Hong Kong

Life Without Principle, Johnnie To 2011

Life Without Principle (Dyut meng gam)
di Johnnie To, 2011

Una delle cose che mi piacciono di più in Johnnie To è il suo essere del tutto riconoscibile anche quando gira film diversi dai suoi film più famosi, in particolare quei gangster movie che l’hanno reso uno degli autori più amati del cinema di Hong Kong e tra i quali ci sono alcuni dei massimi esempi del genere degli ultimi 15 anni. Life Without Principle è un film dalla struttura più complessa e intricata che fa incrociare con abilità e ironia tre storie sulla “crisi economica” apparentemente separate (un poliziotto restio ad aprire un mutuo per comprare una casa con la fidanzata, un malvivente di mezza tacca costretto a trovare soldi per pagare la cauzione al suo “fratello di sangue”, una giovane e frustrata impiegata di banca) e accomunate da due denominatori narrativi ben precisi: una sacca piena di denaro e il crollo della borsa, che diventa il pretesto e l’avvisaglia di un’inarrestabile decadenza morale, con i personaggi costretti a venir meno ai “princìpi” del titolo (etica, onestà, amicizia) pur di sopravvivere in un mondo allo sbando. Ma nonostante la gravità del tema, To racconta e mette in scena con una leggerezza che si avvicina più alla commedia che al noir – anche se di fronte al suo cinema non ha poi così senso la riduzione alle convenzioni: Life Without Principle è l’ennesimo esempio di un autore che si è impossessato dei generi e poi li ha superati, con una libertà assoluta e a volte persino straniante. Basti come esempio tutta la parte dedicata all’impiegata interpretata da Denise Ho: mezz’ora di film ambientata quasi unicamente in un minuscolo ufficio, una parte la cui apparente inconcludenza si rivela gradualmente necessaria sia per gli sviluppi della storia che per le tematiche del film. Che in definitiva si rivela cinico e allegramente disilluso come il mondo che ha dipinto e temporaneamente minacciato: l’ineluttabilità delle conseguenze delle nostre azioni per mano del fato o del karma non è che un ricordo del passato.

Il film, se ho ben capito, è nel listino 2012 di Fandango. Prima o poi uscirà?

L’edizione honhkonghese (regione 3) si trova su Yesasia.

A Simple Life, Ann Hui 2011

A Simple Life (Tao jie)
di Ann Hui, 2011

L’impressione è che i tempi siano cambiati, ma in verità non è ancora così semplice dalle nostre parti vedere i migliori film asiatici, tantomeno al cinema. Per fortuna esiste chi ne ha fatto una missione, come quelli di Tucker Film (per chi non lo sapesse, sono gli stessi che organizzano il Far East Film Festival di Udine) che da qualche tempo stanno cercando di distribuire in sala e in dvd alcuni titoli davvero interessanti oppure, in alcuni casi, indispensabili.

Rientra indubbiamente in quest’ultima categoria A Simple Life, che la regista 65enne Ann Hui ha presentato in concorso lo scorso anno a Venezia dove, tra le altre cose, la straordinaria protagonista Deannie Yip ha vinto la prestigiosa Coppa Volpi. Il film racconta il rapporto tra un produttore cinematografico e l’anziana domestica che ha lavorato per la sua famiglia per 60 anni, e che in seguito a un infarto è costretta a trasferirsi in una casa di riposo. Come suggerisce il titolo, A Simple Life è talmente “semplice” da rendere quasi impossibile spiegare cosa lo renda così speciale: un film di inusuale delicatezza e irresistibilmente perbene sul potere degli affetti, che affronta temi universali quanto rischiosi come la vecchiaia e la morte con un piglio sobrio, riflessivo ma sottilmente ironico, pudico ma indiscutibilmente ncommovente, che schiva ogni sentenza morale sul senso della vita lasciando semmai che il messaggio traspaia da tanti piccoli momenti di impalpabile onestà, e che sa rappresentare la dolce l’implacabilità del passare del tempo con una naturalezza narrativa impareggiabile.

Magari non l’avete notato, ma il film è uscito in sala in Italia. Andate a vederlo.

Detective Dee and the Mystery of the Phantom Flame, Tsui Hark 2010

Detective Dee and the Mystery of the Phantom Flame (Di Renjie)
di Tsui Hark, 2010

Tra le figure più importanti della new wave, Tsui Hark è stato un produttore leggendario e il regista di alcuni dei film più belli e importanti del cinema hongkonghese (A Better Tomorrow 3, Once upon a time in China e The Blade sono i must assoluti della sua ampia filmografia) ma anche il responsabile di una breve e spesso vituperata “fase americana” di cui Double Team rappresenta il punto più basso. Il suo ritorno a Hong Kong, più veloce di quello dell’ex sodale John Woo, ha dovuto senza dubbio tenere conto di questa caduta, ma anche della modifica radicale del sistema produttivo, dovuta tra le altre cose all’annessione e alla raggiunta notorietà globale dei suoi autori. In tal senso, l’episodio più felice del decennio scorso fu Seven Swords, non del tutto riuscito anche se robusto e interessante; ma Tsui con Detective Dee mette da parte molte delle ambizioni epico-storiche di quel film e si butta in un divertente pastiche che si rifà a una tradizione di puro intrattenimento, davvero radicata nel cuore più autentico del cinema di Hong Kong: una detective story in costume che mescola le coreografie spettacolari di Sammo Hung a toni da scanzonata commedia fantasy-horror vecchio stile, virando qualche volta in farsa ma senza mai sfociare nel ridicolo, con un uso sfacciato della CGI che non centra sempre il bersaglio ma che infastidisce meno del previsto. E se forse Detective Dee non è memorabile quanto il carisma dei suoi protagonisti avrebbe potuto far sperare (Andy Lau è sempre Andy Lau, Li Bingbing è splendida, il ritorno di Carina Lau è la ciliegina sulla torta), è davvero godibile, fresco e vitale: un buon segno – inaspettato – per la carriera del regista, e per estensione anche per il cinema dell’ex colonia.

L’edizione dvd cinese è priva di limiti regionali. In alternativa ci sono le edizioni R3 malese e hongkonghese, quest’ultima anche in blu-ray RegioneA: si trovano tutte facilmente su YesAsia.

Reign of Assassins, Su Chao-Bin e John Woo 2010

Reign of Assassins (Jianyu)
di
Su Chao-Bin e John Woo, 2010

È facile entusiasmarsi all’idea che John Woo abbia diretto finalmente un wuxiapian a quasi un quarto di secolo dalla rivoluzione neo-noir di A Better Tomorrow, soprattutto dopo Red Cliff, prima di cui si tendeva più che altro a dare per spacciata la carriera di uno dei più grandi e importanti registi dell’area cinese. In realtà la vicenda è andata in modo diverso: il film è effettivamente stato scritto e diretto dal taiwanese Su Chao-Bin, ma la consulenza del Maestro sul set è stata tale e talmente continuativa da convincere la produzione ad apporre anche il suo sigillo accanto a quello del regista. L’altra interpretazione è che la mossa sia stata effettuata per vendere meglio il film all’estero: e non c’è dubbio che abbia funzionato, visto la proiezione del film a Venezia e lo stesso incipit di questo post.

Se non sorprende che Woo si sia interessato a un film in cui le marce narrative sono ingranate da personaggi che si rifanno i connotati con tale leggerezza, rimandando immediatamente i fan ai fasti di Face-Off, tolta questa curiosa considerazione autoriflessiva (e magari l’uso delle dissolvenze incrociate, per i più nostalgici) Reign of Assassins è un wuxia davvero divertente e appassionante che riesce a vivere benissimo al di là del marchio apposto o della distinzione di meriti tra il veterano autore e l’allievo alla sua opera terza. Un film che riesce a unire con sapienza sequenze d’azione assolutamente spettacolari ed esaltanti (più per gli amanti del “cavo” che per quelli delle arti marziali “pesanti”) a un racconto che gioca molto sull’ironia e sul romanticismo ma senza buttarla mai nella farsa né sbracandosi nel melò, riuscendo grazie al carisma del cast a costruire anche dei personaggi credibili al di là dell’incredibilità del racconto – in particolare Turqoise, l’assassina ninfomane intepretata dalla stupenda Barbie Hsu, diventata immediatamente uno dei miei personaggi preferiti del cinema di quest’anno.

Da qualche parte se ne dice male, da altre parti si legge che Reign of Assassins sarebbe “il miglior wuxia dai tempi de La Tigre e il Dragone“. Il netto sospetto, ovviamente, è che chi lo scrive non abbia visto altri film di questo genere in questi 10 anni, e io stesso non credo di averne visti abbastanza per giungere a una conclusione così radicale, ma senza dubbio il film di Su e Woo è un’opera valida, che non aggiunge niente alla storia del genere (a parte il movente del villain, che si scopre verso la fine del film, che mi ha sorpreso molto, e che se ve lo raccontassi in due parole rischierebbe di passare per la cazzata del secolo) ma che si inserisce con dignità e con freschezza in uno dei filoni più leggendari del cinema cinese e hongkonghese, senza sfigurare.

Fate molta attenzione ai (bellissimi) titoli di testa animati: raccontano più di quanto non sembri.

L’edizione dvd hongkonghese del film è già in commercio: purtroppo è Regione 3, ma sono sicuro che siete perfettamente in grado di dezonare il vostro lettore.

Su Yesasia trovate anche il blu-ray Regione A.

Non mi risulta prevista un’uscita italiana. Chi sa, parli.

Dream Home / Love in a puff, Pang Ho-Cheung 2010

Per evitare di ripetere le stesse cose due volte, contravvengo per una volta all’abitudine di scrivere un post per ogni singolo film: in questo caso parliamo infatti di due film diretti dallo stesso regista hongkonghese, il bravissimo Pang Ho-Cheung, usciti nel medesimo anno. Ma che non potrebbero essere più diversi. Oppure no?

Dream Home (Wai dor lei ah yut ho)
di Pang Ho-Cheung, 2010

Una ragazza si introduce in uno stabile e fa una vera carneficina: prima ammazza il custode, poi entra in due appartamenti e uccide uno per uno gli inquilini e alcuni malcapitati. Nel frattempo, i flashback ci raccontano gradualmente la storia della protagonista, il suo rapporto con i genitori e con il lavoro, la sua ossessione per quella casa le cui finestre danno sul mare. La soluzione dell’enigma narrativo da un certo punto in poi è abbastanza chiara, ma non è quello che conta: Dream Home è uno degli slasher più duri e impressionanti degli ultimi anni, che ispirandosi ai classici del genere (giallo all’italiana incluso, complice la favolosa fotografia pop di Yu Lik-wai e la colonna sonora dell’italiano Gabriele Roberto) funziona perfettamente anche come operazione spiccatamente satirica sulla Hong Kong di oggi, iperbole violenta e sopra le righe che scopre i nervi di un’autentica crisi sociale ed economica apparentemente insanabile. Lungi quindi dall’essere una sequela di ammazzamenti fine a sé stessa, anzi – anche la cosa più divertente da raccontare di Dream Home, a parte la risoluzione finale, è senz’altro il gusto sadico con cui Pang mette in scena questi singoli omicidi, passando con facilità estrema dai dettagli più gore e spietati (l’incipit, la ragazza incinta) a contrappassi ironici ed enfatizzati (il fattone ucciso con il suo stesso bong) che alleggeriscono “a modo loro” un film di fronte al quale è sinceramente difficile tenere aperti gli occhi tutto il tempo. Alla larga i sensibiloni, quindi. Ma per tutti gli altri, è una bomba assoluta. Imperdibile.

Love in a puff (Chi ming yu chun giu)
di Pang Ho-Cheung, 2010

Dall’inizio del 2007 anche a Hong Kong è entrato in vigore il divieto di fumo nei luoghi pubblici, in modo molto simile a quanto successo due anni prima nel nostro paese – anche se apparentemente più rigoroso. Uno degli effetti più curiosi è stata la nascita di un nuovo tipo di aggregazione sociale nella città: piccoli gruppi di persone, spesso sconosciute e provenienti da diversi ambienti lavorativi, si ritrovano intorno a un posacenere per consumare cibo da asporto e l’agognata sigaretta in libertà. L’idea brillante di Pang (sarebbe un ottimo spunto anche per il nostro paese, se ci fosse un regista in grado di fare come l’hongkonghese e di non applicare etichette morali ai fumatori) è quella di far partire una storia d’amore proprio da questo pretesto narrativo: Cherie è una commessa di Sephora, Jimmy è qualche anno più giovane e lavora in un’agenzia pubblicitaria, si incontrano proprio durante una “pausa sigaretta”, e durante una lunga settimana prendono in mano le loro vite e le rivedono completamente alla luce di un amore improvviso, forse tardivo, inatteso e quasi impalpabile. Un film leggero e gradevolissimo, adorabilmente logorroico (i dialoghi sono tanti, molto onesti, divertentissimi) e interpretato stupendamente da Miriam Yeung e Shawn Yue. Sembra una cosa da poco, ma è un caso esemplare di commedia romantica, intelligente e moderna. No, non è una cosa da poco.

Con questi due film, usciti in patria a un paio di mesi di distanza l’uno dall’altro, Pang si riconferma come uno dei talenti più eclettici del cinema hongkonghese. Ma nonostante le ovvie diversità tra un horror sanguinario e un film sentimentale, non è una forzatura dire che le due opere hanno più di un punto di contatto: entrambe utilizzano le regole del gioco, in modo preciso e allo stesso tempo molto libero, per far affiorare una riflessione sulle contraddizioni della città in cui sono ambientate le sue storie, su come Hong Kong sia cambiata e continui a mutare a più di 10 anni dal cosiddetto “handover”. In tal senso, se i due film sembrano meno ambiziosi e “autoriali” di sue straordinarie opere precedenti come Exodus o Isabella, è proprio in questa commistione tra cinema di genere e analisi sociale che si trova la loro bellezza: due film indubbiamente riusciti (soprattutto l’incredibile Dream Home) ma che visti in coppia sono forse il risultato più felice di uno degli autori più interessanti, curiosi e vitali di tutto il cinema asiatico contemporaneo.

Entrambi i film sono disponibili su YesAsia in edizioni hongkonghesi: piuttosto economiche ma appartenenti alla Regione 3 dei dvd e alla Regione A dei blu-ray. In ogni caso, se non avete problemi con le zone: qui Dream Home e qui Love in a Puff in dvd, qui il primo e qui il secondo in blu-ray.

Ip man 2, Wilson Yip 2010

Ip Man 2 (Yip Man 2)
di Wilson Yip, 2010

Forse non dipende dalle capacità di Wilson Yip, il fatto che il pur validissimo Ip Man 2 non sia all’altezza del bellissimo film che l’ha preceduto. L’impressione è che l’inferiorità sia data dal contesto. Il sequel nasce infatti, a quanto pare, anche dalla voglia di raccontare ciò che accadde dopo la fuga del maestro Ip Man a Hong Kong – vale a dire: l’incontro con un giovane Bruce Lee, grazie a cui l’arte e la leggenda del Wing Chun si diffuse in tutto il mondo. Ma i diritti degli eredi si sono messi tra il dire e il fare, e così a Yip e al produttore Raymond Wong è rimasto da raccontare quel lasso di tempo che va dagli accadimenti del primo film all’incontro stesso. Qui sta il relativo problema: ciò che succede in questo periodo è assai meno intenso di quello che abbiamo visto in Ip Man. Da una parte c’è la guerra, i giapponesi cattivi, un’autentica lotta per la sopravvivenza; da questa parte il baricentro si sposta sulla questione coloniale, l’orgoglio culturale delle arti marziali cinesi, i britannici che incarnano i nuovi villain.

In ogni caso, non fatevi ingannare dal precedente paragrafo: nonostante un certo calo d’interesse, Ip Man 2 è davvero uno spettacolo di tutto rispetto. Vedere Donnie Yen in azione è sempre e comunque una pacchia senza uguali (al giorno d’oggi) e l’incontro-scontro tra il nostro e un Sammo Hung stupendamente invecchiato (che cura anche in questo caso le bellissime coreografie, concedendosi ben più di un cameo)  su un tavolino pericolante è imperdibile. La teatralità delle scenografie e la precisione della fotografia, insieme alle musiche trascinanti di Kenji Kawai, chiudono il cerchio.

Per quanto riguarda l’anelato incontro con Bruce Lee, la risposta arriva sui titoli di coda. Mi piace pensare che un giorno o l’altro ce la faremo, a portarla a casa.

Come per il film precedente, non è prevista un’uscita italiana. Cosa me lo chiedete a fare.

Nel 2010 è uscito anche un prequel diretto da Herman Yau.

Vengeance, Johnnie To 2009

Vengeance
di Johnnie To, 2009

Alzi la mani chi aveva rabbrividito all’idea che il regista di The Mission avrebbe girato un film recitato principalmente in inglese. Sinceramente, io no, ero tranquillo: Johnnie To è uno dei maestri indiscussi del cinema odierno e non è certo uno sciocco. Infatti il suo Vengeance è un film decisamente personale e identificabile, ma nemmeno per un secondo corre il rischio di sembrare un "Johnnie To for dummies" né tantomeno il suo stoicismo sanguinario muta di fronte ai dilemmi di un differente pubblico.

Ambientato tra Macau e Hong Kong, co-prodotto dai francesi, recitato in tre lingue e sceneggiato dal fedele compare Wai Ka-Fai a partire da un palese richiamo a Melville (il protagonista si chiama Francis Costello mica per caso), Vengeance si muove infatti in territori piuttosto riconoscibili, raccontando in verticale la vendetta che dà il titolo al film e in orizzontale una storia di amicizia dove il codice d’onore e la fedeltà virile sono l’unica vera lingua unificatrice, riuscendo – anche grazie a una durata più lunga del solito – a fare qualche passo oltre il consueto heroic bloodshed e a riflettere in modo maturo e compiuto sulla morale e sulla memoria.

Ma non lasciando certo per strada la spettacolarità tecnica e soprattutto la perfezione scenografica che è uno dei punti vitali del cinema di To: la sequenza in cui Costello perde i suoi compagni tra la folla sotto la pioggia, per esempio, oppure quella della violenta sparatoria nel campo, sono esempi di puro, grandissimo cinema, e non sono i soli. Anche se il cuore del regista hongkonghese pulsa persino più forte altrove – quando i killer cucinano, vanno a tavola, mangiano, si studiano, ridono, si sfidano, si conoscono, si riconoscono, attendono.

La cosa che fa la differenza, rispetto al solito, è semmai la performance di Johnny Hallyday – ma è una differenza positiva: la rockstar francese ha una presenza scenica magnifica, riempie lo schermo e la città con i suoi 66 anni e i suoi occhi di ghiaccio. Al suo fianco non mancano però ovviamente volti noti e fondamentali come Anthony Wong, Simon Yam e Lam Suet.

Difficile esprimere davvero quanto il film sia bello, coinvolgente, intenso e insieme chirurgico, preciso e impeccabile: chiunque abbia visto un film di To sa di cosa sto parlando, sa cosa aspettarsi, e resterà probabilmente soddisfatto – mi auguro. Tutti gli altri dovrebbero solo muoversi e cominciare a recuperare il tempo perduto.

Il film ha vinto pochi giorni fa il Leone Nero come miglior film al Noir In Festival di Courmayeur. Non c’è ancora una data italiana ma il film è nel listino 2010 di Fandango. Cominciate a incrociare le dita. E pregate altresì che non doppino tutte le lingue in italiano. Se siete frettolosi, il film è già acquistabile in DVD edizione francese (purtroppo senza sottotitoli inglesi) e anche nella più economica edizione di Hong Kong, che però è Regione 3. Fate voi.

Accident, Soi Cheang 2009

Accident (Yi ngoi)
di Soi Cheang (Cheang Pou-Soi), 2009

Si sente molto l’impronta produttiva di Johnnie To e della sua Milkyway in questo nuovo film del regista di Dog bite dog: Accident è un film costruito soprattutto su lunghe attese e su silenzi, con una coerenza indefessa nel perseguire il suo scopo (fino a diventare quasi un film muto) che trasforma una parabola determinista in una estremizzazione del punto di vista unico che ha le sue radici forse anche nel thriller d’autore americano (per esempio De Palma). Ma non si ceda alla tentazione di considerarlo nemmeno un mero thriller originale con (inevitabile) sorpresa finale.

Senza il pericolo di una sovraintepretazione, perché la metafora è alla portata di chiunque sia abbastanza attento da coglierla, Accident è indubbiamente un lavoro autoriflessivo: la squadra di killer che organizza omicidi che sembrano incidenti lavora esattamente come una troupe cinematografica in cerca della scena perfetta (o meglio, del piano-sequenza perfetto) guidati da un vero e proprio regista. Quello che accade in seguito (e che non rivelo) non fa che confermare l’ipotesi di un film, non solo sulla forza prorompente del caso, ma anche sul cinema e le sue allucinazioni. Sul suo più grande inganno: che la costruzione della realtà sia equivalente alla realtà stessa.

Dopo una serie di prove fortunate alternate a errori di percorso, Cheang si conferma con questo film uno dei registi più lucidi e virtuosi dell’ex colonia britannica, capace di costruire alcune tra le sequenze più belle e complesse del cinema hongkonghese recente, anche se non eguaglia la perfezione del maestro To e risulta fin troppo glaciale se confrontato con i suoi lavori precedenti. Se alcuni hanno infatti indicato Accident come il suo lavoro migliore, continuo a preferirgli lo spudorato e romantico squilibrio di Love battlefield.

In ogni caso, un ottimo film, da recuperare a ogni costo.



Il film è stato presentato in Concorso all’ultima Mostra del Cinema di Venezia. Non è ancora prevista una data d’uscita italiana: la mia ipotesi è che uscirà in DVD. Se avete fretta, su YesAsia si può acquistare il dvd hongkonghese (Regione 3) a una manciata di euro.

Far East Film Festival 11 – Udine 2009

[Far East Film Festival 11]

Dunque, sì, sono stato a Udine gli ultimi due giorni e mezzo, ho visto (solo) 10 film dei quali tra l’altro 2 erano re-visioni, ho scritto a riguardo alcuni brevi e raffazzonati commenti su Twitter, e a questo punto, evitando considerazioni generali su un festival che è comunque, dio lo benedica, il migliore a cui partecipare nel nostro paese senza lasciarci lo stipendio di due mesi e/o buona parte del proprio equilibrio psicofisico, è il caso di fare un breve riepilogo sui film visti.

Cina

Probabilmente, la cosa più bella che mi sia capitata in questo FEFF è Cao Baoping. Il suo Trouble makers, la cui proiezione udinese era stata bloccata qualche anno fa, è una commedia incredibilmente feroce sulla corruzione della provincia, che, viste le strettissime maglie, mi stupisce sia riuscita finalmente ad arrivare a noi. Meno male, comunque: nonostante fosse l’ultimo film della rassegna (leggi: stanchezza micidiale) è un film che mi sarebbe dispiaciuto perdere, e che spero che prima o poi, mettiamola così, "si renda recuperabile".

Ma non solo: il nuovo film di Cao si intitola The equation of love and death ed più che un bel film, e molto più che "un film che non sembra cinese": è il segnale di una vitalità e di uno stile originale che in Cina non si vedeva da anni. Un film assolutamente nuovo, teso e coinvolgente eppure semplicissimo, e con una stupenda Xun Zhou.

Invece The story of the closetool di Xu Buming è un film molto più riconoscibile: quello che colpisce è la bizzarria della sua trama (il rapporto quasi ossessivo-amoroso tra una ragazza e il gabinetto che si fa costruire nel cortile) che nasconde una riflessione molto trasparente sul progresso impossibile nella Cina di oggi.



Giappone

L’Audience Award se l’è portato a casa, come da copione, il giapponese Departures. Che però non ho visto. Ho visto invece Love exposure di Sion Sono, che era con tutta probabilità il film migliore del festival: l’unico a cui ho mollato un cinque nel famoso "cartoncino" con cui si vota a Udine, l’unico con cui oserei usare la Parolona Che Inizia Con La Ci. Ovviamente, non è per tutti: stateci voi quasi quattro ore a farvi bersagliare da un film che inizia come un romanzo di formazione di un giovane diviso tra daddy issues e crisi mistiche per poi diventare una commedia demenziale perversa, una love story commovente, un pamphlet satirico surrealista, e un sacco ma un sacco di di altre cose. Io ci sono stato, e ne è valsa la pena: stupendo.

Anche se tutti erano lì per Yatterman di Takashi Miike, che immagino sia l’unico film per cui state leggendo questo post. Volete sapere com’è? Molto dipende da quello che vi aspettate. Più o meno. Volete una versione fedelissima dell’anime originale? Lo è, ripetizioni comprese. Volete un film profondamente miikiano? Lo è, perversioni comprese. A me, non essendo io un grande fan dell’originale, di questo film decisamente squilibrato e non del tutto riuscito, è piaciuto più quest’ultimo aspetto: Miike riesce a tirare fuori il suo stile (avete presente quei momenti in cui tutto ma proprio tutto si ferma e anche le situazioni più triviali e deficienti diventano come per magia profonde e commoventi?) e le sue ossessioni (per esempio una specie di pazzesca versione cartoonesca del finale di Gozu, ma basterebbe il look di Kyôko Fukada, AKA Lady Doronjo) e la sua capacità visionaria (il film è molto molto bello da vedere, per chi se lo chiedesse, quasi di più nelle parti statiche che in quelle d’azione) persino in un film così, che è progettualmente – e irresistibilmente – fatto di plastica.

Il terzo film giapponese visto è stato Climber’s High, da cui però sono fuggito dopo una quarantina di minuti perché mi faceva schifo, e – nonostante qualcuno del FEFF mi abbia sgridato – da più parti mi han detto che non mi son perso niente.

Corea del Sud e Honk Kong

Due i film che sono andato a rivedere nonostante avessi già dato: l’occasione dello schermone del Teatro Nuovo non è una cosa a cui si rinuncia facilmente. Uno è l’hongkonghese Ip Man, incredibile biopic di arti marziali di Wilson Yip – che in sala guadagna persino punti mostrando tutta la sua potenza e il suo fascino – e l’altro è il sudcoreano The good the bad the weird di Kim Ji-woon, che nonostante non abbia spezzato il cuore del pubblico di Udine continuo a trovare un gran bell’esempio di cinema di intrattenimento dalla produzione eccellente (oltre al fatto che, lo ripeto, c’è poca gente che sa girare come Kim) con un occhio ben aperto al mercato. Non è stupido e inconsistente come sembra, e come molti dicono.

Sempre dalla Corea del Sud arrivava la commedia Scandal makers, opera prima di Kang Hyoung-chul che ha fatto un macello al botteghino in patria, e che effettivamente contiene un sacco di cose che piacciono al pubblico coreano: bimbi che fanno le facce buffe, adulti che fanno le facce buffe, storie che starebbero benissimo in un qualunque film con Hugh Grant senza dover cambiare una virgola. Il film ha fatto impazzire anche il pubblico del FEFF, arrivando secondo. Tutto ciò la dice lunga sullo stato in cui versa la commedia sudcoreana, ma devo ammettere che il film fa molto ridere – e a un certo punto, diventa un po’ l’unica cosa di cui ci interessa. Quindi, bando ai passatismi, va bene così.

Deludente invece The accidental gangster, che prova un po’ tutte le strade più modaiole del cinema di Seoul: il film in costume misto con la commedia demenziale-cartoon che nella seconda parte, senza alcuna transizione, diventa una specie di serissimo e pallosissimo melò con le arti marziali – e un duello finale che è tra le cose più yeeuch che io abbia visto fare in un film coreano. Siamo seri, suvvia.

Ip Man, Wilson Yip 2008

Ip Man
di Wilson Yip, 2008

Per quanto il nome suoni a noi sconosciuto, Ip Man è una delle più celebri figure della cultura cinese del novecento. Originario di Foshan, dove il film è infatti ambientato, conobbe fama e fortuna quando nel 1949 fuggì dal regime comunista per aprire una scuola a Hong Kong, rendendo celebre in tutto il mondo l’arte marziale in cui era specializzato e che insegnò fino alla morte nel 1972: il Wing Shun (letteralmente: Canto di Primavera). Quella, per intenderci, praticata da Bruce Lee – che infatti è stato il suo allievo per quattro anni, a metà degli anni ’50.

Ma il film di Wilson Yip, da quasi 15 anni uno dei registi più interessanti ed eclettici del cinema hongkonghese, dopo una mezz’ora in cui si introduce necessariamente il personaggio di Ip Man e la sua quieta filosofia di vita zen, racconta romanzandola un’altra storia: come Ip Man sopravvisse alla violenta invasione giapponese negli anni ’30, prima cercando un sostentamento per la sua famiglia e successivamente mettendosi in prima fila contro un generale deciso a mostrare la superiorità delle arti marziali giapponesi. Ferocemente antinipponico, il film non è solo il racconto di una figura leggendaria e dalla statura immediatamente epica – e il film riesce, soprattutto grazie alla flemma di Donnie Yen, a trasmettere questa concezione mitologica senza bisogno di troppe didascalie – ma anche una parabola profonda sull’onore e sul valore.

Ip Man si può mettere a confronto con il buon Fearless di Ronny Yu, che raccontava la storia del maestro Huo Yuanjia (1868-1910). Ma il film di Yip lo supera di gran lunga, sia per la compostezza e le qualità formali, che per la meraviglia dei combattimenti (curati dalle mani esperte di Sammo Hung e Leung Siu Hung), che per la precisione mista a potenza con cui trae da un racconto storico, narrato peraltro con una grande cura nella ricostruzione dei dettagli scenografici (spesso con attributi quasi teatrali, come la buia stanza dove si svolgono i combattimenti in onore del generale, ma anche la Foshan-set) e nessun cedimento alla vuota spettacolarizzazione dei gesti, un film enormemente appassionante, e persino commovente – per esempio, nel ruolo affidato all’attrice Lynn Hung verso il finale.

Nel cast, la parte del leone la fa ovviamente Donnie Yen nella parte di Ip Man, ma anche il cast secondario è eccezionale: vibrante la prova difficile di Gordon Lam, ottimo come sempre Simon Yam, e perfetta la presenza imponente di Hiroyuki Ikeuchi.

L’edizione home-video hongkonghese è disponibile da febbraio sia in DVD che in Blu-ray, ma purtroppo è Regione 3.

Ne ha scritto, ben prima di me e ben meglio, il buon Murda.

Ashes of time redux, Wong kar wai 1994-2008

Ashes of time redux (Dung che sai duk redux)
di Wong Kar Wai, 1994-2008

Ashes of time è una delle più grosse e paradossali frustrazioni del cinefilo "orientofilo" medio: uno dei film più acclamati e noti del cinema di Hong Kong del decennio scorso è allo stesso tempo uno dei meno visti. Il perché, è presto detto: trovare una copia decente del film era quasi impossibile, e a poco serviva la famigerata edizione hongkonghese, di scarsissima qualità.

Visto che di Ashes of time qui si è già parlato (4 anni e mezzo fa: cielo, come si invecchia in fretta), considerate questo come un mero post di servizio: è da poco reperibile l’edizione inglese di Ashes of time redux. Il risultato dell’eccellente lavoro di ripulitura (con l’aggiunta di un appropriato digital coloring) e della parziale riscrittura operata, con autocritiche forbici alla mano (sono spariti quasi 10 minuti), da Wong Kar Wai stesso, è un film di cui finalmente possiamo ammirare anche lo splendore visivo.

Un film bellissimo, intenso, acceso e contrastato, anti-spettacolare ma emozionante, in cui si riscontra non solo una rilettura autoriale del wuxiapian spinta a livelli di astrazione che nessuno ha mai più avuto il coraggio (o il talento) di raggiungere, ma anche tutta una serie di temi assolutamente essenziali nel cinema del maestro di Shanghai – prima tra tutti, ovviamente, la riflessione sempre centrale, profonda e commovente, sulla memoria, sul ricordo e sul rimpianto.

Il film è stato presentato l’anno scorso a Cannes e a Toronto, ma nonostante l’uscita theatrical in Francia, UK e USA, e nonostante la fama del suo regista anche da noi, non ha trovato posto nelle sale italiane – dove, non c’è bisogno di dirlo, l’impressionante fotografia di Cristopher Doyle avrebbe fatto la sua porcissima figura.

Il mio consiglio è quindi scontato, quasi quanto il DVD: acquistatelo.

Sparrow, Johnnie To 2008

Sparrow (Man jeuk)
di Johnnie To, 2008

Una bellissima donna si intromette nelle vite di un gruppo affiatato di borseggiatori, dapprima seducendoli e rivelando poi le sue intenzioni – e la sua richiesta d’aiuto.

Quando mi capita di vedere un nuovo film di Johnnie To, mi chiedo sempre quale potrebbe essere, di fronte a un film come Sparrow, la reazione di uno spettatore che non sia stato iniziato ai film del grandissimo regista hongkonghese. Poi mi ricordo della mia reazione, ai tempi di A hero never dies, e mi rendo conto che To non riesce mai a stufarmi. E chino il capo, sempre, di fronte a questo stile che ha raggiunto ormai un assoluto livello di riconoscibilità – ma che non si trasforma mai in maniera. Sia per le sue spaventose capacità tecniche (che sono in ogni singolo movimento di macchina, ma bucano lo schermo grazie ad alcuni piani-sequenza in cui il lavoro degli attori e sugli attori è altrettanto impressionante), sia per la capacità di raccontare, in questo modo, rarefatto ma immediato, un film costruito apparenemente sul nulla – e su un quadrangolo amoroso che, a raccontarlo, sembrerebbe non dire niente di nuovo.

Invece anche quest’ultimo Sparrow, presentato all’ultimo festival di Berlino, film breve e affascinante anche da un punto di vista produttivo (perché girato nel giro di ben tre anni, tra il 2005 e il 2008, nei ritagli di tempo del cast tra un progetto e l’altro), è un ulteriore tassello della sua maestria cinematografica – nonostante rientri in qualche modo nel circuito del To più "lieve" in cui a predominare sono al massimo conflitti di sconfitta e riscatto. Ma Sparrow fa con i pickpocket ciò che era già stato applicato nel cinema di To, più spesso al mondo gangsteristico delle triadi ma anche (come in Throw down, per esempio) in contesti più specifici: ovvero, un film in cui i rapporti tra i personaggi, anche le comunicazioni più profonde e sentimentali (come la fascinazione, il senso di colpa, il tradimento, la fedeltà), sono raccontati, più che a parole (poche, e scelte con cautela), quasi esclusivamente attraverso il posto che i corpi occupano nello spazio, e attraverso il modo in cui gli stessi corpi si relazionano tra di loro, in un’alternanza di stasi e di movimento reciproco che è ormai il più forte dei marchi testuali del cinema di To.

Il risultato è un’operetta leggiadra che assomiglia più a un lungo brano musicale che a un film – o piuttosto, a un’avvolgente, ironica e irresistibile suite di corpi danzanti.

The forbidden kingdom, Rob Minkoff 2008

The forbidden kingdom
di Rob Minkoff, 2008

Tempo fa ci dissero che Jackie Chan e Jet Li avrebbero fatto un film insieme. Intendiamoci, Jet Li & Jackie Chan è una roba che solo a sentirla tremano i muri, e nonostante il noto imbarbarimento hollywoodiano di entrambe le star, alcune prove recenti (Fearless di là, New police story di qua) ci avevano convinto che la bomba poteva ancora esplodere. Poi ci hanno rivelato l’amara verità: che il film non sarebbe stato solo (come prevedibile) finanziato dagli studios statunitensi, ma anche recitato in inglese e diretto da Rob Minkoff, regista del Re Leone e di Stuart Little – americanissimo nonostante sia sposato – true story – con una discendente di Confucio.

A questo punto il post si scriverebbe da solo, anche senza bisogno di vedere il film, così come si scrive da sé la domanda che si eleva dai resti del nostro povero cervello a pezzi: perché prendere un incontro dal potenziale così epico, unico, rimandato per lustri e lustri, e trasformarlo, non dico in una pacchianata hollywoodiana, ma in questo strano e tardivo esempio di cinema per ragazzi, in questo timidissimo e placido mischiotto di Karate kid e La storia infinita? Perché ridurre due attori e due corpi che tanto hanno significato nello sviluppo (e nella diffusione globale) del gongfupian - e non solo – a un filmetto sommariamente divertente, ma che è buono giusto per un sabato pomeriggio d’inverno? Anche se The forbidden kingdom è confezionato anche per i fan (della domenica) dei due attori – e del cinema hongkonghese tutto.

Perché di omaggi, e di cinefilia orientofila, il film (sceneggiato da John Fusco – uno che scriveva tutt’altro, ma che qualcosina la sa) è stracolmo: Jackie Chan è un godibile "drunken master", il "monkey king" di Jet Li viene dal classico testo Viaggio in Occidente (da cui sono tratti molti film tra cui Chinese Odyssey e il Monkey goes to west che si vede in uno schermo all’inizio del film), per non parlare dell’altro ruolo – quello del "monaco silenzioso". Ancora: il personaggio di Golden Sparrow (interpretato dalla scandalosamente bella Liu Yifei) è ispirato alla Golden Swallow di Come drink with me di King Hu (e a un certo punto dice pure "Come drink with me!", per dire), e la cattivissima killer dai capelli bianchi di Li Bingbing – forse la cosa migliore del film, almeno a impatto – è ripresa dalla mitica Brigitte Lin di Bride with the white hair, film che fa pure bella mostra di sé sullo scaffale della bottega dell’anziano Jackie Chan nell’incipit. Ma una volta esaurite queste scelte, peraltro non tra le più imprevedibili, che cosa rimane?

Rimangono le solite incredibili coreografie di Yuen Woo-ping, che come al soilto ci mette dentro tutta la sua esperienza, e che come spesso accade viene letteralmente castrato da una regia inetta e soprattutto colpito alle gambe da un montaggio che "tagliando" i piani ne spezza la danzante precisione. Visto che il film che ne è uscito, se senz’altro non è noioso né dannoso né tantomeno disonesto, definirlo uno Spreco è davvero riduttivo, facendo di necessità virtù Yuen (anche produttore esecutivo), più che un omaggio decadente al cinema che fu, ne ha fatto una specie di bignamino da nulla delle arti marziali nei film cinesi, utile appunto a un 12enne che ha visto giusto Matrix o Rush hour.

Allora va bene, magari uno di questi ragazzini di 12 anni esce dal cinema tutto gasato, e magari va a casa e si scarica Once upon a time in China e Project A. Ma anche, che so, The blade o Chinese Ghost Story. E magari la sua vita cambia, ecco. Allora, e solo allora, per qualche istante, nei suoi occhi pieni di meraviglia di fronte al cinema vero, ne sarà valsa la pena.

Trivial Matters, Pang Ho-Cheung 2007

Trivial matters (Por see yee)
di Pang Ho-Cheung, 2007

Il settimo film di uno dei migliori "giovani" registi hongkonghesi apparsi negli ultimi anni, nonché presenza fissa (anche quest’anno) al friulano Far East Film, è un film a episodi: è tratto infatti da una raccolta di racconti, molto celebre in patria, scritta dallo stesso Pang. Le brevi storie hanno un qualche tipo di (sottilissimo) filo conduttore, che va al di là della narrazione, e che ha una costante nella presenza della tematica sessuale (in modo molto più "spinto" di quanto non ci abbia abituato Hong Kong) – ma per semplicità è il caso di trattarlo pezzo per pezzo, anche se a rischio di banalizzarlo.

In Vis maior uno psicologo confessa i suoi problemi sessuali alla videocamera uno studente, ma il punto di vista della moglie sembra più realistico: basato su una premessa piuttosto banale, il corto lascia il tempo che trova ma regala diverse risate – di cui almeno una fragorosa – ed è recitato con una dose irresistibile di ironia. Segue un segmento davvero brevissimo in cui un giovane abborda una ragazza sostenendo che il massimo della civicità sia pisciare sulle macchie di sterco nei bagni pubblici. In It’s a festival today, segmento stralunato e riuscitissimo, forse il più semplicemente spassoso del film, un ragazzo inventa un modo creativo per ricevere quotidianamente una fellatio dalla sua castissima fidanzata – con conseguenze inaspettate.

Tak Nga è un documentario realizzato da abitanti di un pianeta colonizzato tra centinaia di anni, che tenta di spiegare l’origine del nome del pianeta stesso. Un divertissement, anche abbastanza ambizioso, ma in definitiva noiosetto: il segmento più debole del gruppo. In Recharge, un produttore va con una prostituta, e condivide con lei un momento di tenerezza ricaricandole una scheda telefonica: per quel misto di inconsistenza e la poesia che sbuca improvvisa – appunto – dal "triviale", forse il corto più "panghiano" del film – comunque, davvero bello. Ma è il malinconico e stupendo Ah Wai The Big Head la vera perla del film: ambientato dagli anni ’90 ai giorni nostri, una storia di amicizie, ipocrisie, affetti, bugie e destini incrociati che risulta persino toccante – e tra le cose migliori girate da Pang, in assoluto. Infine c’è Junior, che inizia con un ammiccamento cinefilo (un dialogo grottesco e assurdo tra il regista Feng Xiaogang e il compositore Peter Kam) e che termina con una storiella leggera leggera – con tanto sberleffo finale.

In definitiva, un godibile affresco di "questioni di poco conto" che si trasformano in incontrollati giochi del fato, giocoso e un po’ paraculo, ma che conquista senza fare troppi sforzi, grazie a un cast ricco e divertito, una regia dalla mano leggerissima, e la solita ineccepibile fotografia di Charlie Lam. Un film che, se nulla aggiunge alla carriera di un regista ormai maturo e sempre più bravo (basta pensare a film come Isabella e Exodus) allo stesso modo nulla vi toglie.

CJ7 (Cheung Gong 7 hou)
di Stephen Chow, 2008

Inutile stare tanto a girarci intorno: CJ7 è probabilmente il meno bello dei film diretti dal grandissimo Stephen Chow dai tempi lontanissimi di Forbidden city cop. Non solo perché è il suo film meno divertente, o meglio l’unico in cui non ci si schianta a terra – e il perché è presto detto: Chow appare poco – ma anche perché Chow prende una parte del suo cinema che adoriamo (quella poetica che viene dritta dritta dai lecca lecca di Kung fu hustle e dalle lacrime salate di Shaolin soccer) e dimentica tutto il resto.

O meglio, ne dà degli accenni, dei contentini per completisti, e poi li tralascia: l’aspetto più grottesco e la dimensione cartoonesca del suo cinema, per esempio, vengono annacquati da una storiellina scritta su un post-it piena di bambini buffi e/o crudeli. Non parliamo comunque di un regista casuale, e non mancano infatti i momenti di stupore e di meraviglia, lo spettacolo dato da trovate registiche, fotografiche e scenografiche (settori curatissimi, fin troppo), inattese coerenze (adorabile il fatto che Chow, nonostante il successo e il fascino, continui a intepretare personaggi sommariamente antipatici o sgradevoli), buone trovate narrative (la lunghissima sequenza onirica che viene poi replicata) e persino istanti di autentico genio (come questo). Ma pensare di conquistare un pubblico globale (il film è uscito negli USA a Marzo, scontentando i più) che l’ha accolto per centinaia di altri motivi, facendo come massimo sforzo quello di sbattere sullo schermo un’irresistibile creaturina aliena, mezza cucciolo pucci e mezza slime, è davvero troppo instabile anche per noi fan. O forse è l’idea che Chow ha del pubblico globale: e come dargli torto?

Non si dimentica comunque che Chow rimane un genio comico assoluto, e che il pugno di film da lui diretti tra il 1996 e il 2004 sono tra le opere migliori prodotte dal cinema asiatico (e non solo) in questi anni. Sotto quest’ottica, questa divertente scematina gliela si perdona, più che volentieri.

Il film non ha ancora una data d’uscita italiana, ma vedrete che uscirà. Se avete fretta e volete comprarlo, su Yesasia costa 12 euro.

Contrariamente alla mia prima idea – ovvero che fosse un omaggio alla CJ Entertainment – il titolo del film si rifà alle ultime missioni spaziali cinesi, denominate appunto Shenzhou 5 e Shenzhou 6. La missione Shenzhou 7 partirà a Settembre.

Un bacio romantico (My blueberry nights)
di Wong Kar Wai, 2007

Che cosa faceva di My blueberry nights qualcosa di cui avere paura? In parte il fatto che 2046 ci aveva storditi, e non nel migliore dei modi possibili? Ancor di più, la paura di un’adulterazione dovuta all’espatrio (solo parziale: si tratta di una produzione franco-cinese) e all’uso della lingua inglese? Ebbene, di quei timori Wong Kar Wai fa carta straccia, facendo di Norah Jones (che è una rivelazione, a suo modo) quel che già fece della popstar Faye Wong dalle sue parti, e regalandoci un film che non è solo di palese e folgorante bellezza, ma che è anche un ammirevole esercizio di coerenza.

Il segreto di My blueberry nights è tutto in quella parola: nel suo non essere affatto una versione "occidentalizzata" delle sue opere hongkonghesi, ma l’esempio vivente e pulsante che il suo è ancora un cinema universale, a cui panorami e volti si adattano e di fronte a cui si chinano. Liberatosi dell’ingessatura che per un film forse troppo bello, troppo perfetto e inarrivabile, gli si era costruita attorno alle mani, Wong trova proprio nelle strade e nei panorami degli Stati Uniti, ma sopratutto nelle sue stanze chiuse e nei suoi volti e nelle voci, un modo brillante per sfuggire al rischio di uno svilimento, per eccesso di stilizzazione, del suo cinema – che proprio dello stile faceva la sua bandiera – e per tornare a raccontare la sua storia (aiutato con perizia dal crime novelist Lawrence Block), e le storie che le girano intorno, con una leggiadria che, soprattutto quando la Jones e Jude Law condividono lo schermo, non fa rimpiangere i tempi passati.

Comunque, questo è un film di Wong Kar Wai nel cuore, nella carne. Lo è ben oltre le bellissime immagini che l’eccellente Darius Khondji ha onestamente rubacchiato dalla palette di Christopher Doyle: ci sono i volti celati del passato, le reiterazioni musicali (Try a little tenderness) che assumono un significato differente ad ogni riproduzione, interi universi che stanno rinchiusi in una singola stanza (che sia un café di New York, un bar di Memphis, o un casinò del Nevada), lo stesso attaccamento quasi feticista agli oggetti (cappelli, chiavi, gettoni) che sconfina in quel romantico e bizzarro animismo che è tra le chiavi del suo cinema, l’ossessione malinconica e profonda e incancellabile per il ricordo, per il rimpianto.

E se anche il film non funziona tutto alla perfezione come quegli incredibili primi 15 minuti, se anche la parte con Natalie Portman è segnatamente meno riuscita di quella con David Straihairn e Rachel Weisz, poco male: My blueberry nights è un film che dà e che toglie – ma alla fine lo fa con grande, miracoloso equilibrio. Ci sarà sempre la struggente confessione di una nostalgia, ai bordi di una strada ricoperta di fiori, a far perdonare un urlo fuori posto o una piccola scivolata. E non pretendiamo che sia sempre Hong Kong Express: sarebbe impossibile, e forse non lo vorremmo nemmeno. Potevamo chiedere davvero poco di più a questa romantica storia d’amore – di un amore gustato e rimandato, che lascia sulle labbra – anche sulle nostre, di labbra – un sapore dolcissimo. Un sapore che persiste, e cresce nei giorni a seguire.

Un film inatteso, e bellissimo. E rimanete fino alla fine dei titoli di coda: c’è un pezzo che conoscete bene, e non vede l’ora di essere riascoltato.


Nelle sale dal 28 Marzo 2008

Mad detective
di Johnnie To e Wai Ka-fai, 2007

L’ispettore Bum è una testa calda: è convinto di avere un dono trascendente che gli permette di risolvere i casi, si immedesima "radicalmente" con le vittime, e dice di saper vedere – letteralmente – le vere personalità nascoste nell’animo degli individui. Matto come un gatto, certo: però i casi li risolve eccome. Il giorno che decide di omaggiare la purezza del suo capo tagliandosi di netto un orecchio, i suoi colleghi cominciano a pensare che sia anche pericoloso, e Bum viene emarginato. Ma chi può dire davvero quale sia il confine tra realtà e immaginazione, e – allo stesso modo – tra follia e malinconica sopravvivenza?

Queste sono le premesse dell’ultimo film del grandissimo Johnnie To, tornato a farsi spalleggiare dal collega e amico Wai a qualche anno dall’ultima collaborazione: era il 2003, l’anno del bizzarro Running on Karma. Nel frattempo, To è uscito dal "ghetto" della culto cinefilo, è divenuto una presenza fissa dei festival di tutto il mondo (e persino negli scaffali delle videoteche italiane), e asciugando ulteriormente il suo inconfondibile stile ha prodotto autentiche perle come Throwdown, Exiled e i due Election. Mad detective è stato presentato come film a sorpresa da Marco Muller all’ultima Mostra di Venezia, e rappresenta una specie di ritorno alle atmosfere che fecero grande la casa di produzione Milkyway a cavallo tra i due ultimi decenni.

Una storia intricata su identità e sopravvivenza, identità e mito, emulazione, potere, mescolanza ben amalgamata di ghost-story (sui generis) e noir metropolitano, in cui i due registi mettono spesso la loro esperienza al servizio di autentici pezzi di bravura: la sequenza dell’appuntamento a quattro, fatta di silenzi, gesti, e sguardi "nel vuoto" ne è un esempio perfetto. E se Mad detective è chiaramente un’opera disillusa e malinconica, per alcuni versi straziante, toni a cui spesso To ci ha abituato, l’elemento del gioco (soprattutto nell’esplosiva sequenza finale, risaputa e con tanto di stand-off, ma di impressionante perferzione) è ben evidente: To e Wai si divertono a confondere le carte e a mescolarle sadicamente davanti ai personaggi e agli spettatori, ma sanno gestire il continuo alternarsi dei piani di realtà, tra visioni e riflessi, con una scioltezza e una maestria impagabili.

Certamente To ha fatto film migliori, anche negli ultimi anni, e la solitudine alla regia gli ha senz’altro giovato: considerato anche che Wai, nel frattempo, girava Shopaholics. Ma non v’è dubbio che il cinema di To rimanga quasi sempre una spanna sopra quello dei suoi conterranei, schiacciando letteralmente gli emuli per le qualità formali e per l’assoluto genio che contraddistingue la sua messa in scena. E poi, in cima a tutto, c’è l’incredibile performance di Lau Ching Wan.

Per completare la mia noiosissima opinione, vi propongo quella del bravissimo e bellissimo Carlo "lonchaney" Tagliazucca, discussa in un breve e grezzissimo scambio di email che ho trasformato malamente in una specie di micro-intervista.

Carlo, voglio sapere la tua. 
Non è malaccio, dai. Molto (troppo) macchinoso e con vari riciclaggi, soprattutto da The Longest Nite. Il personaggio di Lau Ching Wan è bellissimo, e mi è piaciuta un sacco la scena del ristorante, con lui che se ne parte in moto da solo. Tu che ne dici?
 
D’accordo con te, ma un tantino più contento: qui si respira l’aria della Milkyway di una volta, ci sono un sacco di specchi che si rompono, e la scena per strada con le due mogli è da strappacuore. Bello bello bello.
Sì, dai, però è davvero troppo arzigogolato per convincermi davvero. Mi chiedo quanti minuti di film siano veramente di Johnnie To. Secondo me, pochi.

Però la mano di To nella sequenza finale c’è. E sicuramente in quella del ristorante. E’ vero, però, che è arzigogolato. Più che altro, che casino.
A me piacciono tanto Throwdown e PTU perchè raccontano esclusivamente con le immagini, attraverso gesti e azioni dei personaggi. I Milkyway troppo scritti e troppo waikafaieschi mi lasciano spesso un po’ così.
 

Il DVD (edizione hongkonghese) è in vendita da oggi, a pochi euri.

Exodus (Cheut ai kup gei)
di Pang Ho-cheung, 2007

A volte l’incipit di un film ha una funzione molto più che introduttiva: come accade anche, spesso quasi come una norma, nella forma del racconto breve, la prima frase del testo deve aprire in qualche modo la mente del lettore, far sì che chi guarda si ponga immediatamente delle domande ben chiare (tipo "che diavolo sta succedendo?"), solleticarne la curiosità. Anche a costo di rendere impossibili le risposte. O di essere palesemente sleali.

Exodus si apre con un piano-sequenza, un lungo e lentissimo carrello all’indietro che, a partire dagli occhi della regina Elisabetta in un quadro appeso nel corridoio di un commissariato di polizia, si scopre su una violentissima scena di lotta al ralenti tra un combattivo individuo e una banda di uomini in costume da bagno e maschera da sub, armati di martelli. Un’apertura talmente sopra le righe da tirannizzare, letteralmente, quasi ogni discorso sul film sia stato fatto finora, come sta succedendo qui: e se così è, la tentazione di non parlare d’altro è forte.

Ma sarebbe un peccato, perché oltre all’incipit c’è ben altro: prima di tutto c’è tutto un film che non fa che disattenderne programmaticamente – slealmente dunque, ma in senso buono – le premesse, sia nei toni (il film è nerissimo ma assolutamente antispettacolare, accennato e sommesso come la recitazione dell’incredibile Simon Yam) sia narrativamente (perché quei sub assassini non solo non rivelano nulla, ma il film che segue con essi ha apparentemente poco a che fare). Ci troviamo di fronte a un film che fino all’ultimo fotogramma, se si esclude un lungo e bellissimo flashback, "esplicativo" ma necessario, lavora soprattutto di negazione e di sottrazione, accompagnato dal lavoro, al solito eccellente, del fotografo di fiducia Charlie Lam.

E poi, c’è la conferma di un autore, Pang Ho-Cheung, che si sta costruendo una carriera e una fama attraverso film piccoli e "differenti", ma che è davvero impossibile non notare, e che con questo Exodus riesce a scartare parzialmente sia un eccesso di patina presente nell’irresistibile Beyond our Ken, sia le tentazioni eccessivamente autoriali dello stupefacente Isabella, costruendo un’operetta intelligente, caustica e sottotono, che nel paradosso di una trama bizzarra – che non rivelo, ma solo perché è più divertente scoprirla attraverso la visione – solleva qualche riflessione interessante di ordine storico e (meno) simbolico, ma che soprattutto, nel suo piccolo, prende a schiaffi le esigenze (e le abitudini) dello spettatore. Ben felice di trovarsi i segni delle dita sulle guance.

Un po’ intrusivo ma decisamente riuscito il lavoro del compositore italiano Gabriele Roberto, alla seconda colonna sonora importante dopo quella per Memories of Matsuko.

Extra: la sequenza iniziale di Exodus su Youtube.

Shaolin soccer (Siu lam juk kau)
di Stephen Chow, 2001

Per una legge non scritta di questo blog, che vede tra l’altro pochissime eccezioni, si suppone che io parli di ogni cosa mi capiti di vedere. Nel caso di film già visti nel "periodo blog" (ovvero da Gennaio 2004), la regola non vale: al massimo, se il film è particolarmente meritevole o interessante, posto una capture chiamata "revisionismo". Per qualche strano caso, invece, Shaolin Soccer è un film che, dopo la "prima volta" in sala nell’Aprile del 2003, mi è capitato di rivedere più volte durante questi ultimi anni. Eppure non ne ho mai scritto.

Un po’ perché scrivere di Shaolin soccer implica spesso discutere del noto trattamento che venne riservato al film dalla Buena Vista: non tanto dei tagli, che facevano parte di un’edizione da esportazione distribuita in Europa, ma per l’ignominioso lavoro di adattamento, che oltre a rovinarne indiscutibilmente la visione, ne adulterava il senso come pochissime altre volte nella storia della distribuzione nostrana. Un caso che tra l’altro aprì le porte a operazioni simili negli anni a venire, e di cui vorremmo solo dimenticare l’esistenza – soprattutto perché l’inatteso successo dalle nostre parti dipese anche dall’imbarazzante e provinciale doppiaggio. 

Non sapete quante volte mi sono ritrovato a discutere e a sentirmi dire "eh sì, Shaolin Soccer è troppo figo, poi quel tizio che parla in marchigiano fa morir dal ridere!". Peccato per tutti quei musi gialli, eh?

Mi tolgo il dente ora che ho finalmente acquistato – a un prezzo che definire irrisorio è poco – la bella edizione inglese, completa sia della versione "europea" che di quella integrale cantonese, alla quale erano state sottratte soprattutto alcune "divagazioni", soprattutto nella seconda parte, irresistibili per chi conosca anche una briciola del cinema di Chow, ma che effettivamente non cambiavano (troppo) il senso né snaturavano (troppo) l’animo del film.

Che è, ora ci arrivo, un film che non possiamo non amare, pur rendendoci conto che si tratta in qualche modo di un’opera di passaggio, dai fasti di God of cookery e King of comedy all’assoluta perfezione di Kung fu hustle. Ma ora, in tempi meno sospetti e più lontani dagli entusiasmi di quando si cercava di recuperare tutto il recuperabile (e di quando questo blog era diventato una specie di fansite del Chow "Autore"), Shaolin soccer diverte ancora come allora, e non ha perso un briciolo del suo irresistibile, stupefacente, ed effettivamente inesplicabile fascino.

E poi, anche se vengono in secondo piano rispetto a cosette immortali come Tin Kai Man che, messo in porta contro la letale squadra dei "cattivi", telefona per confessare un amore segreto, o di Karen Mok e Cecilia Cheung che giocano/combattono con il pizzetto, ci sono tutta una serie di motivazioni di ordine, diciamo, storico: e prima tra tutte, che è un apripista. Sia perché contiene già i semi di Kung fu hustle in forma grezza (la magistrale scena della lacrima nell’impasto vs la rivelazione del leccalecca di fronte al poster di Top hat) sia perché ha aiutato – tutti noi, e molti altri in occidente – a conoscere il geniale, sublime cinema di Stephen Chow.

Ecco, Shaolin soccer è il film dove Chow ha marcato – con la scia di un pallone lanciato verso il cielo e verso la riscossa - il divario tra il geniale dei suoi film precedenti e il sublime dei successivi. Nei quali, senza troppi timori, speriamo di includere il promettente CJ7.

Dog bite dog (Gau ngao gau)
di Cheang Pou-soi, 2006

Se Soi Cheang non le azzecca proprio tutte (Hidden Heroes pare sia bruttarello, e Home sweet home lo è di sicuro), quando le azzecca ne escono delle cose davvero belle e inaspettate. Al di là dei begli horror degli inizi, Love battlefield fu una sorpresa quasi sconcertante, e Dog bite dog – fatte le dovute proporzioni, perché non arriva a quei livelli – non fa che confermare il talento, insieme essenziale e spudorato, di uno dei più interessanti, forse il più interessante tra i "nuovi" registi di Hong Kong.

Anche il finale di Dog bite dog, allo stesso modo di quello di Love battlefield, fa discutere, citato in moltissime recensioni come un enorme punto a suo sfavore. E’ vero, il film è troppo lungo, e una sforbiciata della parte finale, la più solare e la più stilizzata, avrebbe giovato eccome: ma la parossistica coerenza con cui Cheang tratta la sua materia (là era un romanticismo portato alle estreme conseguenze, qui a farla da protagonista è l’istinto bestiale) non riesce a farcelo odiare davvero. In qualche modo, è persino affascinante. Almeno, è sicuramente coraggioso.

Comunque, Dog bite dog è una storia di caccia all’uomo tra un poliziotto hongkonghese e un killer cambogiano, che inizia senza tanti fronzoli con due lunghe sequenze autenticamente da antologia (la ricerca silenziosa di Lam Suet tra i banchi del mercato) e si trasforma in una corsa infernale che trascina con sè amici, colleghi, parenti, identificazioni e canoni narrativi, diventando in fretta una sorta di caccia reciproca, cane contro cane appunto, una lotta in cui l’unico modo per essere in gara è rinunciare definitivamente alla propria umanità e confrontarsi con la propria bestialità, con la vendetta, con la furia. Perdendocisi, irreparabilmente.

Un film fatto di poche parole, di fiammate di violenza e lampi di rabbia, di corse sfrenate e di attese, di dolci quanto false speranze, prima buio e blu scuro come la notte, poi virato nel colore della terra e della carne. A modo suo, sensazionale.