Nikkatsu, per di più con un cast quasi interamente giapponese che recita un improbabile e biascicatissimo inglese?

Eppure, com’è che io mi sono divertito come un pazzo? Probabilmente mi sto rincitrullendo, o forse sono solo passato sopra ai suoi evidentissimi e macroscopici difetti, alla recitazione canina (intendiamoci: se molti attori forse non sanno nemmeno cosa diavolo stanno dicendo, di sicuro noi non capiamo cosa diavolo stanno dicendo), al fatto che ci siano dei continui cali di ritmo e interesse, che in alcune parti diventi una palese e ricercata cretinata, buona giusto per ragazzini invasati e nostalgici del cinema di serie B: ma è di Takashi Miike che stiamo parlando, il film è un’opera tanto sconclusionata quanto anarchica e vitale, non è nemmeno il film modaiolo (fuori tempo massimo) che avrebbe potuto diventare, e una volta posto che non siamo di fronte a uno dei suoi capolavori, da Takashi Miike io voglio solo farmi sorprendere. E se Sukiyaki Western Django mi ha sorpreso così, tanto basta.

Anche solo (ma non solo!) per l’aspetto puramente plastico: grazie all’apporto del direttore della fotografia Toyomichi Kurita, il film è uno dei più visivamente spettacolari del prolifico regista nipponico, anche se in un senso molto più “ordinario” del solito: la mobilità della macchina da presa e la composizione dell’inquadratura (che riprendono spesso stilemi del western italico, come nelle sghembe o nell’uso dello zoom) lasciano senza fiato, e Miike e Kurita riescono a costruire sequenze magnifiche e folgoranti come la danza improvvisa e interminabile della bellissima Yoshino Kimura (impegnata poi anche in una memorabile fellatio fuoricampo). E poi i tocchi miikiani, che ci stanno sempre: l’insistenza su quelle rose di speranza lasciate crescere tra la sabbia, un bazooka cartoon nascosto in un antico baule, trovate grottesche come quelle del “test” dei samurai, un flashback veloce e silenzioso piantato qui e là.

Davvero molto bello – e immagino anche gradito ai più – l’incipit stilizzatissimo con il sempre più bolso Quentin Tarantino (che rivedremo ridicolmente invecchiato nella seconda parte) che nei pochi minuti iniziali aiuta a dare una chiave di lettura abbastanza chiara: non prendete alla lettera, né troppo seriamente, quello che vedrete. Divertitevi e basta.

Tekkonkinkreet – Soli contro tutti (Tekkon Kinkreet) (Tekon kinkurîto)
di Michael Arias, 2006

Prima di tutto, risolviamo le due stranezze presenti qui sopra. La prima è il titolo italiano: il film infatti, vista la presentazione-evento al Future Film Festival, è uscito per l’home-video anche da noi: si trova già a noleggio e sarà in vendita dal 12 Febbraio, e prestissimo anche in formato blu-ray, piacevole eccezione a un mercato, quello della distribuzione di titoli nipponici anche chiacchieratissimi come questo, assai lento e distratto. La seconda è il nome del regista, che effettivamente non è giapponese: Michael Arias è un quarantenne californiano, anche dal look piuttosto tamarro, che vive e lavora in Giappone da molti anni, dove tra le altre cose ha sviluppato il software per le ombreggiature che viene usato da Miyazaki da Mononoke in poi. Per dire.

Passate queste curiose inezie che potevate pure leggervi da soli su Wikipedia, mettiamo subito in pace il cuore di Andrea: Tekkon kinkreet è uno straordinario pezzo d’animazione nipponica, trascinante e avventuroso: ma soprattutto visivamente impagabile. Se vogliamo proprio andare a cercare il pelo nell’uovo, ha una struttura un po’ involuta e prevedibile, basata su un’opposizione/sintesi reiterata allo sfinimento -  quella tra bianco e nero, insomma, la classica solfa del taijitu in cui bene e male si compendiano. Ma nulla che pregiudichi il divertimento e lo stupore di fronte alle corse, ai salti, ai veri e propri voli dei due amici Shiro ("bianco") e Kuro ("nero"), due orfani di strada che proteggeranno la "loro" città dagli yakuza e dagli assassini, e che sapranno trovare insieme, con l’amicizia, una loro strada per sfuggire al loro destino segnato. Che tenerezza?

Eh no, altro che tenerezza: prima di tutto perché Tekkon kinkreet è tratto da un seinen manga, e seinen rimane anche sullo schermo: sia nel linguaggio che nella rappresentazione della violenza, che non manca, anche ai danni dei due giovanissimi protagonisti. Che sanno difendersi, ma le prendono pure, e di santa ragione. Ma anche perché intorno a Shiro e Kuro viene costruito, ed è uno dei maggiori pregi del film, uno stuolo di bei personaggi, nessuno dei quali prevedibile o macchiettistico, dal poliziotto frigido a esseri crudeli come il "serpente" e i suoi temibili ed enormi scagnozzi, e tutti questi caratteri secondari arricchiscono moltissimo il film, dando una profondità maggiore al dualismo che regge il film, e tenendolo in piedi per tutta la sua durata.

E il rischio di svaccare per via della lunghezza c’era: tanto che a un certo punto il film prende una piega completamente diversa dall’ora e mezza precedente, una svolta peraltro rischiosissima: da robusto – per quanto coloratissimo ed eclettico – racconto di strada, Tekkon kinkreet diventa nell’ultima parte un deliberato delirio visivo, per ragioni legate allo sviluppo della trama (e che non sto a raccontare) ma con impressionante – e slegata dal contesto, in un certo modo – libertà visiva. Ed è lì che Arias e soprattutto lo Studio 4*C tirano fuori davvero gli artigli: perché con una roba così volutamente surrealista, il pacchiano è una tentazione fortissima.

E invece il risultato di questa interminabile sequenza è un autentico spettacolo per gli occhi, un viaggio cupo e psicotico il cui turbamento viene reso ancora più inquietante da parole minacciose. Quelle che accompagnano la sconfitta, ma insieme l’accettazione definitiva e necessaria del proprio lato oscuro.

Strawberry shortcakes
di Hitoshi Yazaki, 2006

Quando si cerca di stare dietro a certe cinematografie, è bene avere dei punti certi a cui appoggiarsi nel momento del bisogno. Nella maggior parte dei casi si trovano facilmente, a volte meno. Nel caso del Giappone, uno dei perni saldi è da tempo Midnight eye, webzine specializzata sull’argomento e capitanata dai bravissimi thirtysomethings Tom Mes e Jasper Sharp. Ed entrambi, nell’abituale recap del meglio (e del peggio) del 2007, hanno indicato Strawberry shortcakes come miglior film dell’anno. Ci sarà una ragione.

Effettivamente il film di Yakazi è molto bello, anche se non propriamente diretto e immediato come potrebbe sembrare dalla trama, adattata da un josei manga di Kiriko Nananan: vengono raccontate le alterne vicende sentimental-sessuali di due coppie di amiche single a Tokyo. Da una parte, una bellissima escort ossessionata dalla morte (dorme in una bara) e innamorata del suo migliore amico, e la sua amica, centralinista dell’agenzia, che sfugge alle vessazioni della realtà (è stata appena scaricata, si sente piccola e brutta, viene molestata dal suo capo) pregando una piccola pietra in cui dice di vedere il volto di dio. Dall’altra parte, una pittrice bulimica in crisi creativa e la sua coinquilina, una bella impiegata che insegue soltanto il sogno di realizzarsi come moglie.

Ma le quattro storie sono raccontate con toni inediti ed estremamente intimi, Yazaki si allontana da tendenze modaiole, facili retoriche di ordine sociale o ideologico, intenti pruriginosi che verrebbero quasi naturali, scegliendo di tematizzare il nocciolo della questione nel modo più chiaro ed esplicito possibile (ricorrendo anche a metafore, lievi simbolismi, oppure giochi di parole o vere e proprie "etichette") e di prendersi poi tutto il tempo necessario per lasciare che i personaggi si rivelino e si descrivano da sé, osando molto (soprattutto nel doloroso personaggio di Toko, ma anche nella rappresentazione dell’atto sessuale) nel cercare di decifrare il cammino delle quattro donne verso una sorta di autoconsapevolezza. Aiutato dall’intelligente struttura duale ma non "episodica" – e riunita da un finale fuoricampo davvero strabiliante -, da un’ironia delicatissima e sempre ben contenuta tra le righe, e dalla bravura straordinaria delle quattro attrici, tutti volti relativamente nuovi del cinema nipponico.

In definitiva, nonostante qualche perdonabile impaccio di ordine ritmico, un film coraggioso e stimolante sull’incrollabile speranza dell’animo e sull’accettazione di sé a prescindere dal trascendente.

Per acquistarlo? Su Yesasia, l’edizione coreana costa 23 euro.
L’edizione giapponese c’è, ma come al solito costa di più.

Millennium actress (Sennen joyû)
di Satoshi Kon, 2001

Ultimamente invece di parlare di film sollevo troppe questioni di principio. Meglio che discernere metaracconti, diranno i miei piccoli amici. Per quanto riguarda questo film, mi limiterò a questo paragrafo, e dirò: una persona che non ha mai visto Millennium actress ha il diritto di parlare o scrivere di Tokyo Godfathers e/o Paprika? Perché, sapete, io l’ho fatto. Lasciamola lì, che rimanga una domanda retorica, nascosta nella sabbia insieme alla mia testa.

D’altra parte, ehm, che cosa si può scrivere ancora sul capolavoro di Satoshi Kon? Millennium actress va ben oltre la concezione di "cinema d’animazione per adulti", in voga ormai da molti anni, portandosi ai massimi livelli del cinema giapponese di questo decennio. Il ritratto intrecciato e struggente di una donna segnata da un destino crudele e nefasto, di un amore senza confini che la terrà in piedi, e del cinema che le permetterà di diventare millenaria, o forse immortale, grazie alla potenza del racconto e alla magia della macchina da presa.

Un film che tra l’altro non è solo un omaggio appassionato a un’intera cinematografia, o al cinema in senso più ampio, per come attraversa con diligenza e affetto i suoi sviluppi (in primis, i generi cinematografici), ma anche alla cinefilia stessa: al personaggio di Tachibana è concesso il raro, anzi unico privilegio di entrare letteralmente a far parte del mondo che aveva sempre sognato e da cui, per l’ingenuità del suo sguardo o forse per troppo amore, era stato messo in disparte. E questo grazie ad artifici metacinematografici tra i più complessi mai visti, che però, per una sorta di alchimia che ha davvero del magico, non risultano mai cerebrali o forzati, ma che si inseriscono con prepotente naturalezza nel racconto rendendosi subito indispensabili al suo svolgimento.

In definitiva, un film che merita la sua enorme fama, e di fronte alla cui geniale mistura di brillante e intelligenza ed enorme (e inevitabile) commozione, la maggior parte del cinema d’animazione, non solo nipponico, dovrebbe chinare la testa. Meglio tardi che mai: da oggi in poi, se vi volete bene, consideratelo pure un obbligo.

Non esiste un’edizione italiana, ahinoi: probabilmente non ce la meritiamo. Quella sottotitolata che circola sul p2p è comunque davvero curatissima e ben confezionata. Se volete acquistare il film, su Play.com è temporaneamente out of stock, ma appena torna ve lo tirano dietro.

Glory to the filmmaker! (Kantoku – Banzai!)
di Takeshi Kitano, 2007

L’allucinante trailer che girava da tempo, e soprattutto le voci da Venezia, dove è stato presentato quest’anno, con esiti piuttosto deludenti, lo davano per certo: chi aveva pensato che la deriva "folle" di Takeshis’ (che nel nostro paese idiota è uscito solo in DVD, qualche mese fa) sarebbe stato un momento di transizione, passaggio autoriflessivo obbligato e peraltro tipico nella carriera di molti grandi Autori, si sbagliava di grosso. Da queste parti, nessuna delusione, perché si trattava di un grande film, in cui Kitano faceva i conti (e a pugni) con la sua carriera, con il caos, con il cinema, irridendo se stesso e la cognizione di sé da parte di critica, fan e pubblico pagante.

Ma se questo film procede indubbiamente nella stessa direzione del precedente, in questo caso ci si avvicina più al delirio incontrollato e parodico di Getting any? che non alla sofisticata sperimentazione di Takeshis’: GTTF è infatti a mio parere l’unico vero ritorno kitaniano al manzai da cui è spuntato: un delirio organizzato metacinematografico e – stavolta davvero – autenticamente demenziale. Basti dire che il protagonista della vicenda principale, interpretato da Kitano stesso, è affiancato per tutto il film da un bambolotto a grandezza naturale con cui vive una dualità paradossale: condividono a volte l’inquadratura mostrandosi come due entità differenti, ma sono indubbiamente la stessa. Oltre a questo, le qualità superumane del secondo vengono puntualmente utilizzate dal personaggio per uscire da situazioni difficili, trasformandosi nel suo inespressivo e stilizzato simulacro.

Vale la pena di spendere due parole sulla struttura narrativa, se così si può dire, del film: da principio, una voce fuori campo racconta del tentativo di Kitano stesso di sfuggire dalla sua mancanza di ispirazione e (proprio come nel film del 2005) dalla sua incapacità di girare un altro film di gangster. Tutta la prima metà, meravigliosamente naif e indescrivibilmente spassosa, è quindi una sequela di incipit di film iniziati e mai portati a termine, la cui brillantezza è data soprattutto dalla metodologia comica usata da Kitano. Che non parodizza in modo tradizionale i generi (tra cui un j-horror, una commedia romantica, un film di fantascienza, un chambara eiga, un incredibile finto-Ozu che fa rizzare i capelli sulla testa) ma fa sì che la ridicolaggine scaturisca autonomamente dalle forzature insite nei generi stessi, senza bisogno di sottolinearle.

La seconda parte è invece "la scelta" effettiva di Kitano, l’unico film che è possibile girare tra le varie opzioni, l’unico che è in grado di raccontare senza dover contraddire i suoi valori (e il suo blocco creativo) ed è – come si poteva prevedere – qualcosa di completamente avulso dagli schemi e dalle teorie dei generi, con personaggi che a volte vi si rifanno vagamente (con un occhio di riguardo, mai così esplicito in Kitano, agli anime, di cui vengono riprodotti letteralmente anche alcuni "luoghi comuni"), ma che vengono comunque assorbiti da una trama talmente assurda che ci sembra di averla sognata. Il suo scheletro, per dire, parla di una donna e sua figlia che irretiscono una guardia del corpo, credendolo un ricco erede, ma visto quello che vi gira intorno non varrebbe nemmeno la pena di citarlo.

Alla lunga però, e spiace davvero doverlo ammettere, la vicenda fa sentire una certa stanchezza. Non si può fare finta di niente, la mistura manca di freschezza: giusto perché è Kitano, ecco, possiamo perdonare idiozie come la parodia di Matrix. Ciò nonostante, ci si diverte come pazzi, se si è dell’umore giusto, e se si è disposti ad accettare che GTTF – questo sì – è un film di transizione, un divertissement arguto e piuttosto perfido, perfetto per fare impazzire i fan, incazzare i critici e lasciare con un palmo di naso quasi tutti gli altri.

Kitano riesce comunque a riempire di significato anche alle cose più triviali, ed è ancora un regista splendidamente lucido e coraggioso. Forse a questo punto siamo arrivati al limite di saturazione in cui rivorremmo solo l’immensa poesia di Hana-bi, ma questo ruolo di elclettico e ingenuotto creatore di mondi (e di allegro distruttore di mondi, nel finale catartico e apocalittico) gli calza che è una meraviglia. In fondo, GTTF è un film talmente spudorato e liberatorio che non riusciamo a non volergli bene. Un po’ di bene. Un poco.

Memories of Matsuko (Kiraware Matsuko no isshô)
di Tetsuya Nakashima, 2006

Provate a immaginare la formula narrativa melò declinata al femminile più tragica che vi possa venire in mente. Poi riempitelo di canzoni e canzonette, colori ipersaturi e fantasmagorie visive, cartoon e manga, uccellini disneyani e corvi della spazzatura, scarpette luccicanti e carceri ballerine. Memories of Matsuko è così: un film in cui in cui il dolore e la sua sublimazione vanno a braccetto, completandosi e annullandosi a vicenda, in un equilibrio, sulla carta, davvero difficilissimo da ottenere.

Ma il film funziona, e funziona che è una meraviglia. Non solo per l’innegabile bellezza delle canzoni: ad aiutare il film ci sono la compiutezza della struttura detection (alla Citizen Kane, per intenderci) e la gustosa rappresentazione naif del Giappone degli ultimi trent’anni, affrescati in modo completamente antistorico e antitemporale – ribaltando se vogliamo la tendenza di un’opera apparentemente non lontanissima come Always di Takashi Yamazaki. Ma soprattutto, c’è – principalmente durante i numeri musicali – un’incredibile consapevolezza, anche ironica, dei linguaggi di molto cinema "barocco" e non solo, con riferimenti che vanno dal melodramma classico americano (il lettering dei titoli in questo è più che esplicito) al cinema di Jean Pierre Jeunet, mescolando classicismo e avantpop in un turbinio di danze e colori che lascia senza fiato.

Bisognerebbe forse chiedersi quanto tanto splendore visivo (che conferma il talento eclettico dell’autore del(l’ir)resistibile Kamikaze girls, al suo quarto film) possa mettere da parte la discussione su una visione dell’universo femminile tendenzialmente conservatrice, magari non deprecabile di per sé (anche perché fa perfettamente il paio con molti dei riferimenti di cui sopra) ma sicuramente discutibile in seno ad una riflessione sul cinema nipponico degli ultimi anni. Come dice Tom Mes nella sua bella recensione (solitamente acuta, quanto trattenuta) su Midnight Eye, "c’è molto per cui godere in MOM, ma se fossi una spettatrice e avessi pagato 1800 yen per sentirmi dire che ho bisogno di trovare il mio posto in questo mondo, sarei fortemente arrabbiata".

Dal canto mio, non essendo io ancora una spettatrice, ho deciso – per la maggior parte del film – di tralasciare questi dubbi (risollevati poi a posteriori dal sovracitato pezzo di Mes), immergendomi più che altro nel ludibrio plastico della – spessissima – superficie del film, e nella profonda commozione che la storia di Matsuko – e l’interpretazione magistrale di Miki Nakatani, premiata un po’ ovunque – non può, e dico davvero, non può non suscitare. E sto parlando di lacrime vere. Vi invito a fare altrettanto, al più presto.

Pompini a vicenda
Ne hanno già parlato i bellissimi e bravissimi Hellbly, Murda, Rob.

Su Youtube, i titoli di coda

[FEFF8]
Always – Sunset On Third Street,

YAMAZAKI Takashi, 2005,
melodramma, European Premiere

La seconda proiezione di Always (in quanto secondo classificato all’Audience Award) mi ha permesso di recuperare il film di Yamazaki, che avevo dapprima evitato, pregiudizialmente, in quanto non pensavo che dal regista di Juvenile e Returner potesse uscire qualcosa di buono. Invece, raccontando le vicende di un "vicinato" di Tokio alla fine degli anni ’50, il quarantaduenne regista di Nagano coglie perfettamente nel segno. Facendo – cosa rara – un’operazione di puro recupero della tradizione del racconto popolare, accantonando i vezzi autoriali di molto cinema giapponese, e girando con uno stile vertiginoso e quasi liquido (Always è forse e paradossalmente il film meglio diretto di quest’edizione del FEFF), con la fotografia "vintage" ad aggiungere miele alla nostalgia. Viene da un manga, e si vede: ne risente la coesione narrativa (il film è quasi "episodico"), ma ne guadagna il cuore dei personaggi. Imperfetto, perché ingenuo, antistorico, ruffiano, sviolinante. Ma, non ci si può fare niente, tremendamente coinvolgente.