Hong Kong

Santa Lucia, volume 2

Once upon a time in China (Wong Fei-Hung)

di Tsui Hark, 1991

Nella Cina dell’Ottocento, il maestro Wong Fei-Hung si trova in mezzo a una molteplicità di forze volte a schiacciare la sua vita, quella della sua nazione, e della sua scuola d’armi: infatti il paese, oltre a essere preda di una diffusa criminalità, è minacciato dalla presenza degli inglesi e degli americani, venuti a sfruttare il momento, e a batter cassa.

Un film costruito sul contrasto irreparabile tra la tradizione e il rinnovamento, rappresentato dal conflitto tra le arti marziali e le armi da fuoco. "Non possiamo combattere le pistole con il kung-fu" si dice spesso nel film, ed è questo senso malinconico a trasparire, la sensazione di un mondo che va a morire e di una tradizione in decadenza, che bisogna difendere a tutti i costi. Anche se può essere "sporcata": Wong è pur sempre un medico, e persona razionale che riconosce i benefici del progresso, e inoltre nel finale decide scherzosamente di indossare l’abito occidentale e farsi fare una fotografia.

Once upon a time in China, primo di una serie di film dedicati alla figura leggendaria di Wong Fei-Hung, non è solo un’affascinante affresco storico, e molto di più di un film d’arti marzali, ma un’opera complessa che non lascia nulla all’ovvietà nel tratteggio dei personaggi (al di là dell’esemplare Wong di Jet Li, affascina il combattuto Fu interpretato da Biao Yuen) e che dipinge una condizione storico politica che, raccontando la storia, parla del presente di una nazione e del suo presente.

Ma prima di tutto, quello che salta gli occhi subito, dal primo sguardo, è ben altro: un film visivamente impressionante, per il montaggio indescrivibile e impensabile, e per la regia di Tsui che, con un profluvio di dolly e carrelli sempre funzionali ai movimenti dei personaggi, e uno stile che dai barocchismi riesce a far scaturire la poesia dei gesti e dei "voli", compie una irripetuta ricerca sul "leggiadro" che ha fatto scuola (e non solo a Hong Kong).

Meravigliosi tutti i duelli, tra cui spiccano i due combattimenti tra l’ambizioso maestro decaduto Yim, lo straordinario "cattivo" di Yee Kwan Yan, e il protagonista Wong Fei-Hung, un Jet Li etereo: sono quello sotto la pioggia (vedasi Hero) e quello finale, e molto celebre, tra enormi scaloni a pioli. E splendidi i titoli di testa.

Un film davvero magnifico e davvero importante, pienamente degno della sua fama.

Santa Lucia, volume 1

The heroic trio (Dung fong saam hap)

di Johnnie To, 1993

Da quando ne conosco l’esistenza, The heroic trio è uno dei film hongonghesi che desideravo vedere più nervosamente. Dopo un tentativo fallito di acquisto (out of stock) e un disperato e inutile download da un p2p, finalmente sono riuscito ad accaparrarmelo. E non ho aspettato molto per vederlo.

Il film di To narra le gesta di tre donne, allevate a pane e arti marziali: Tung, "wonder woman", supereroina metropolitana con tanto di mascherina; Chat, "thief catcher", mercenaria bellissima e vanitosa; Ching, "invisible woman", che tradisce l’amore per la realizzazione del progetto di un malefico stregone.

Cinema di mero intrattenimento, dichiaratamente fumettistico e colmo di ironia parodica. Ma anche di purissimo divertimento: sorprendente e magico come un sogno. E anche capace (come spesso succede nel cinema popolare hongkonghese) di scavare al di sotto dei meccanismi narrativi classici per scovare una sostanza nei personaggi e nei loro mai banali percorsi redentivi. E di superare i generi avanti con i tempi, mischiandoli con una libertà incredibile: fantasy e action, ma anche momenti horror (il finale un po’ invecchiato che cita – o plagia – Terminator) e ovviamente una punta di melodramma.

Assolutamente perfette le tre protagoniste, vero motivo di gloria e di fama di questo film in tutto il mondo, tranne che in Italia. Tung è la fascinosissima Anita Mui, stupenda presenza melò di A better tomorrow 3, scomparsa esattamente un anno fa per un’aneurisma. Ching è la grande Michelle Yeoh. Su Maggie Cheung, nel ruolo scherzoso e rilassato di Chat, eroina spavalda e egocentrica, non spendo parole: ai tempi 29enne, è di una bellezza semplicemente divina.

Straordinario il lavoro di Ching Siu-Tung: qui praticamente co-regista, in quanto direttore di tutte le sequenze di combattimento, Ching è il creatore della trilogia delle Storie di fantasmi cinesi (di cui ho visto il primo, splendido), nonché maestro d’arti marziali responsabile di molte coreografie recenti (tra cui Shaolin soccer, Hero, House of the flying daggers).

[remainder(s)]

Come già ho fatto altre volte, segnalo un paio di uscite odierne (nelle sale italiane) di film da me già visti al Festival di Venezia. Stavolta sono due.

Il primo è Eros, il film a episodi diretto da Wong Kar-wai (sublime, ben oltre 2046), Soderberg (più che passabile) e Antonioni, quest’ultimo un vero e proprio disastro, il vero scult veneziano 2004.

A Bologna all’Odeon. Qui il mio breve commento

Come ho avuto più volte occasione di dire, Ferro 3 (Binjip) è tra i film migliori di uno dei miei più recenti registi-feticcio, Kim Ki-duk. Non fatevi intimorire dalla violenza di alcuni dei suoi bellissimi film precedenti e andatelo a vedere. Andate a vederlo prima possibile.

A Bologna al Rialto. Qui il mio breve commento

Ashes of time (Dung che sai duk)

di Wong Kar-wai, 1994

Ebbene, il Lumiere ieri sera ci ha dato la sua mezza fregatura. Ogni tanto succede, anche nelle migliori famiglie. Ve lo racconterà sicuramente anche il mio lato oscuro, che era accanto a me, e accanto a lui c’era il mandaglio non-più-immaginario, che ve l’ha già raccontato.

Altro che pellicola, crisco, hanno proiettato un dvd di pessima qualità, con un pezzo di mascherino coperto dai sottotitoli inglesi, e un addetto ai sottotitoli italiani probabilmente ubriaco. Da purista qual sono, non posso dire quindi di aver visto Ashes of time (vi assicuro che era dura stargli dietro e non impazzire: ho perso qualche diottria), ma piuttosto di aver intuito il suo valore al di sotto di una presentazione degna di una punizione corporale. Uffa. Ok, mi sono sfogato.

Wong filtra le sue ossessioni attraverso il genere e al di là del genere. E’ un wuxiapian, per la posa epica, l’ambientazione, la spada, le figure caratteristiche, il ritmo delle (poche) scene d’azione. Ma allo stesso tempo non lo è, perché non si combatte. O almeno, si combatte soprattutto contro la natura, e contro (e dentro) se stessi.

Al di là della bellissima fotografia di Doyle, e del magnetismo senza tempo degli attori (il cieco Leung, la piangente Cheung, la bellissimissima e "scissa" Lin), ciò di cui si parla veramente in Ashes of time è quello di cui si parla in ogni film di Wong Kar-wai: la perdita, il ricordo, il rimpianto. Tutti temi sviscerati in una galleria di personaggi (che girano intorno al compianto Leslie Cheung, prima passivo spettatore poi protagonista), in un film che è più dramma da camera, più malinconica ricerca intimista, che film di spada e d’azione.

Per una volta la struttura narrativa è composita e intrecciata, e rende difficile la comprensione in alcuni punti (almeno lo era ieri sera). Ma stimola l’intelletto ed emoziona. Non c’è comunque solo stile, ma una sensibilità dell’animo e una profondità dello sguardo che riconosciamo al primo colpo, al primo sguardo, alla prima inquadratura, e non possiamo che amare alla follia.

Bellissimo.

(pare)

2046

di Wong Kar-wai, 2004

"Mi chiedono tutti come mai abbia scritto un libro di fantascienza. Per me, 2046 è solo il numero di una stanza d’albergo"

2046 è il numero di una stanza d’albergo, prigione per la mente del suo protagonista. 2046 è il titolo del suo decadente ed erotico romanzo di fantascienza. Ma 2046 è il posto dove va a finire la memoria, è anche in un certo senso quel buco in cui Chow sussurrava il suo segreto. E’ un luogo senza spazio fatti di volti e di ricordi. Sintetizzare la tematica di un’opera apparentemente così complessa è invece estremamente semplice: 2046 è un film sul ricordo, ed è soprattutto un film sul rimpianto.

Il rimpianto di un uomo che vede l’amore sfuggirgli di mano, in ogni sua forma. Un rimpianto che, come il ricordo della donna amata, non ha quasi forma. Il rimpianto è quella presenza che c’è-non-essendoci, che non riesci a dimenticare, quella Su Li-zhen che ha cambiato la tua vita. Quell’assenza che cerchi in tutte le donne della tua vita, in un nome, in un gesto, in un passo.

2046 non è un sequel, per fortuna. E’ però un’ipotesi che ha statuto di sequel: la presenza del precedente (e della sua meravigliosa protagonista Maggie Cheung) è aleggiante per tutta la durata del film, e non solo nel nome del protagonista o nella sua professione. Tale presenza è però anche ingombrante. Lo stesso rimpianto di Chow per Su Li-zhen è anche quello che provano i fans di Wong Kar-Wai. Insomma, mettiamoci il cuore in pace: 2046 non è In the mood for love. Non è un simile capolavoro, non ha la sua solenne perfezione, e soprattutto non possiede la sua inarrivabile magia.

Ma non è nemmeno il caso di mettersi le mani nei capelli: 2046 è un film prezioso e affascinante. Certo che è un film iconograficamente irrisolto (tra romanzo e vita), narrativamente sfilacciato (tra passato presente e futuro), e con una cura dell’intreccio fin eccessiva vista la linearità della vicenda: in In the mood for love per giocare con il tempo bastavano due vestiti e qualche ellissi. Ma soprattutto è troppo "riassuntivo" di una poetica per essere emozionante.

Ma è d’altro anche di una bellezza figurativa (s)folgorante (ancora Christopher Doyle) che non si può ignorare con accuse di formalismo. Così come è diretto innegabilmente con grande maestria e un labor limae immenso, con la solita ricerca sulle superfici riflettenti, sui dettagli umani, sui confini della pellicola. E infine, è interpretato con un fascino sognante e fuori dal tempo da tutti gli attori: non vi siete innamorati, stasera? Scegliete voi di chi innamorarvi. E non è un film vuoto come può sembrare e come molti hanno detto: ci parla dell’amore e dell’assenza in modo malinconico e amaro, ci parla di un uomo incapace di afferrare l’amore perché l’ha già trovato e perduto.

Non nascondo tuttavia anch’io una sorta di insoddisfazione. Come questo film è fatto di sensazioni più che di emozioni, così la mia insoddisfazione: lieve e epidermica. Ma solo relativa al capolavoro assoluto che sarebbe potuto essere, e alla sensazione (soprattutto dopo aver visto The hand, episodio di Eros) che da Wong ci si possa aspettare sempre di più. Invece è solo un bel film, anzi forse un gran bel film. Mi aggiungo al coro? Peccato.

In the mood for love (Fa yeung nin wa)

di Wong Kar-Wai, 2000

Deluderò forse chi si aspetta una recensione, ma non posso scrivere niente di simile su In the mood for love. Perché è semplicemente uno dei miei film preferiti. E, credo di non dire un’eresia, uno dei più bei film degli ultimi (5? 10?) anni. Solo alcune immagini, magari superficiali in un film così profondo, ma visive e vivide, ancora, alla terza visione, ed emozionanti, ancora, come fosse la prima volta.

I mille vestiti di Maggie Cheung e le mille sigarette di Tony Leung. I brividi di Nat King Cole e Umebayashi. Mamma Wong e il Mah-jong. I ralenti, che fanno parlare i corpi e urlare gli sguardi. Il thermos verde, le tende rosse, l’orologio bianco. Un buco in un albero: un segreto. E Ping.

Superlativo.

Hero (Ying xiong)

di Zhang Yimou, 2002

Due donne che lottano nella natura e con la natura, le foglie gialle che si fanno arma e scudo, e infine la ferita e la caduta. Una goccia di sangue cade a terra, e sembra corrompere il mondo. I colori dell’autunno si fanno rossi, e tutto all’improvviso diviene del colore del sangue, come la veste della donna che cade, e che muore.

Questa sequenza, forse la più bella del film, è metonimicamente esemplificativa dell’ultimo film di Zhang Yimou. Grazie al genio di Christopher Doyle (direttore della fotografia), che non mi stancherò mai di incensare, ma anche alla grande personalità e professionalità di Zhang, il film è un’esperienza visiva totalmente appagante, un viaggio estatico che, a costo di immergercisi a fondo, in alcuni punti sfiora l’estasi.

Sono molte le sequenze perfette e indimenticabili, spesso per le scelte cromatiche di Doyle, che hanno la dote rara di non "staccare" (pur essendo divise tra loro sotto molti punti di vista) e non sembrare meri pezzi di bravura: come i due combattimenti "mentali" (un tempio e un lago), la suddetta scena in mezzo alle foglie, e soprattutto quel lungo e irresistibile flashback virato in verde.

Perché allora il film non è del tutto soddisfacente? Tutto è relativo: Hero è un ottimo film, ma non è il capolavoro che avrebbe potuto essere. E’ un’opera che spreca parte del suo enorme potenziale, o almeno che gioca le sue carte in un modo che avremmo voluto vedere diverso. Come con gli attori: tutta la partita si gioca sulle spalle del guerriero SenzaNome (e sul suo viso tombale), ma Leung e la Cheung (persino la bellissima Zhang Ziyi) hanno un carisma che vale mille Jet Li.

Operazione produttivamente simile a La tigre e il dragone (lo sentirete da ogni parte), Hero porta comunque a risultati differenti: ne fa le spese, ed è in qualche modo una fortuna, l’occidentalità di Lee (ma non l’esportabilità), ma si perde anche quella sensazione malinconica e crepuscolare che dava all’opera di Lee la sensazione di aver sfiorato una cima (forse un punto di non-ritorno) che Zhang avvicina ma non riesce a toccare.

Personalmente, quando vedo dei corpi danzare e lottare in questo modo (per inciso: perfetto, non dico altro), vado in visibillio. Se fosse per me, guarderei film come Hero a ripetizione fino a svenire, a prescindere dal loro valore estrinseco. Ma bisogna essere obiettivi: non giovano la ripetitività e vuotezza (seppur necessaria) della prima parte, e una certa superficialità nei temi (importanti e profondi, ma un po’ timidamente in disparte). L’espediente-Rashomon è arguto e dà una sferzata di intelligenza al film: ma è pur sempre un espediente precotto.

Le cose più interessanti, che glorificano la prima parte al di là della stracitata goduria estetica, sono alcuni elementi autoriflessivi (o presunti tali): "l’arte della spada è come la musica", ed "è come la calligrafia", ovvero l’arte (ovvero il cinema?). Da un punto di vista emozionale, i brividi li danno quasi tutti quelle stupende facce da cinema che sono Tony Leung e Maggie Cheung, due guerrieri coinvolti (loro malgrado?) in una storia di amore e morte. E, dato l’espediente della molteplicità dei racconti (alla Rashomon, appunto), costretti a morire di continuo.

Davvero straordinario il finale, funebre e astratto, con quel corpo coperto da un drappo rosso e quell’assenza tra le armi: si dà finalmente un senso vero all’aleatorietà del racconto epico. Una leggenda non è illusoria in quanto tale? Quanto vale la corporeità del mito? L’eroe senza nome è anche un’eroe senza corpo?

In giro c’è chi ne parla molto bene, chi lo distrugge, chi ne parla maluccio, chi non si sbilancia troppo, chi la pensa più o meno come me (con qualche riserva in più). Attendo i cinebloggers.

Il mistero del conte Lobos (Wheels on meals) (Kwai tsan tseh)

di Sammo Hung, 1984

Sulla mia passione per Jackie Chan ho già scritto un post, qualche mese fa. Poi, cosa succede? La Elleu mi tira fuori una Jackie Chan collection! Che, ora come ora, non posso permettermi. Ma un noleggio, quello sì. E ogni tanto fa bene vedere un film di Jackie Chan. Ti risolleva la giornata.

Questo Kwai tsan tseh è uno dei film diretti da Sammo Hung per il suo amico Jackie (e per se stesso), e non è decisamente tra i migliori. Un classico pastiche alla Chan, un po’ giallo ma decisamente virato sul comico demenziale (o demente: la sequenza al manicomio), strapieno di gag piacevolmente retrò, ma purtroppo con poco di quell’elemento che rende unici i film del divo hongkonghese: le arti marziali, relegate (ahimé!) negli ultimi minuti. Neanche a dirlo: lasciano senza fiato. Anche se della re-invenzione del kung-fu presente in molti film successivi (con gli oggetti quotidiani usati come arma, o i volteggi impossibili) qui c’è solo l’ombra.

Se non avete mai visto un film di Chan (quelli veri, mica Pallottole cinesi…) e volete un film con cui iniziare, rivolgetevi altrove. Per esempio, Ventaglio bianco.

Un altro film ad episodi, un altro breve post dedicato (e l’unico film visto ieri).

Eros

di Wong Kar-Wai, Steven Soderbergh, Michelangelo Antonioni

Fuori concorso

Non ci voleva certo una conferma: Wong è un grandissimo regista, Doyle un grandissimo direttore della fotografia. E The hand è un affascinante, raffinato, bellissimo mediometraggio, capace di uscire dal semplice esercizio di stile e regalare grandissimi momenti di cinema, la scoperta del sesso e della morte, una magnifica ossessione amorosa, e uno sguardo finale pieno di dolore. Splen-di-do.

Equilibrium è una mezza sorpresa: l’episodio di Soderbergh, per non essere altro (dichiaratamente) che un cinefilo e tautologico divertissement sul sogno, è davvero spassoso: merito soprattutto di Arkin e Downey Jr, attori stupendi e troppo spesso dimenticati. Un piacevole relax dopo le grandi emozioni del capitolo hongkonghese, girata con rigore (chi se l’aspettava?) e fotografata con classe (dallo stesso regista).

L’episodio di Antonioni, The dangerous thread of things, è ridicolo, recitato da cani, scritto peggio (Tonino, Tonino…), con qualche notevole svolazzo del buon Marco Pontecorvo, ma nulla più. Senza timori reverenziali: seriamente imbarazzante.

Some gossip…

Ho conosciuto questa blogger e questa blogger. Ciao, ragazze.

Vista la molteplicità, dedico questo post a un solo film. E che film!

Three… extremes

di Fruit Chan, Park Chan-Wook, Takashi Miike

Venezia Mezzanotte

Il film collettivo dei tre grandi registi orientali (hongkonghese, coreano, giapponese) è un bellissimo, sorprendente, entusiasmante esercizio di stile.

Dumplings, l’episodio di Chan, è un’operetta cinica sottilmente misogina sulla mercificazione della bellezza, fotografata da dio dal grandissimo Doyle (il fotografo di Wong Kar-Wai).

Cut è l’episodio di Park, che prende il suo tema favorito, la vendetta, e lo butta inizialmente sul ridere, per poi terminare in modo davvero estremo e granguignolesco, ma con uno stile ineccepibile, virtuosistico, sopra le righe ma mai fastidioso, e spesso divertentissimo.

Box, l’episodio di Miike, è il migliore dei tre: un sublime pezzo di cinema, formalista fino allo spasmo estetico, un mediometraggio sul sogno e sul senso di colpa, che mette in crisi, con attese silenzi visioni e deja-vu, lo spettatore, per poi stupirlo inevitabilmente nel finale. Un piccolo capolavoro.

Il tempo è quello che è. Lo stage mi porta via la maggior parte del tempo. E non ho tempo (né spazio) per postare granché. Ecco quello che sono riuscito a vedere ieri. Se passate dal Lido mi trovate QUI.

20 fingers (20 angosht)

di Mania Akbari, Iran/GB

Venezia Cinema Digitale

Piccolo film digitale iraniano. Sette episodi su mezzi di locomozione: il mondo si muove, ma è difficile smuovere le persone. Ovviamente (e giustamente) si parla della condizione della donna islamica, di integralismo, di emancipazione. Prodotto kiarostamico fino al midollo, è quello che ci si aspetta che sia, ma non è così pesante come si potrebbe pensare. Non male.

El amor, primera parte

di Registi Vari, Argentina

Settimana della critica

Sorta di tesi di laurea di quattro studenti di cinema argentini, e si vede: ci sono i sogni, la frammentazione del tempo, e tutti quei giochini che piacciono tanto a noi giovani studentelli. Tutto bene, però, perché si respira un’aria di libertà ammirevole. Commedia a volte fresca e divertente, a volte terribilmente malinconica. Di una sincerità travolgente. L’intento è una specie di antropologia del rapporto di coppia, con rimandi al cinema americano e francese, ma con un digitale temperato e senza fronzoli. Davvero ben riuscito, anche commovente. A mio parere, vendibile: speriamo di vederlo in italia.

Throw down (Rudao lunghu bang)

di Johnnie To, Hong Kong

Fuori concorso

Bellissimissimissimo. Al di sopra delle mie (già alte) aspettative. Grandissimo cinema.

Some Gossip…

Incontri ravvicinati con Mario Monicelli, un po’ meno con Spike Lee, un po’ meno ancora con Raul Bova. Ho pasteggiato con Michela Cescon. Gran donna. Baci a tutti dall’assolato lido veneziano.