Hong Kong

The longest nite (Aau dut)
di Patrick Yau, 1997

A detta di molti, una delle migliori produzioni della Milkyway di Johnnie To – che qui è produttore, ma se il nome nei titoli viene per ultimo e ben separato dai precedenti, ci sarà un motivo – è una breve ma significativa caccia all’uomo dagli echi hitchcockiani, con Tony Leung prima severo poliziotto torturatore e corrotto, poi vittima di una trappola preparata con dovizia di particolari da qualcuno che lo vuole incastrare e/o vedere morto. Dall’altra parte – ? – della barricata, il solito splendido Lau Ching Wan, qui con testa rasata e palletta rimbalzante, e i due protagonisti sono "come quella palletta: dove andiamo e cosa facciamo non lo decidiamo noi".

Un gioco al massacro – in tutti i sensi – che parte come un normale noir hongkonghese ma violentissimo e visivamente sorprendente, prosegue come un imponente duello virile a due – con i soliti splendidi tempi morti della fucina di To: vedasi il dialogo nella cella – arriva al finale passando per una citazione di Welles che diventa quasi metafisica nel suo svolgimento per poi concludersi con un finale tanto scioccante e nichilista quanto quello di un’altro film di Yau per To (Expect the unexpected), non altrettanto coinvolgente per chi scrive, ma comunque durissimo e dalle serie implicazioni teoriche.

Bello da matti.

36th chamber of shaolin (Shao Lin san shi liu fang)
di Liu Chia-Liang, 1978

Cos’è la 36esima "stanza"? Nel progetto di San Ta, monaco per vendetta, è quella che permetterà l’apertura dell’arte del combattimento ai non-iniziati, alla gente comune, così che anch’essi possano usufruire della saggezza degli shaolin per difendersi dai soprusi e dalle angherie dei potenti di turno.

Racconto "rivoluzionario" di un’apertura sociale delle arti marziali fuori dalle mura chiuse dei templi (dove li mettiamo gli shaolin che danzano a teatro?) o mero pretesto per mostrare una sequela di combattimenti? Opterei per la seconda ipotesi, in alcuni casi davvero evidente. Ma se vi piace il kung fu troverete comunque pane per i vostri denti: duelli meravigliosi, un bastone tripartito di bambù, e sopra tutto un Gordon Liu (per intenderci: "folle" in Kill Bill, Pai Mei in Kill Bill 2) assolutamente incredibile. In casi simili, può bastare per mettersi ad urlare dalla gioia.

Per il resto, è inevitabile linkare l’imprescindibile MurdaMoviez. Lui ne sa a pacchi.

Dragon inn o Dragon gate inn (Long men ke zhen)

di King Hu, 1966

Uno dei film più noti di uno dei più celebrati registi della vecchia scuola di Hong Kong è un insolito wuxiapian dal respiro western, la storia di una sosta e di un assedio, una vicenda di onore e vendetta in cui si inserisce la figura misteriosa e sorridente al tempo stesso del protagonista, mercenario pronto a scoprirsi al servizio di un’idealismo storico, contro i soprusi e la coercizione violenta.

Aperto da un incipit didascalico e chiuso da un interminabile duello (impari, ma il fine giustifica i mezzi) contro un terribile biondissimo villain, il film è un susseguirsi di combattimenti (splendido quello che per primo vede protagonista la ragazza) ed attese, voli impensabili e arguzie dialettiche, il tutto al servizio di uno spettacolo che va al di là del pallido divertimento (rappresentando anche uno struggimento etico e sacrificale), ma, diamine!, appassiona e non fa sentire affatto la sua età.

Più d’una, forse sintomatiche (ma chissà), le sensazioni di un’ispirazione leoniana.

Il proprietario della locanda si chiama Wu Ming, e hai detto niente.

Il film, oltre ad essere stato remakato nel 1992 niente meno che da Tsui Hark e Ching Siu-Tung, è il "protagonista" del penultimo film di Tsai Ming-Liang, "Goodbye, Dragon Inn", ambientato in un cinema dove si proietta il film stesso. Il v.u.b. non l’ha ancora visto, ma lo farà al più presto.

Love on delivery o King of destruction (Po huai zhi wang)

di Lee Lik-chi (e Stephen Chow), 1994

Questo film, con Stephen Chow protagonista insieme alla sua solita "corte dei miracoli", pur essendo per molti versi minore e non avendo la verve dei lavori migliori e successivi di Chow, condivide però con quelli la poetica di fondo e la struttura narrativa, già chiara, quella della rivincita dei reietti attraverso l’apprendimento delle arti marziali (per essere molto, molto sintetici).

Sì, perché al di là della semplicità della trama e di certe ingenuità, quello che conta è che Chow è sullo schermo, ed è, con il suo solito e incredibile egocentrismo, irresistibile: appare come Terminator per poi rivelarsi un povero cameriere troppo buono e ingenuo, è bistrattato da tutti fino a limiti quasi fantozziani. Almeno fino alla rivalsa finale.

Non si ride quanto in God of cookery o From Beijing with love, ma si ride comunque parecchio. E come al solito, sotto sotto c’è del genio, basta cercarlo: come nella scena in cui Christy Cheung viene inseguita da un’orda di uomini infoiati con la maschera di Garfield (sic!), e soprattutto l’incontro sul ring (oltre alla sua assurda "preparazione"), la cui tattica vincente è voltare le spalle all’avversario mentre lo sparring partner lo distrae lanciando oggetti in aria.

Da sbellicarsi l’apparizione divina di Jackie Cheung nel ruolo di se stesso (un po’ come Jackie Chan in King of comedy). La Cheung non raggiunge nei nostri cuori altre muse di Chow (come l’omonima Cecilia, o Vicky Zhao), ma è davvero molto carina. 

[the returner]



Pur con un ritmo probabilmente decelerato almeno fino a settembre, e in attesa di un post arretrato e procrastinato all’infinito (si tratta dell’ultimo bellissimo film di Romero), il blog riapre.



E mentre il v.u.b. scopriva che a Narnia gli animali parlano solo se li sai sentire, che Via del Campo fa davvero piangere e non se n’era mai accorto, che sui giovani d’oggi forse aveva ragione Manuel Agnelli, e che la Sicilia da lui esplorata in fretta ma con passione è forse il paradiso terrestre (o meglio), nei cinema sono usciti due film di cui da queste parti si è già parlato. E se n’era parlato bene.



Il primo è Breaking News, è uscito il 5 Agosto, ed è il primo film di Johnnie To ad essere distribuito in Italia. Ovviamente se lo trovate ancora in giro, lo consiglio più che vivamente, un po’ perché vale la pena di scoprire (finalmente anche noi) l’Autore hongkonghese che è tra gli ultimi pochi baluardi di un cinema mitico che forse non c’è più, un po’ perché questo è, tra i suoi lavori recenti, uno dei più riusciti. Attendendo Election, che uscirà in Autunno. fate un salto al multisala: non dovrete nemmeno spegnere il cervello come al solito.



Il post, qui




Il secondo film, uscito ieri 12 Agosto con un inspiegabile mese d’anticipo rispetto a quanto preannunciato, e con un lancio peggio che suicida (praticamente inesistente, senza contare la ridicola data d’uscita) è la Guida galattica per autostoppisti, attesissima riduzione cinematografica ad opera di Garth Jennings del primo capitolo dell’omonima saga letteraria del compianto Douglas Adams, visto in anteprima al primo Biografilm Festival di Bologna. E se i libri di Adams sono insuperabili, il film possiede una inaspettata e apprezzabile coerenza con il testo d’origine ed è comunque un vero spasso, con alcune trovate (soprattutto di adattamento) davvero geniali. Provare per credere. Su, andate al cinema: almeno fa fresco.



Il post, qui



Il 5 Agosto, oltre a Breaking News, la tremenda spinta orientofila ferragostina ha fatto uscire pure (chissà dove) Silver Hawk (di cui in giro si legge peste e corna) e il giapponese Returner di Takashi Yamazaki, visto lo scorso Gennaio al Future Film Festival di Bologna. Oltre ad essere proprio brutto, il film è stato pure trattato in sede di montaggio come il fondo di barile che è. Se volete andate pure, ma poi non dite che non vi avevo avvertito.


Il post, qui.

The killer (Die xue shuang xiong)

di John Woo, 1989

"Them Hong Kong movies came out, every nigga gotta have a forty-five. And they don’t want one, they want two, cause nigga want to be ‘the killer’. What they don’t know, and that movie don’t tell you is a .45 has a serious fuckin’ jammin’ problem. I always try and steer a customer towards a 9-millimeter. Damn near the same weapon, don’t have half the jammin’ problems.  But some niggas out there, you can’t tell them anything. They want a .45. ‘The killer’ had a .45, they want a .45." (Samuel L. Jackson, Jackie Brown)

Sembra davvero inutile fare un post su un film come questo, ma lo faccio. Prima di tutto per coerenza, e poi perché mi rendo conto che forse c’è ancora gente che non conosce il John Woo hongkonghese, gente che non ha mai visto The Killer, pietra miliare e pietra tombale. Che cosa aspettate? Il dvd della BIM si trova ovunque e a pochi euri.

Un altro di quei pochi film che mi fecero innamorare del cinema Hong Kong, tanti anni fa. D’accordo, forse Bullet in the head è più bello (ed è il suo vero capolavoro), Hard Boiled è più divertente, e gli A better tomorrow (1 e 2) sono più smargiassi: ma niente da fare, qui non ci si confronta con un semplice film, ma con la statura del mito. Per me per la prima volta in cantonese (evitate se potete il tremendo doppiaggio italiano), il film è pura commozione, così com’è puro melò.

Quest’ulteriore, ennesima visione, mi ha causato una riflessione che forse tutti voi avevate già fatto: amicizia virile, sì, certo, come sempre. Soprattutto tra i due protagonisti e i rispettivi mentori. Ma il rapporto tra i due protagonisti non vi sembra attraversato da un’evidente tensione omosessuale? Foss’anche, ben venga: invece di spegnere la pulsante fiamma di sangue che incendia il film, rende più speciale l’attaccamento puramente "morale" del killer alla cantante, e trasforma The killer in una disperata e nichilista, astratta ma caldissima, storia d’amore. E morte.

Breaking news (Dai si gein)
di Johnnie To, 2004



Ciascuno dei più recenti film di Johnnie To ha i suoi detrattori, e ciascuno di loro ha le sue ragioni: freddezza per PTU, indecisione per Running on karma, inconsistenza per Throw down, assoluta vacuità per Yesterday once more. Al di là del fatto che io non riesca ad essere detrattore di alcuno dei precedenti (a parte l’ultimo, ovviamente), facendo pure la figura di quello che si mangia tutto quel che To mette in tavola (e fieramente!), Breaking news è forse tra i più bistrattati. Eppure è un film nevralgico e appassionante, intelligente e originale, e girato come dio comanda.



Il problema nasce proprio dal quell’incipit diventato ormai famoso: un appostamento che diventa sparatoria, in sette minuti (circa) senza stacchi, uno dei piani-sequenza più incredibili visti sullo schermo negli ultimi anni, che oltre ad essere di complessità quasi impensabile, ribalta con la sua forma traballante il recente statuto di piano-sequenza digitale, e allo stesso tempo le convenzioni (soprattutto ritmiche) del genere action, per di più scegliendosi un set difficile e "chiuso", una strada a senso unico. E’ normale che poi il film viva all’ombra di una scelta così radicale.



Ma lungi dall’essere meramente estetica: tutto il film è poi incentrato su questa ricerca sull’immediatezza e la "contemporalità" dell’azione, che si riflette sul tema principale, quello dell’invadenza dei media, e soprattutto della manipolazione della verità. Vedere per credere non ha più senso, e così l’assedio, da normale "canone noir" di lunga tradizione (non solo hongkonghese), diventa una guerra che si combatte su due livelli: quello delle armi, la vita e la morte (per cui si parteggia con i PTU) e quello dell’immagine, la verità e la menzogna (per cui non si può non simpatizzare con i "cattivi").



Breaking news è ricco, robusto e corale, con spazio per la morale e la dignità, e con un bellissimo triangolo di morte nel finale, è un film che può deludere solo alcuni fan molto accaniti di To, perché forse sembrano perdersi per strada quei preziosi e mai troppo citati "tempi marginali" (ma la sequenza del doppio pranzo è però in queste corde): però l’attenzione non è affatto abdicata al semplice e vacuo divertimento, semplicemente è spostata altrove.



Nelle sale italiane dal 5 Agosto 2005.



Sì, avete letto bene Breaking news esce in Italia. Ed è il primo film di Johnnie To, dopo il DVD di The Mission, ad uscire in sala in Italia. Ovviamente in una data ridicola, ma è già qualcosa.

Forbidden city cop (Daai laap mat taam 008)

di Stephen Chow e Vincent Kok, 1996

Stephen Chow fa per la seconda volta la parodia di James Bond (stesse silhouette nei titoli – con Chow che lecca la tipica bond-ballerina – stesso tema musicale, il protagonista che si chiama Ling Ling Fat, ovvero 008). Ma questa volta invece dell’action ci mette di mezzo il wuxiapian, e i risultati sono persino migliori, e comunque più complessi, rispetto al precedente From Beijing with love.

E l’idea è ancor più corrosiva se si pensa al contrasto tra personaggio e contesto, sia storico che cinematografico: in opposizione ad un cinema che tende ad elogiare la tradizione (i mitici lottatori volanti e il rigore religioso delle arti del combattimento) contro la modernità, qui i combattenti fanno subito una brutta fine mentre la spunta Ling Ling Fat, imbranato nelle arti marziali ma intelligente e strambo inventore di aggeggi, in una rivincita dell’apollineo che è molto più destruens della semplice parodia.

Ovviamente, oltre a una forma smagliante (grazie anche alle buone coreografie), in primo piano c’è la comicità geniale e demeziale del comico Chow. E non solo, anche una struttura originalissima che parte come un wuxia, che dopo un’ora si finge commedia romantica, per poi tornare daccapo. Dopo aver preso letteralmente per i fondelli lo spettatore.

E in mezzo, un film divertente fino al mal di pancia, pieno di colpi da maestro comico: l’entrata in scena rotolante, il combattimento in cui Ling Ling Fat sconfigge un nemico grazie ad un enorme magnete, il cappellone nero, la scena in cui Chow non riesce a smettere di ridere per giorni (cosa che funziona di rado, qui fa ridere fino alle lacrime), fino al culmine geniale: la spiegazione dell’inghippo costruito ai danni della prostituta Gum Tso (Carmen Lee, meravigliosamente bella), tra surreali dissertazioni metafilmiche e la consegna (sic) di un award per il suddetto inghippo.

Ancora grezzo per alcuni versi, non irresistibile dal primo minuto, e con meccanismi ancora da rodare. Ma i difetti si contano in fretta: già strapieno di quelli che saranno le sue ossessioni future (la schermaglia amorosa - qui molto meno cinica che in futuro -, o la "evoluzione" finale dell’eroe da forze altre – qui l’elettricità), Forbidden city cop è un ottimo assaggio del vero genio di Chow.

The eagle shooting heroes (Sediu yinghung tsun tsi dung sing sai tsau)

di Jeff Lau, 1993

Ve lo immaginate un film con Jackie Cheung, Leslie Cheung, Maggie Cheung, Carina Lau, Tony Leung (anzi, due: Chiu-wai e Ka-fai) e Brigitte Lin? Certo che ve lo immaginate, è Ashes of time. Ma non solo.

The eagle shooting heroes è infatti letteralmente l’altra faccia di Ashes of time: laddove Wong Kar-wai compie un’opera serissima, quasi riassuntiva e implosiva sui canoni del genere, il geniale Jeff Lau di A chinese odyssey fa esplodere quegli stessi linguaggi dall’interno. Con lo stesso cast, lo stesso romanzo di partenza, e lo stesso set. E Wong come produttore.

Operazione quasi teorica e comunque unica, in cui però la teoria passa in secondo piano rispetto al divertimento, davvero incredibile: cortigiane ricattate con millepiedi ammaestrati, la testa senza corpo di un effeminato Tony Leung e l’altro Tony Leung che fa la mossa della rana (sì, proprio la stessa di Kung Fusion), Jackie Cheung con smanie suicide, stivali alati e mostri pavidi e dispettosi, Brigitte Lin con le mani scariche e Maggie Cheung a 29 anni.

Un film strabordante.

PTU

di Johnnie To, 2003

Hong Kong, di notte, è una giungla. E in una notte come tutte le altre, con la Police Tactical Unit (PTU, appunto) che pattuglia i quartieri e due boss che si fanno la guerra attraverso piccole corruzioni e beffardi omicidi, Lo perde la sua pistola e Mike lo aiuta a ritrovarla, mentre una bella agente del Crime Investigation Department si finge irreprensibile e cerca di capire.

PTU è un noir che parla di livelli sociali, di gerarchie repressive, e del loro sovvertimento: lo si intuisce fin dalla prima apparizione di Lo, alla caffetteria, e ne è conferma la disperata ricerca di un marchio di status, e la riproduzione/falsificazione di quello stesso oggetto. Allo stesso tempo, un noir nerissimo che però in più di un’occasione si rifà alla tradizione della farsa, diventando una specie di thriller degli equivoci: scivoloni (due) su bucce di banane, telefonini scambiato per sbaglio, e via dicendo.

Come se ciò non bastasse ad indicare che PTU non è un semplice noir, il tono di To è liberissimo, e alterna momenti di terribile violenza (come la splendida scena del tatuaggio) ad un’ilarità diffusa, sorniona e irrisoria. Lo stile invece è semplicemente ineccepibile: i soliti piani lunghissimi, le solite perfette "composizioni per corpi umani e arredo urbano", e una fotografia che è un piacere per gli occhi: un affresco della notte metropolitana che ha pochi eguali, tra echi scorsesiani e kafkiani, tra il buio sotto i muri e le luci bianche e accecanti dei lampioni, fino a un (tradizionale) ricongiungimento stradale/narrativo, e a una chiusa (molto) meno tragica del previsto.

Insomma, ancora un film che dimostra l’indipendenza (economica e dal pubblico) di To. A dimostrarlo, la scena delle scale: cinque minuti contati di silenzio illuminato dalle torce elettriche, vetta di una politica di dilatamento temporale, che potrebbe essere pura tensione ma che To contrasta con una musichetta che nessun essere umano avrebbe mai messo, proprio lì. E che si concludono in modo paradossale e frustrante, con un niente di fatto. Geniale.

Visionaria e scioccante la scena delle gabbie: da brividi. Ultima menzione, meritatissima, per uno degli attori-feticcio di To, Suet Lam: splendidi il suo urlo ralenti e la sua ghignante risata finale.

Due cinebloggers: uno molto più estasiato di me, l’altro un po’ meno.

[buone e cattive]

La buona notizia è che domani, nelle sale italiane, esce Kung Fu Hustle, ultimo lavoro di Stephen Chow, trionfatore agli ultimi Hong Kong Film Awards e buon successo anche oltreoceano, con il bizzarro titolo italiano di Kung Fusion.

L’altra buona notizia è che Kung Fu Hustle è davvero splendido: vetta inaspettata (dopo film come King of comedy e God of cookery) della filmografia di un autore capace di unire rarissime doti spettacolari a un rimescolamento dei generi e dei linguaggi degno dei più grandi comici della storia, è un film divertentissimo e commovente, assolutamente imperdibile.

Il mio post è qui. Se non credete a me, leggete il blog di Gokachu o Mattia Matteucci su Pickpocket, per dirne due.

La cattiva notizia è che alla pellicola, come già al precedente lavoro di Chow (Shaolin Soccer), è stato riservato da parte dei distributori italiani un trattamento davvero vergognoso e da denuncia, stupido e paradossalmente suicida. Se n’era parlato sul (cine)forum, già ad Aprile.

Non abbiamo ancora visto l’edizione italiana, ma oltre al titolo idiota e alla promozione pubblicitaria razzista che è davanti agli occhi di tutti, i segmenti audio presenti sul sito ufficiale non fanno che confermare il peggiore incubo di noi (pochi ma buoni) fan di Chow: ancora un’antologia di dialetti italiani, ancora l’impossibilità di concepire che in un prodotto simile (solo apparentemente idiota) ci sia spazio per una vena melò, ancora le "L" al posto delle "R". L’unica cosa buona è che le durate ufficiali delle due versioni coincidono.

Io lo vedrò probabilmente anche in sala perché ho già goduto tre volte e mezza (la mezza iersera) della visione in cantonese, così come hanno fatto tutti gli altri spettatori del mondo, statunitensi compresi. Però devo consigliarvi caldamente di boicottare questo scempio. Anche se dolorosamente: non ci capita spesso di avere in sala film di tale qualità provenienti da Hong Kong (anzi mai, visto il destino incertamente divudistico di Infernal Affairs) , e se sarà un insuccesso quanto lo è stato Shaolin Soccer in futuro rimarremo ancor più a bocca asciutta.

Nonostante ciò, avete tre opzioni: (1) aspettare pazientemente il dvd e guardarlo in lingua originale; (2) se conoscete l’inglese, comprare il dvd d’importazione; (3) andare in sala e turatevi le orecchie.

A voi la scelta.

Expect the unexpected (Fai seung dat yin)

di Patrick Yau, 1998

Mai titolo fu più chiaramente messaggio, e direttamente allo spettatore: aspettati l’inaspettato, perché come la vita non è fatta di schemi prestabiliti e l’inatteso è dietro l’angolo, così può essere il cinema. O almeno, questo cinema. Ma per quanto possiamo essere stati "avvertiti", e quando siamo convinti che tutto sommato le regole siano state rispettate, che il film insomma sia finito, il celebre finale arriva come una vera pugnalata, uno sparo al cuore, meravigliosamente crudele.

Poi, da qualche parte (come su FilmTv) si dice che il resto del film sia un medio e onesto noir hongkonghese come molti altri: ma forse non lo è, a parer mio e a parer storico, perché Yau e (soprattutto) i produttori Johnnie To e Wai Ka-Fai mettono in campo una concezione del noir metropolitano che è la stessa che porterà al ben più celebre The mission, dell’anno dopo: la rappresentazione del celato e i tempi morti della vita.

Insomma, il film è sì una "caccia all’uomo", ma tale caccia sembra impensierire i personaggi molto meno della vita vera. Che è quella delle occasioni perse e delle seconde occasioni, e che è quella che tiene conto anche dell’inaspettato: da qui il senso sottile di presagio mortifero che attraversa il film, anche quando i personaggi (tutti straordinari, per tacer degli attori) cazzeggiano, scherzano, si innamorano, litigano, si riconciliano.

E’ proprio a causa di quest’affezione, di questo legame che si viene a creare con i personaggi (e in fretta, perché il film è breve) che il finale è così doloroso? O forse perché coglie un aspetto della vita, la sua drammatica e spietata casualità, che non siamo abituati a vedere sullo schermo con tale schiettezza e tragicità?

Un film di cui ci si può innamorare a prima vista.

New police story (San ging chaat goo si)

di Benny Chan, 2004

Jackie Chan si dev’essere finalmente reso conto che il "suo" cinema americano non funziona, che è parodia ristretta e sterile, priva di plasticità e personalità. Allora torna ad Hong Kong e taglia i ponti con il recente passato: New police story è un film nero, cupissimo, violento: ciò che non ci aspettavamo dal ritorno in patria di Chan, ma che in fondo era prevedibile, e che siamo ben felici di trovare.

Il film inizia con Jackie che si trascina per la strada, barcolla ubriaco e finisce sdraiato a terra accanto al suo vomito. Non è altro che una dichiarazione d’intenti: il film, da lì in poi, è il racconto di una vera discesa all’inferno, e successivamente del difficilissimo riscatto con la società e con la propria coscienza. Per non parlare del personaggio del bravissimo Daniel Wu (quello di One nite in Mongkok), nemesi apparentemente bidimensionale che nasconde un inaspettato conflitto edipico: e la sua "caduta" è davvero struggente.

Benny Chan è più un affabulatore che un autore, e il suo sguardo è certamente derivativo. Però prende spunto dalle cose migliori degli ultimi anni: il cammino dell’eroe di Johnnie To, certe atmosfere metropolitane di Michael Mann, gli incontri epocali sui tetti di Infernal affairs. Senza dimenticare che di saga si tratta: la scena distruttiva dell’autobus e il finale nel centro congressi non possono non ricordare i vetri rotti del primo Police story.

Alcune cose (e personaggi) fuori posto, qualche indecisione sul registro (si richiedeva qualche breve respiro), ma quel che conta è che questo New police story è un film davvero commovente e tragico. E ovviamente è anche un action compatto e spettacolare, pieno di sequenze d’azione incredibili e inarrestabili fino al finale. E una volta passato il romanticismo schietto degno del cinema di genere a cui appartiene (ma non c’è Maggie Cheung, ahinoi!), si riesce persino e percettibilmente a sfocare l’happy end con una nota, o forse due, dolenti e malinconiche.

Entusiasmante.

[amore a seconda vista]

Il post, qui.

[i film che non ti stanchi mai di rivedere]

Quando rivedo film già postati (capita spesso), non scrivo nulla.
Esistono le eccezioni.

[FEFF2005]

Love battlefield (Ai zuozhan)


di Cheang Pou-soi, 2004

Il penultimo film visto al Far East 2005 (ultimo per quanto mi riguarda) è dello stesso regista di Horror hotline (visto di recente) e New blood (iniziato giorni fa, lo finirò presto). Un regista dell’orrore, quindi, che si confronta con uno dei generi più canonici del cinema dell’ex colonia britannica: l’action movie.

Ma Love battlefield non è un semplice action-noir. L’approccio al genere di Cheang è infatti quasi sperimentale, perché decreta un taglio netto, senza le classiche mescolanze: il film inizia come una commedia sentimentale su una coppia che litiga e che si divide, e per molti minuti non è altro che questo. Poi arriva il trauma (quasi horror, visto il salto sulla sedia) e il film cambia completamente rotta, diventando appunto un action violento e che non lascia un attimo di respiro.

Inutile nascondere l’entusiasmo: Love battlefield è il miglior film da me visto a Udine quest’anno (almeno nella rassegna 2004), e uno dei film hongkonghesi più stimolanti degli ultimi anni: appassionante e concitato, girato con una impressionante consapevolezza del passato (e del presente) del cinema cantonese, e perfetto nel disegno dei personaggi e soprattutto nelle relazioni tra essi.

Nonostante le speranze (mie e di molti altri), il film non si è conquistato un posto ai "piani alti" dell’audience award. C’è un motivo concreto: non è piaciuto il finale, esagerato e compulsivo. Ma da un film che si chiama Love battlefield non si può non gioire di un finale così disperatamente romantico e al tempo stesso così estremo: un vero tragico inno all’amore. Chi vi scrive l’ha trovato, per quanto davvero interminabile, splendido.

[nota]

Nonostante il popolino non abbia gradito, l’applauso è stato davvero lunghissimo e sentito. Qualcuno (ehm) con le lacrime agli occhi. Cheang presentava anche un’altro film, Hidden Heroes, una specie di sci-fi metropolitano demenziale: devo assolutamente recuperarlo.

[FEFF2005]

Yesterday once more (Fung lung dau)


di Johnnie To, 2004

Mi addolora dover dar ragione a chi mi ha avvertito prima dell’inizio del film: l’ultimo Johnnie To è una robetta da niente. Operetta giallorosa molto sixties e molto lounge, tecnicamente impeccabile ma sterile e noiosetta.

Non che non ci si diverta. Alcune sequenze sono molto piacevoli (la migliore è quella in cui i due protagonisti simulano il passaggio di amanti nei reciproci appartamenti), il tono è svagato e simpatico, e le poche sequenze d’azione sono girate come dio comanda (quella del reclutamento è magnifica).

Però non è davvero abbastanza: non basta il fascino delle due star (anche se Sammi Cheng è fantastica) e le location "esotiche" (vedi note), non servono i terribili comprimari, le citazioni da M:I sono imbarazzanti, e il finale è bruttissimo e confuso. Comunque, niente per cui sbattere la testa contro il muro: To ha anche un occhio commerciale (infatti ha sfondato il botteghino), e da lui non si può sempre pretendere Throw down. Però, uffa.

[Nota]

Sala strapiena di gente per la (pur breve) sequenza girata qui a Udine e dintorni un anno fa, sorta di tributo all’affetto che il Far East Film Festival ha sempre riservato per il grande regista hongkonghese. Come comparse, tutte le persone con cui ho lavorato per un mese qui in Friuli, a camminare per strada o sedute al bar a chiacchierare e a servire ai tavoli. Anche solo per quello, ne valeva la pena.

[FEFF2005]

Beyond our ken (Gung ju fuk sau gei)


di Pang Ho-cheung, 2004

"Non esistono prìncipi, solo stronzi che si fingono prìncipi. Non esistono principesse, solo streghe che si fingono principesse."

Ieri qui a Udine non si parlava d’altro: nella colonna sonora di Beyond our ken, uno dei due film che Edmond Pang Ho-cheung presenta qui al Far East, c’è Amandoti, canzone di Gianna Nannini scritta da Giovanni Lindo Ferretti. E la notizia è che ci sta anche molto bene, in una delle scene più riuscite del film (forse non c’è l’effetto-badguy, ma l’effetto c’è). L’incontro tra Pang e la Nannini sul palco del teatro è stato un bel momento.

Tolto questo, il film è davvero delizioso, è ha conquistato il pubblico udinese. Merito di una storia semplice che racconta la nascita di un’amicizia e un’innocua vendetta nei confronti delle piccole perversioni maschili, per poi svoltare in un finale a (relativa) sorpresa con accento acidognolo.

Visivamente curatissimo, con una regia soprendente, una splendida colonna sonora, due protagoniste intensissime, una cinese e una hongkonghese, e toni da commedia che esprimono però anche una sottile malinconia di fondo, e la sensazione che (quasi un leit-motiv del festival?) non si può prescindere dai segreti e dalle bugie, che non si può essere felici se lo sono anche gli altri.

Davvero molto più che una piacevole sorpresa. Sento già puzza di Audience award.

[Note]

In mattinata, durante una pausa, ho avuto modo di vedere metà abbondante del coreano Peppermint Candy di LEE Chang-dong. Davvero molto molto molto bello, ma ahimé devo recuperarlo.

Davvero un disastro invece il nipponico Lorelei: The witch of the pacific ocean di HIGUCHI Shinji, sorta di pomposo Pearl Harbour con guizzi cyberpunk prodotto dalla Fuji Television. Non mi era quasi mai successo di abbandonare una sala dopo 20 minuti per l’irritazione. E mi è stato detto anche che ho fatto bene.

[FEFF2005]

One nite in Mongkok (Wong gok hak yau)

di Derek Yee, 2004

Non è irresistibile da subito, il film di Yee. La prima parte, concitata, rumorosa e dominata da una nervosissima camera a mano, è abbastanza deludente, troppo caotica, poco appassionante. Ma One nite in Mongkok è un film che monta piano, e quando i personaggi cominciano ad acquistare spessore, complici anche le dimensioni dello schermo, ci si comincia ad emozionare. E non poco. 

A partire da un classico plot da noir metropolitano ma molto sensibile alle sfumature, Yee costruisce un percorso che prende come spesso accade la strada del melodramma, e soprattutto della tragedia. Davvero bravo, il regista hongkonghese: aiutato da una fotografia notturna e accesa solo dal colore rosso del cappotto di Cecilia Cheung (splendida, anche più del solito), azzecca alcuni colpi di genio, come tutto il bellissimo inseguimento centrale, senza strafare con ralenti o vezzi autoriali.

Ma è tutta la parte finale, disperata e violentissima (molti gli occhi sbarrati in sala), struggente e tragica (in senso stretto), a conquistare il cuore. Talmente bella da far dimenticare qualche colpo di sonno nella prima metà, e da far uscire soddisfatti, a bocca buona.

Running on karma (Daai chek liu)

di Johnie To e Wai Ka-fai, 2003

Non sono sicuro se, nell’instabilità saltellante tra noir ironico, commedia sentimentale e film di arti marziali misticheggiante, ci sia la malattia o il genio di questo film. Va bene, non è oggettivamente il miglior film di To tra quelli che ho visto, non è un capolavoro, è visibilmente irrequieto, alla ricerca di un’identità, imperfetto e strabordante, a volte persino assurdo.

Ma mi ha comunque soddisfatto, divertito, entusiasmato. In più, formalmente è il solito splendore, e potrebbe anche bastare. In ogni caso, la scena in cui passa per strada la vecchina con le bottiglie mentre Andy "Big" Lau spiega a Cecilia Cheung il karma (separandosi da lei) è davvero una meraviglia, è non è la sola. La Cheung, la cui deliziosa raucedine avevo addocchiato e adorato in King of comedy, è splendida.

E come per magia, in corrispondenza di questa visione (e di questo post frettoloso a causa dell’imminenza del festival), è proprio di oggi la notizia che nella spettacolare, incredibile selezione di Cannes 2005, c’è anche To.

In bocca al lupo, Johnnie. A occhi chiusi, tifiamo (anche) per te.