[Far East Film Festival 11]
Dunque, sì, sono stato a Udine gli ultimi due giorni e mezzo, ho visto (solo) 10 film dei quali tra l’altro 2 erano re-visioni, ho scritto a riguardo alcuni brevi e raffazzonati commenti su Twitter, e a questo punto, evitando considerazioni generali su un festival che è comunque, dio lo benedica, il migliore a cui partecipare nel nostro paese senza lasciarci lo stipendio di due mesi e/o buona parte del proprio equilibrio psicofisico, è il caso di fare un breve riepilogo sui film visti.
Cina
Probabilmente, la cosa più bella che mi sia capitata in questo FEFF è Cao Baoping. Il suo Trouble makers, la cui proiezione udinese era stata bloccata qualche anno fa, è una commedia incredibilmente feroce sulla corruzione della provincia, che, viste le strettissime maglie, mi stupisce sia riuscita finalmente ad arrivare a noi. Meno male, comunque: nonostante fosse l’ultimo film della rassegna (leggi: stanchezza micidiale) è un film che mi sarebbe dispiaciuto perdere, e che spero che prima o poi, mettiamola così, "si renda recuperabile".
Ma non solo: il nuovo film di Cao si intitola The equation of love and death ed più che un bel film, e molto più che "un film che non sembra cinese": è il segnale di una vitalità e di uno stile originale che in Cina non si vedeva da anni. Un film assolutamente nuovo, teso e coinvolgente eppure semplicissimo, e con una stupenda Xun Zhou.
Invece The story of the closetool di Xu Buming è un film molto più riconoscibile: quello che colpisce è la bizzarria della sua trama (il rapporto quasi ossessivo-amoroso tra una ragazza e il gabinetto che si fa costruire nel cortile) che nasconde una riflessione molto trasparente sul progresso impossibile nella Cina di oggi.
Giappone
L’Audience Award se l’è portato a casa, come da copione, il giapponese Departures. Che però non ho visto. Ho visto invece Love exposure di Sion Sono, che era con tutta probabilità il film migliore del festival: l’unico a cui ho mollato un cinque nel famoso "cartoncino" con cui si vota a Udine, l’unico con cui oserei usare la Parolona Che Inizia Con La Ci. Ovviamente, non è per tutti: stateci voi quasi quattro ore a farvi bersagliare da un film che inizia come un romanzo di formazione di un giovane diviso tra daddy issues e crisi mistiche per poi diventare una commedia demenziale perversa, una love story commovente, un pamphlet satirico surrealista, e un sacco ma un sacco di di altre cose. Io ci sono stato, e ne è valsa la pena: stupendo.
Anche se tutti erano lì per Yatterman di Takashi Miike, che immagino sia l’unico film per cui state leggendo questo post. Volete sapere com’è? Molto dipende da quello che vi aspettate. Più o meno. Volete una versione fedelissima dell’anime originale? Lo è, ripetizioni comprese. Volete un film profondamente miikiano? Lo è, perversioni comprese. A me, non essendo io un grande fan dell’originale, di questo film decisamente squilibrato e non del tutto riuscito, è piaciuto più quest’ultimo aspetto: Miike riesce a tirare fuori il suo stile (avete presente quei momenti in cui tutto ma proprio tutto si ferma e anche le situazioni più triviali e deficienti diventano come per magia profonde e commoventi?) e le sue ossessioni (per esempio una specie di pazzesca versione cartoonesca del finale di Gozu, ma basterebbe il look di Kyôko Fukada, AKA Lady Doronjo) e la sua capacità visionaria (il film è molto molto bello da vedere, per chi se lo chiedesse, quasi di più nelle parti statiche che in quelle d’azione) persino in un film così, che è progettualmente – e irresistibilmente – fatto di plastica.
Il terzo film giapponese visto è stato Climber’s High, da cui però sono fuggito dopo una quarantina di minuti perché mi faceva schifo, e – nonostante qualcuno del FEFF mi abbia sgridato – da più parti mi han detto che non mi son perso niente.
Corea del Sud e Honk Kong
Due i film che sono andato a rivedere nonostante avessi già dato: l’occasione dello schermone del Teatro Nuovo non è una cosa a cui si rinuncia facilmente. Uno è l’hongkonghese Ip Man, incredibile biopic di arti marziali di Wilson Yip – che in sala guadagna persino punti mostrando tutta la sua potenza e il suo fascino – e l’altro è il sudcoreano The good the bad the weird di Kim Ji-woon, che nonostante non abbia spezzato il cuore del pubblico di Udine continuo a trovare un gran bell’esempio di cinema di intrattenimento dalla produzione eccellente (oltre al fatto che, lo ripeto, c’è poca gente che sa girare come Kim) con un occhio ben aperto al mercato. Non è stupido e inconsistente come sembra, e come molti dicono.
Sempre dalla Corea del Sud arrivava la commedia Scandal makers, opera prima di Kang Hyoung-chul che ha fatto un macello al botteghino in patria, e che effettivamente contiene un sacco di cose che piacciono al pubblico coreano: bimbi che fanno le facce buffe, adulti che fanno le facce buffe, storie che starebbero benissimo in un qualunque film con Hugh Grant senza dover cambiare una virgola. Il film ha fatto impazzire anche il pubblico del FEFF, arrivando secondo. Tutto ciò la dice lunga sullo stato in cui versa la commedia sudcoreana, ma devo ammettere che il film fa molto ridere – e a un certo punto, diventa un po’ l’unica cosa di cui ci interessa. Quindi, bando ai passatismi, va bene così.
Deludente invece The accidental gangster, che prova un po’ tutte le strade più modaiole del cinema di Seoul: il film in costume misto con la commedia demenziale-cartoon che nella seconda parte, senza alcuna transizione, diventa una specie di serissimo e pallosissimo melò con le arti marziali – e un duello finale che è tra le cose più yeeuch che io abbia visto fare in un film coreano. Siamo seri, suvvia.