Hong Kong

Election 2 – Harmony is a virtue (Hak se wui yi wo wai kwai)
di Johnnie To, 2006

Quando vidi Election, sollevai qualche dubbio. Non sul film in sé, indiscutibilmente bellissimo, ma sul fatto che, con un tale materiale, To non fosse riuscito a fare un film che mi facesse schizzare pezzi di cervello in giro per la stanza in preda ad attacchi di gioia incontrollata. Ebbene, Election 2 ha tutto quello mancava al capitolo precedente, anzi, molto di più.

A lottare per l’elezione biennale della presidenza della triade stavolta ci sono Louis Koo e – ancora una volta – l’incredibile Simon Yam: e in ballo questa volta ci sono, da una parte il compromesso tra i propri sogni e l’ineluttabile violenza della politica e della società, con la quale (e con il sangue di chi ci si mette in mezzo) gli stessi sogni vanno sporcati, dall’altra c’è la lotta interiore tra le proprie responsabilità di padre e il delirio di onnipotenza di una ybris profonda e straziante che aumenta notevolmente il manto tragico che ricopre la saga.

Un film nerissimo, caustico e implacabile sull’annichilente spiralità del potere, spaventosamente violento eppure uno dei film più rigorosi e “morali” di un autentico grande maestro del cinema asiatico: incredibile che nel giro di pochi mesi To abbia diretto un film asciutto come Election 2 e uno strabordante come Exiled. Ma ancora più incredibile è che siano entrambi a tanto così dal capolavoro assoluto.

L’ho già detto, magnifico? Magnifico.


L’edizione DVD hongkonghese, double-disc e region-free, si può acquistare qui su Play Asia a 13 euro circa.

My kung fu sweetheart (Yee maan bei kup)
di Wong Jing, 2006

Ben poche le cose da dire sull’ultima fatica di Wong Jing, uno dei più prolifici registi e produttori hongkonghesi, quello di God of gamblers, quello che ha scoperto e lanciato Stephen Chow e la sua cumpa. Purtroppo però in MKFS c’è la cumpa, quasi al completo, ma Chow aveva altri impegni, probabilmente con delle femmine.

Una commedia di arti marziali stupidina stupidotta che sembra essere uscita dalla Hong Kong di una volta, ma che – se la guardi da vicino – ti rendi conto che no, non è retrò, è vecchia. C’è una bella differenza. Quasi una reprise malriuscita di Kung Fu Mahjongg, che non ho visto, ma in ogni caso davvero bruttarello. Si salvano l’esaltante parodia di una celebre scena di The mission (sì, quella della pallina di carta), il falco donnaiolo fatto con un makeup degno del bagaglino, la presenza spassosa di Yuen Wah (il padrone di casa di Kung Fu Hustle, per capirci).

E poi ovviamente c’è Cecilia Cheung, che canta anche una canzoncina con la sua splendida voce rauca. Con Cecilia, ogni volta è come la prima volta: quasi ne varrebbe la pena solo per lei, ma anche no.

Bio Zombie
di Wilson Yip, 1998

L’anno prima di firmare il bellisimo Bullets over summer, Yip si cimenta con quella che all’apparenza potrebbe sembrare una scemenza demenziale, ma che è qualcosa di profondamente diverso. Ovvero, il film inizia come una commedia sgangherata e scanzonata (con due attori che sembrano divertirsi molto a recitare la loro parte da small time crooks) mista ad elementi da orrore di serie B (le multinazionali che fabbricano zombie a scopi militari, roba così). Ma proprio quando pensi che il film sia un’operazione derivativa e post-jacksoniana dimenticabile in fretta, per alcuni versi davvero troppo grezza e facilona, il film prende una piega veramente horror. Nella seconda parte ma soprattutto negli ultimi 20 minuti, più o meno, il ritmo non lascia più nessuna tregua.

Non una parodia dello Zombi di Romero quindi, anche se il centro commerciale dentro cui è ambientato tutto il film è un evidentissimo omaggio, bensì un film in cui i generi si intrecciano, si incrociano, comunicano tra di loro. Difficile che un occhio psicologicamente poco preparato possa apprezzare il misto di comedy e terrore, figuriamoci il melò: il personaggio del cuoco-zombie innamorato della bellissima Angela Tong, oppure la sequenza inaspettata quanto struggente della morte di Sam Lee, sono le tipiche cose che Il Popolo Bue definirebbe "ridicole". Invece sono proprio questi capovolgimenti di fronte a dare valore al film, come il finale apocalittico (quello sì, romeriano), o il linguaggio dei videogiochi che entra a spallate all’interno dell’inquadratura, oppure i molti momenti in cui quasi non si capisce più che film si sta guardando, e ci si limita a divertirsi.

Per tutto questo, è impossibile non pensare ad un modello, forse sintomatico, per Shaun of the dead. E anche se personalmente preferisco quest’ultimo, Bio Zombie è un film davvero sorprendente.

Bullets over summer (Baau lit ying ying)
di Wilson Yip, 1999

"Dobbiamo bere 8 bicchieri d’acqua e dormire 8 ore al giorno. Non dobbiamo fumare troppo e bere troppo vino. Non dobbiamo dormire troppo. Dobbiamo fare visite mediche regolarmente. Non dobbiamo attraversare la strada con il semaforo rosso. Non ci si deve sposare dopo i 30 anni. Non dobbiamo incrociare le gambe quando stiamo seduti. Dobbiamo spegnere il cellulare quando guardiamo un film. Non c’è niente che si possa o non si possa fare."

Dopo una serie di film di genere (prevalentemente horror) che non hanno avuto un grande riscontro tra gli appassionati, il settimo film di Wilson Yip è invece considerato dagli amanti dei film di Hong Kong – quasi sempre accorpato al suo successivo Juliet in love – tra i massimi risultati del cinema dell’ex-colonia nello scorso decennio.

Cosa rende tanto speciale Bullets over summer? La domanda, per quanto corretta, è pleonastica. Perché non è necessariamente una pietra miliare sotto il punto di vista produttivo (si rifà in qualche modo ai film coevi della MilkyWay, creando una sorta di "diversione laterale di genere" altrettanto anarcoide e recuperando le atmosfere malinconiche del primo Wong Kar-wai) o linguistico – dove comunque eccelle grazie alle doti rare di Wilson Yip, peraltro mai spocchioso nella messa in scena, ma morbido e preciso, anche se non si risparmia virtuosismi (la scena della moneta), ma grazie soprattutto alle intepretazioni degli attori e allo scavo psicologico dei personaggi (per entrambe le cose, enorme Francis Ng).

No, la sua bellezza è più inconscia: è piuttosto un film che conquista e che spiazza senza che uno se ne accorga. Credi che sia un noir bloodshed e ti ritrovi con gli occhi lucidi di fronte ad un’offerta d’aiuto, con la bocca aperta a guardare l’ultimo slancio umano di un uomo che baratta la morale con l’amore e l’etica con la sopravvivenza, a piangere di fronte ad un ultimo appello disperato nei confronti della vita e del fato. "Ci sono sempre delle cose che si possono e non si possono fare. Ho messo dentro i soldi e dovrei avere una bottiglia di soda. Le cose che voglio sono molto semplici."

Bullets over summer è la quintessenza di ciò che vorremmo sempre trovare nel cinema di Hong Kong e che, a cercarlo bene, c’è ancora. Un film che ti resta dentro, tanto ironico e leggero quanto triste, come la sensazione irrequieta di avere ancora qualcosa da dire, e da fare, nella vita – o di averle scoperte troppo tardi, la bellezza e la semplicità della vita.

Un film incredibile, che tra l’altro vola via come una piuma, e che quando è finito già ti manca.

Ce li avete cinque euro in tasca? Compràtelo.

[FEFF8]
Chi ben comincia

ovvero due film da cui sono scappato dopo 10 minuti
la direzione si dissocia da ogni responsabilità su sì tanto affrettati
giudizi

Superkid,
CHA Chuen-yee, 2006,
action comedy drama, International Festival Premiere

Divertimento per bambini che sembrerebbe cerebroleso anche a un embrione. Al primo vagito di suoni da cartoon in un combattimento di arti marziali del reparto pediatria, ho avuto bisogno di aria. Ho già chiamato il mio analista per una pronta rimozione. Il messaggio sarebbe: quanto è brutto essere intelligenti e soli, e quanto è bello avere tanti amici. Cha, chiunque sia, è un idiota.

Hello Yasothorn,
Petchthai WONGKAMLAO, 2005,
retro-musical-comedy, International Festival Premiere

Fotografia e scenografie iperrealiste e coloratissime, in omaggio al cinema-thai-che-fu (?). Null’altro. L’attore e regista è la spalla di Tony Jaa in Ong Bak, ma il suo cazzuto amichetto avrebbe dovuto dargli una gomitata sul cranio ai tempi. Una scemenza tale che in confronto Joyce Bernal è Charlie Chaplin. E non fatevi ingannare dalle preview: non fa nemmeno ridere. Vanziniano.

[FEFF8]
Cocktail,
Herman Yau & Longisland SO, 2006,
drama, International Festival Premiere

Nonostante non sia il remake del celeberrimo filmaccio con Tom Cruise, anche qui si parla di bar, di barman, e di scaramucce amorose. Cocktail, almeno, è un film che non dà troppo fastidio. Anche se gli attori hanno tutti, chi più chi meno, delle facce da pesci sotto sale, la commedia e il tiepidissimo melodramma giovanile tengono abbastanza bene, e lo sguardo sui ventenni hongkonghesi è scherzoso ma meno pacificato di quello che sembri. Però si ha davvero troppo spesso la sensazione – come già è accaduto con 2 become 1 e con 2 young – di uno spot del ministero della salute: qui l’obiettivo della critica è chiarissimo e esplicito: l’alcolismo familiare, la descolarizzazione, e via via moraleggiando. Comunque, grazie a una buona regia (ottima soprattutto vista la monotonia delle location) e a un ritmo decoroso, si più far finta di niente. In definitiva, un filmetto. Vivamente sconsigliato la mattina presto a chi abbia bevuto un bicchiere di troppo la sera prima, a rischio rigetto.

[FEFF8]
The Imp,
Dennis YU, 1981,
Horror Day

Recuperato da chissà quale scatolone polveroso per dare un po’ di spessore a un horror day che non ha più molto significato con l’avvenuta decadenza del new japanese horror (o almeno non quello che ha avuto anni fa con The ring e Ju-on), The Imp è considerato tra i punti fermi dell’horror hongkonghese degli anni d’oro. In realtà più che alla cultura locale, il film, a basso costo ma senza effetti di ridicolaggine e una confezione professionale, è ricco di riferimenti ai colleghi americani (L’esorcista di Friedkin) ed europei (Rosemary’s baby di Polanski, tutto l’horror italiano). Ciò non toglie che – nonostante una proiezione disastrosa, perché la pellicola era irrevocabilmente virata in rosso – il film conservi molto fascino e persino qualche bello spavento. Musichette argentocarpenteriane, guardiani zombi e bambine urlanti vestite di rosso, un ascensore negli abissi infernali e un geniale fermo immagine finale. Un horror che adesso forse non funzionerebbe più, ma che visto nel suo contesto è anche qualcosa di più che un mero oggetto strano ed affascinante.

[FEFF8]
2 Become 1,

LAW Wing-cheong, 2006,
drama, International Festival Premiere

Ricordando il caso di Patrick Yau, è lecito o no aspettarsi qualcosa da un film Milkyway anche se non è diretto da Johnnie To ma da uno del suo staff? Law è il montatore di The mission, per dirne una, eppure – sarà che i film sulla malattia io proprio non li reggo – il suo lungometraggio d’esordio non è altro che uno spottone ministeriale sulla prevenzione del cancro al seno travestito da commedia melò. Law cerca di aggirare un progetto nato spacciato evitando almeno qualche patetismo di troppo, e facendo finta che non sia appunto uno spottone ministeriale. A far da contorno, scherzetti e schermaglie amorose, e horror vacui formale: due palle al cubo. A vedere quella dicitura ("a Milkyway film") sui titoli di testa piange il cuore e il telefono, ma d’altronde cosa potevamo pretendere da un progetto simile? A qualcuno, sono sicuro, sarà pure piaciuto: Miriam "Dumplings" Yeung a parte, io l’ho trovato atroce.

[FEFF8]
Dragon Squad,
Daniel LEE, 2005,
action thriller, European Premiere

Si vede facilmente, che Dragon squad è un action da esportazione. Simile all’idea – errata – che uno "straniero" potrebbe avere del cinema contemporaneo hongkonghese, il film è tutto montaggio e niente regia, tanti proiettili e nessun personaggio. L’antipode di Johhnie To e di Love Battlefield, e quindi l’antipode di tutto ciò che c’è ancora di bello nel cinema action di Hong Kong. Niente di criminale, comunque, e come al solito un dito sopra i prodotti che Stevel Seagal – proprio lui, ma qui produttore! – fa confezionare negli states. Ma insomma, un filmetto di nessun valore, e escluso qualche lampo di luce nella sparatoria centrale e nel finale graziealcielo esageratissimo, immediatamente da dimenticare. Sammo Hung fa jogging fumando il sigaro e ha delle gran tettone. Il personaggio di Michael Biehn – proprio lui, ma qui terminator! – si chiama Petros Davinci. Non ho altro da aggiungere.

[FEFF8]
I’ll Call You,

LAM Tze Chung, 2006,
bittersweet comedy, International Festival Premiere

Se dico Lam Tze Chung, vi dice qualcosa? Difficile. Ma se dico "l’amico ciccione di Stephen Chow"? Ecco, Lam Tze Chung è l’amico ciccione di Chow in Shaolin Soccer e Kung Fu(sion) Hustle. All’amico ciccione di Stephen Chow hanno dato una cinepresa digitale e un po’ di soldi e gli hanno detto: hai fatto film con Chow, conosci un fracco di gente, sarai sicuramente bravissimo, sei simpatico e ciccione, dai, scrivi e dirigi un film! Mistero della fede. Lam non è di certo un idiota, perché il suo filmetto qualche trovata ce l’ha, ed è fresco, naif, stupidotto, romantico. Come il cervello di un adolescente. Son cose belle. Quello che manca è appunto tutto ciò che Lam avrebbe dovuto imparare da Chow: il senso del ritmo, il tempo comico, e non ultima la regia. Perché I’ll call you - fatto persino peggiorato dalle inutili e prevedibili citazioni di Shaolin Soccer – è un film di una sciatteria rovinosa e blanda, nonostante i guizzi digitali della primissima parte. Ciò nonostante, tutta la sequenza della "prigione" (dove il protagonista vive metaforicamente il suo dolore amoroso) è molto originale, e il finale è davvero bello. Un po’ pochino, ma c’è chi si accontenta. E poi, Andy Lau che canta ossessivamente, conciato come in Running on Karma? Instant-cult.

Nota di costume, che così siete contenti: mi sono fatto una foto con Lam Tze Chung. Anzi, no, ho fatto una foto con l’amico ciccione di Stephen Chow. Siamo belli, bellissimi, e stupidissimi.

[FEFF8]
Home Sweet Home,
Soi CHEANG, 2005,
psycho thriller, Italian Premiere

Una vera delusione è tale solo se arriva da chi non te l’aspetti. Così, il regista del film più bello (tra quelli "in concorso") della scorsa edizione del FEFF, ovvero il fenomenale Love Battlefield, tornato alla vecchia passione dell’horror (suoi il divertente Horror hotline e il bel New blood - che non ho mai finito di vedere) sforna un film davvero brutto, quasi tutto sbagliato. Cheang Pou-Soi è ancora bravo a gestire la presa, ma non bastano quattro carrelli ben assestati per coprire la vergogna di uno psicothriller ambiziosissimo (per il tono storico/sociale che infila nella seconda parte) eppure decisamente tendente al ridicolo (il make-up da mascherata trasha di Karena Lam). E c’è pure la donna con la figlia e l’inquietante palazzo: è ancora davvero prescindere (o almeno non tentare di scopiazzare) dalla sterminata serie di horror nipponici e hongkonghesi degli ultimi dieci anni? Si salva ben poco, e ovviamente si salva Qi Shu. Forse è davvero la donna più bella del mondo, se mi ha fatto rimanere in sala fino alla fine.

The Shopaholics, WAI Ka-fai, 2006

[FEFF8]
The Shopaholics,
WAI Ka-fai, 2006,
comedy, International Festival Premiere

Quando ero piccolo avevo un VCR mezzo scassato, e per andare avanti veloce si doveva tenere il dito sul tasto. Io usavo un pezzo di plastica infilato nel tasto. Dopo un po’, il VCR si è rotto. The shopaholics (non) funziona così: va bene rappresentare la frenesia della metropoli con uno stile altrettanto rutilante, ma dopo 5 minuti così ci si è già rotti, a metà film si è molto nervosi, e alla fine la sensazione è quella di avere avuto per due ore la testa in un frullatore. Wai Ka-fai senza Johnnie To fa un cinema che è l’esatto opposto di quello del suo socio e amico, cioè irrefrenabile ma anche smisurato e fastidioso. Una screwball comedy con il fast-forward sempre acceso, pressoché inutile e addirittura irritante (anche per il cast, tutti bravissimi quanto sprecati): è un peccato che le fregature maggiori del FEFF arrivino (vedasi Yesterday once more l’anno scorso) proprio dai loro più cari amici. Me la faccio lo stesso la foto con Wai?

[FEFF8]
2 Young
,
Derek YEE, 2005,
romance, European Premiere

L’ultimo film del bravissimo regista di One nite in Mongkok conferma soprattutto le sue doti di affabulatore: 2 young è una commedia adolescenziale che si trasforma in un dramma generazionale, sullo sfondo di una lotta di classe all’acqua di rose, abbastanza reazionario e banalissimo. C’è persino il finale retorico in una corte di tribunale. Eppure, in sala si sentiva letteralmente il rumore dei fazzoletti di carta estratti dalle tasche: io le lacrime le ho asciugate con la maglietta. Piacevolissimo e vendibilissimo, quindi, altro che pacco: un prodotto tra quelli per cui ci si meraviglia che il cinema hongkonghese (anche ora che "non è più quello di una volta") non innondi le sale occidentali. Cast strepitoso, ma standing ovation per Eric Tsang e per i suoi "assoli", capace di oscurare persino Anthony "prezzemolino" Wong. Fiona Sit è la fidanzatina che avreste sempre voluto avere: attenti, però.

[FEFF8]
Isabella
,
PANG Ho-cheung, 2006,
drama, Italian Premiere

Ambientato a Macao durante i turbolenti giorni del "passaggio di consegne" tra Portogallo e Cina, Isabella continua in un certo senso il percorso di Beyond our ken. Anche qui una storia di dubbi e rivelazioni e mezze verità, anche qui la difficoltà o impossibilità di rapporti, anche qui una confezione lucida ed estetizzata, anche qui un umorismo cinico e understated. In qualche modo, Pang calca un po’ la mano sui suoi "stilemi", e il film risulta più stancante e meno fresco del precedente: ma dall’altra parte, in realtà, lo studio dei personaggi rivela una maggiore profondità, e la struttura incatenata con i "cartelli" crea il contesto in modo originale. Questa storia di un rapporto padre-figlia "ribaltato" (sulla necessità di essere figlia, e di essere padre) apre forse la strada ad un nuovo percorso, più "adulto", ma comunque Pang si conferma uno degli sguardi più interessanti del cinema dell’ex-colonia. E poi, di fronte a una fotografia e a una colonna sonora così belle, la prima giocata anche sui cambi repentini di luce naturale e la seconda sui contrasti culturali tra i due paesi, io proprio non resisto. Bravissimi i due attori, e inutile soffermarsi sulla belezza di Isabella Leong. Anthony Wong compare tre volte, si strafoga, e insulta la cucina portoghese.

FEFF8
Hong Kong Nocturne
,
INOUE Umetsugu,
Hong Kong 1967

Il più celebre tra i musical girati dal regista giapponese (presente a Udine, un delizioso vecchietto claudicante) ad Hong Kong per i fratelli Shaw è una vera meraviglia, nel senso più musical del termine: la storia-fiume di tre sorelle, tanto colorata quanto funerea, dall’emancipazione familiare, alla decadenza, alla perdita, alla riscossa. In un mondo fatto di sogni e fantasmagorie dove la musica (e il musical) è un luogo a parte dove la morte e la malattia non esistono più, un mondo (l’unico) dove poter essere felici. E cantare! Ballare! Suonare! Gara di figaggine pop tra le tre protagoniste, e molti i numeri da antologia del genere tout court. Tra i tanti, impossibile almeno per me non citare uno – da amore a primo sguardo – che si trasforma magicamente dal sogno di un personaggio a quello di un altro.

Perhaps love (Ru guo – Ai)
di Peter Ho-sun Chan, 2005

Come segnala Gokachu, se il trionfatore degli HKFA 2006 è il bellissimo Election, che ho già avuto l’occasione di sottovalutare, il "secondo arrivato" è di certo il nuovo film di Peter Chan, assente da anni dalla scena dei lungometraggi (ma responsabile nel frattempo del meraviglioso "segmento" Going home), film che tra l’altro ha chiuso con i suoi fuochi d’artificio canterecci la più recente mostra veneziana. Perhaps Love, va detto, ha le carte in regola per essere un nuovo pilastro delle cinematografie che girano intorno alla Cina, eppure – sorte toccata ad altre recenti lanciatissime operazioni – è stato da alcuni bistrattato.

Mi tocca ammettere che tale pilastro non è, e non sarà, ché non tutto gira per il verso giusto: forse per il tono produttivo, troppo cinese e troppo poco hongkonghese, e decisamente troppo rivolto a ovest. Quindi si cita il capolavoro di Gondry (con il quale condivide però ben più che la mera inquadratura dall’alto sul ghiaccio) a manetta, e si cerca di fare nelle parti musicali "cose luhrmanniane" a tutti i costi, riuscendo però molto meglio nelle sequenze non cantate e non "ballate" (ma le coreografie sono poche, ed il risultato è più vicino a Chicago che, come scrivono tutti, a Moulin Rouge). Al brodo si aggiunga un pizzico di maniera e frigidità intellettuale q.b., senza contare il panasiaticismo ruffiano che da giorni riempie i post di questo blog. Non è colpa mia, ditelo ai cinesi.

Nonostante tutto ciò, Perhaps Love è proprio, passatemi il termine, una favola. Diretto con grande cura e ovviamente fotografato in modo eccelso (le parti pechinesi sono opera di Chris Doyle, e si vede), è visivamente bello tanto da saper togliere il fiato. E con tutti i suoi difetti e le sue contraddizioni (più che imperfezioni), è un film che parla in modo raffinato ed originale – seppur contorto – del rapporto tra il cinema e la memoria, tra l’amore e l’oblio, e che non nasconde una visione – politica, nel suo essere puramente sentimentale – del rapporto culturale, cinematografico e linguistico tra l’ex-colonia e la mainland.

Insomma, se non vi siete emozionati anche voi di fronte alla ritrovata e dolorosa grandezza (su, forza, coraggio, negatelo) di Jackie Cheung, o agli occhioni di Zhou Xun e gli occhietti di Takeshi Kaneshiro, entrambi seduti sul ghiaccio a frignare, siete solo dei mostri senza più un cuore. Ecco, l’ho detto. Sigh. Ora mi asciugo il naso e passo ad altro.

The myth (San wa)
di Stanley Tong, 2005

Più che riuscire veramente nei suoi molteplici intenti, l’ultima fatica di Jackie Chan tornato in patria è soprattutto un’utile cartina tornasole dell’andazzo del cinema d’intrattenimento cinese, anche se San wa è per gran parte un prodotto "hongkonghese". Per esempio, l’ormai inevitabile "abbraccione panasiatico": è recitato in cinque lingue, e Jackie è affiancato dalla coreana Kim Hee-seon e dall’indiana Mallika Sherawat. E fin qui va bene, vista l’abbacinante bellezza di entrambe. Ma ben più evidente è la tendenza (un po’ ruffianotta, già da principio) ad attaccarsi ad ogni trend possibile, cercando di essere sia l’epica wuxia di Tsui Hark sia la tiepida avventuretta di Feng Xiaogang.

The myth è quindi spezzato in due: con la scusante della trama (assurda ma gradevole o gradevole perché assurda) il film prosegue per due binari ben separati: il presente, con un cripto-Indiana Jones con il boxer sorridenti che va in giro per il mondo insieme a un Tony Leung Ka-fai sempre più cocainofeno a trafugare tombe di antichi eroi di cui è l’atletica reincarnazione, e il passato, con le sue armature pesanti, le battaglie all’arma bianca, le sue belle tendenze melodrammatiche malcelate del cazzo. Ma ehi, non siamo in un mondo fatto di cioccolato: i binari, infatti, e purtroppo, e ovviamente, faticano a ricongiungersi. Se mai lo fanno.

Insomma, si assiste ad un film estremamente e inevitabilmente sbilanciato, ambiziosissimo e potenzialmente rovinoso, per l’indecisione tra il jackiechanismo più semplice e divertente e le esigenze commerciali realizzate nel modo più bieco immaginabile: ma perché i cinesi non rubano gli animatori 3d ai coreani invece di rubare le loro attrici fighe? A spuntarla però è l’ancora incredibile e ancora riuscitisso furore comico, plasticamente geniale e ancora – miracolosamente – protofilmico, del corpo danzante di Jackie Chan.

Grazie e solo grazie a quest’ultimo, divertimento assicurato per buona parte del film, e pochi cazzi: bastava questa frase. Un film in cui c’è una sequenza come il combattimento sul tapis roulant di colla non si può, ripeto, non si può bocciare.

Fearless (Hou Yuan Jia)
di Ronny Yu, 2006

Il film con cui Jet Li dice addio al cinema di arti marziali è la storia vera di un "eroe cinese" dei primi del secolo, Hou Yuan-Jia, capace con una serie di storici combattimenti di rinverdire il senso di appartenenza nazionale di un popolo vessato dal colonialismo e dall’occupazione di inglesi, americani, tedeschi e giapponesi. Una storia ampiamente romanzata, visto che i nipoti di Hou, che nel film "non ha" figli, si sono incazzati non poco: ma che importa? Il film parla di rispetto, di codice, di onore, di virtù. E, sembra incredibile, funziona tutto alla perfezione.

Sarà che fa un gran piacere vedere un 42enne Jet Li nel pieno delle sue forze e del suo carisma, e capace (persino, o meglio ancora) di ormai inattese intensità interpretative, o che rende felici vedere un regista che fu strabiliante come il Ronny Yu mostrare di non avere disimparato a fare cinema nonostante i recenti e alterni trascorsi hollywoodiani, o che il film è talmente nostalgico di quel modo di fare cinema di cui i due erano tra i pilastri con film come Once upon a time in China o The bride with the white hair. Fatto sta che ci si crede, e ci si crede fino in fondo.

D’accordo, Fearless è un film mutilato, che per esigenze di mercato rinuncia a quasi un’ora: con essa (oltre che a Michelle Yeoh, ahinoi) si rinuncia altresì a molta profondità, soprattutto nei personaggi di contorno. E inoltre si casca inevitabilmente in qualche iperbole retorica di troppo – seppur conforme al genere. Non è quindi un capolavoro, al cospetto dei classici. Ma è un film quasi impensabile negli anni dell’estetizzatione zhanghiana (libera comunque di essere gradita, deh!), un gongfupian puro che nel 2006 non speravamo quasi più (e che siamo lieti) di vedere.

Invece eccolo, il nostro eroe, il massimo corpo-atletico del meravigli-oso cinema di Hong Kong, le sue acrobazie straordinarie (organizzate dal solito Yuen Woo-ping, riconoscibile in ogni singolo calcione), la dolorosa profondità della sua – semplice e lineare, ma commovente – redenzione, e il suo martirio. Bentornato, Jet Li, e ancora addio.

Visto che ultimamente si discute della necessità di "preparazione culturale" a determinati film, è consigliabile prima della visione (ma anche dopo va bene) questa lettura. Impossibile infine non linkare Hellbly, che ha smosso la mia aspettativa, meno che tiepida, convincendomi invece a ricredermi e a vedere il film, grazie a questo post.

Election (Hak seh wui)
di Johnnie To, 2005

Mettiamo subito le cose in chiaro: l’ultimo di Johnnie To è un gran bel film, e rimette da parte i dubbi che la brutta esperienza di Yesterday once more avevano sollevato. Ciò nonostante, non mi posso trattenere dall’ammettere che da Election mi aspettavo di più, e che è un altro il To del mio cuore, quello di A hero never dies, The mission e (per non fare i nostalgici) Throw down. Non che To sia irriconoscibile: la sua firma e il suo stile sono ben distinguibili e ancora altissimi, ma forse mi piace il To più curato, barocco, teorico, e anche (perché no) action che non questo To così serio, dimesso, violento e soprattutto politico.

To è sempre un maestro e tale si riconferma: solo per un paio di sequenze meriterebbe quella valanga di Golden Horses che si è portato a casa. Per esempio il finale, atteso e inaspettato al tempo stesso, dotato di tempi di azione e reazione perfetti, una ferocia e una freddezza incredibili, tanto da ribaltare la mediocrità di alcune scelte precedenti, e tanto da chiarificare senza parole ma con la forza di una pietra sul cranio il discorso politico sulle triadi. Che per tutto il film sono al centro di una sorta di apologia, in quanto organismo democratico all’interno del regime con cui l’ex colonia si trova suo malgrado a convivere da molti anni.

Piuttosto, è l’essere così spezzettato a non giovare al film, e a guastare un po’ la festa. Si seguono le vicende dei due protagonisti rivali e dei molti comprimari senza alcuna fluidità né troppo senso della coralità (a To riescono meglio i duetti e gli assoli, non c’è che dire). All’inizio c’è persino un po’ di noia, anzi troppa. Il film si riprende nettamente nella bella parte dedicata alla ricerca del bastone, feticcio del potere, in Cina. Le questioni etiche, politiche e morali aumentano sempre più, ma il meglio To lo dà comunque in scene come quella del "soldato fedele" (grande mangiatore di cucchiaini) che in mezzo ad una strada difende da solo l’onore e l’immagine della "famiglia".

Quasi quasi sarebbe tutto al suo posto, se non fosse per la sequenza del rito di iniziazione: altrove molto gradita e in effetti un intermezzo alquanto impensabile. Ce la poteva risparmiare: deludente, fastidiosa e inutile, nonostante l’incredibile colonna sonora del film continui a picchiare nei nostri cervelli. Ma poi c’è il finale, che demolisce il senso del sacro con cui i riti delle triadi erano stati ritratti, con un cinismo, con un pessimismo e con una violenza disturbanti e inquietanti.

Aspetto con trepidazione che qualcuno si decida a proiettarlo in Italia, magari non ai primi di Agosto come Breaking news e magari con un doppiaggio che non butti alle ortiche un cast strepitoso, ma, a costo di sembrare uno che cerca il pelo nell’uovo a un film simile, non riesco ancora* ad innamorarmi di lui.

*conto in un futuro ripensamento

[i film che non ti stanchi mai di rivedere]