Ciò che sembra distinguere Tutti i santi giorni dal resto della filmografia di Paolo Virzì e del suo fedele sceneggiatore Francesco Bruni è il rapporto tra i personaggi e la sceneggiatura. In Guido e Antonia hanno trovato due figure così immediate e credibili da saper tenere in piedi il film senza dover attingere a meccanismi scoperti, e pur con qualche azzeccato accorgimento (come quello di far iniziare il film in medias res, chiudendo il cerchio alla fine) li hanno svincolati dagli ingranaggi più soffocanti restituendo una gradita sensazione di onestà, piuttosto rara nel cinema italiano. Persino di libertà compositiva, per come si alternano la leggerezza e la tensione, il senso dell’umorismo e la paura che il mondo intero ci crolli addosso. Il trucco c’è, ma non si vede: al centro di Tutti i santi giorni, che come al solito affronta il mondo di oggi soltanto di striscio, c’è soprattutto una linea retta di quotidianità spezzata da un ostacolo, e da ricucire al più presto. Guido e Antonia in tal senso non sono davvero liberi, ma stavolta Virzì e Bruni sembrano osservarli da una certa distanza, forse la stessa nostra, perché hanno fiducia in loro. Questo è il loro film più dichiaratamente, sfacciatamente romantico, ma in una maniera favolosamente ordinaria – un piccolo miracolo. Molto del merito della sua riuscita va però, a monte, ai due interpreti: Luca Marinelli è una bellissima conferma e il suo Guido è uno dei personaggi italiani più amabili e divertenti degli ultimi tempi. D’altra parte, Thony è una scoperta ancora più notevole – non perché è una cantante vera che recita, ma perché è una cantante che recita benissimo: tutt’altro che scontato. Le sue canzoni sono il tocco finale di un film delizioso, autentico e vitale.
È facile scambiare Reality per un film a tema. Farsi la domanda: di cosa parla? Dove vuole arrivare? Una tentazione comprensibile, che sminuisce però la forza narrativa ed espressiva dell’ennesimo, grande film di Matteo Garrone. Ciò che in verità mi sembra più interessante, più sorprendente di Reality, è il suo legame con la tradizione: sono anni che si tende a confrontare qualunque film leggero in uscita con la “commedia all’italiana”, spesso del tutto a sproposito o quasi; il risultato è che troviamo un erede dove mai ce lo saremmo aspettato, ma dove in fondo era giusto che fosse. E la chiave del dialogo che Reality intrattiene con alcuni dei più amari e profondi film di registi come Risi, Pietrangeli, Germi ma anche – uscendo dal seminato – con il Visconti di Bellissima, è che il film usa il contesto per spiegare la storia, e non viceversa. Non è un film sull’Italia di oggi, non è un film sulla televisione, è un film su Luciano (straordinario Aniello Arena: sarebbe un delitto non citarlo) e su un mondo intero che va in pezzi di fronte a lui e a noi, rendendoci complici di una disgregazione e confusione percettiva che va sì a braccetto con la fragilità dei valori odierni, ma che non diventa mai, o almeno non vuole diventare, una parabola su di essi. L’inquietante viaggio di Luciano diventa, complice la clamorosa colonna sonora di Alexandre Desplat, soprattutto una sorta favola nera sulla disgregazione della realtà che Garrone, che si conferma uno dei migliori metteur en scène italiani, avvolge con una fotografia (ancora una volta di Marco Onorato) iperrealista e una regia sfacciatamente virtuosistica, anche loro appoggiate sul filo tra realtà e immaginazione, pronte a strapparlo per trascinarci in un dolce, inquietante incubo escapista, da cui forse non c’è più ritorno.
Non amo paragonare tra loro film che non lo richiedano esplicitamente e in linea di massima preferisco considerare ciascuna opera come un oggetto a sé stante, lasciando i confronti in secondo piano, al limite come curiosità. Ciò nonostante, ho deciso di accorpare questi due film in solo post per alcune ragioni. Primo, per pigrizia e anche per brevità, visto che si è detto già tutto e il contrario di tutto (e un sacco di sciocchezze) su questi due film. Secondo, erano entrambi in Concorso al Festival di Venezia, dove il secondo ha vinto l’Osella tecnico. Terzo, i due film condividono molte presenze: in primis Daniele Ciprì (direttore della fotografia del primo, regista del secondo), ma anche il musicista Carlo Crivelli, la montatrice Francesca Calvelli e ben tre attori del cast: Toni Servillo, Fabrizio Falco, Pier Giorgio Bellocchio.
Bella addormentata di Marco Bellocchio, 2012
Il primo pensiero che ho avuto uscendo dalla proiezione del nuovo film di Marco Bellocchio è quella di un’opera corretta o risistemata in corsa. Complice forse la collaborazione di Stefano Rulli, Bella Addormentata si configura seguendo i dettami del cinema italiano d’autore, serio e impegnato, fin dalla premessa: un racconto corale che ruota intorno a un tema forte (non tanto il caso di Eluana Englaro, quanto il dibattito generico sul diritto a vivere e a morire) inseguendo e intrecciando le vite di molti personaggi e cercando di trarre una complessità di conclusioni dalle loro specifiche vicende. Il cast e la direzione degli attori va nella medesima direzione, ed è proprio qui che il film inciampa, sulla sua stessa convenzionalità: molto esplicito e verboso, lo script lascia tantissimo campo libero agli attori ma non tutti si dimostrano all’altezza del compito. Per fare un esempio, se Rohrwacher e Riondino danno una strana, corporea umanità alla parte più interessante della storia, non si può dire lo stesso di Brenno Placido o di Gian Marco Tognazzi. Sembra una cosa da poco ma questa disorganicità nella direzione degli attori tende a inficiare intere sequenze, anche se Toni Servillo è ancora una volta eccellente: inaspettatamente sotto tono, a lui vanno le battute più felici dei dialoghi come quel “mi avete rotto il cazzo con l’immagine”. Si diceva dunque di un riscatto a posteriori perché è come se Bellocchio avesse preso la materia grezza e, in fase di post-produzione, l’avesse plasmata in qualcosa di molto differente: la splendida colonna sonora di Carlo Crivelli e l’intelligente montaggio di Francesca Calvelli contribuiscono a trasformare un’opera onesta e ambizosa ma zoppicante e ordinaria in un film a tratti intenso e potente. In ogni caso, è senza dubbio ammirevole l’equilibrio con cui Bellocchio mette in scena le sue storie, distaccando il più possibile la propria personale visione del mondo da quella, più complessa e sfaccettata, del mondo stesso. Cercando di porsi, in un atto di straordinaria umiltà almeno per un regista così sicuro di sé, più domande possibili. O meglio: più domande di quante siano quelle a cui lui stesso sappia rispondere.
È stato il figlio di Daniele Ciprì, 2012
L’elemento più sorprendente dell’esordio in solitaria di Daniele Ciprì è il modo in cui il regista palermitano mostra di aver interiorizzato l’esperienza ventennale al fianco di Franco Maresco per trasferirla in una storia apparentemente più comune: un film ambientato nella Sicilia degli anni settanta che ruota intorno a una famiglia disagiata e alla possibilità. Ma in realtà È stato il figlio è uno dei film italiani più audaci e coscienziosamente folli degli ultimi anni. Incredibile e frastornante il modo in cui Ciprì riesce ad affiancare e dissolvere tra loro intenti e tonalità che non potrebbero essere più distanti, passando dallo sguardo grottesco su una Palermo da freak show (che in alcuni momenti richiama direttamente i tempi di Cinico Tv) a un’intensità drammatica devastante, da una sotterranea comicità caratterizzata da un feroce cinismo fino a una risoluzione che sembra uscita da un film horror, il tutto inserito in una geniale cornice narrativa che verso la fine si fa beffarda e apocalittica. Senza dimenticare l’apporto tecnico e artistico: anche qui un grande lavoro di Crivelli e della Calvelli, ma Ciprì è prima di tutto un direttore della fotografia e non si smentisce curando le immagini del film con un’attenzione e una precisione pittorica ma anche con un vigore e a tratti con una furia visionaria spiazzante. Un film buffo e mostruoso, inquietante e surreale, spassoso e tragico: non c’è nessuno al momento in Italia, pochissimi in tutta Europa, in grado di girare un film così. Avrebbe meritato più attenzione da parte del pubblico e, a monte, da parte dei media.
A.C.A.B.: All Cops Are Bastards di Stefano Sollima, 2012
Per fare un film come ACAB in Italia ci vuole un po’ di fegato. Da una parte o dall’altra, ci si espone alla polarizzazione del discorso culturale che tende a ignorare caratteristiche effettive del film concentrandosi, entrando nel caso specifico, sulla prospettiva inusuale da cui è narrato. Ma la verità è che un film sui celerini si può raccontare soltanto (o meglio, se vogliamo) dal punto di vista dei celerini. E che il punto di vista narrativo non coincide con un’identificazione con un sistema di valori. Sollima in questo senso è molto intelligente nel bilanciare empatia e sgradevolezza, vicinanza e distacco, mostrando i suoi personaggi come pedine di un ingranaggio sporco ma anche come primi motori del loro destino, per cui l’umanità non può essere svincolata dalla propria capacità di commettere terribili errori, di ammetterli, di ripeterli, di pagarne le conseguenze. In tal senso, ACAB sembra quasi un cugino di Diaz, non solo perché lo spettro degli avvenimenti genovesi aleggia sull’intera pellicola, quasi come se fosse un sequel ribaltato (i protagonisti erano al G8, i fatti della Diaz vengono citati in modo esplicito in almeno due scene) ma perché anche Sollima è riuscito a fare un’operazione vicina a quella di Vicari, ovvero un film che parla di personaggi contemporanei e delle contraddizioni dell’Italia di oggi, un film anche “politico” insomma, senza dimenticare il gusto per la narrazione, la cura nel disegno dei personaggi e nella messa in scena, avvicinandosi ancora di più a modelli esterni che sappiano affrontare questi contrasti senza finire schiacciati dai compromessi. L’esperienza della serie Romanzo Criminale è stata in questo senso una grande palestra per il regista, finora soltanto televisivo, e la freschezza e l’attualità del suo sguardo si vede, per esempio, nell’importanza che viene data alle scele musicali, non ricercatissime ma sempre e comunque significative ai sensi della scena – come i titoli di testa (dopo un formidabile incipit “da pilot”) accompagnati da Seven Nation Army dei White Stripes o, ancora di più, la durissima scena del pestaggio con Where is my mind? dei Pixies in sottofondo. Al fianco di un’ottima produzione e di un cast validissimo (in testa Giallini e Favino, perfetti), il limite maggiore è semmai la sceneggiatura scritta a sei mani, che aveva il compito ingrato o quantomeno arduo di trasformare l’inchiesta di Carlo Bonini in finzione e che a volte si incaglia sulla necessità di far trasparire con chiarezza un messaggio – un esempio perfetto di questa difficoltà è nel finale: l’idea di trasformare la città devastata dai teppisti in un ambiente da film di zombie metafisico è magnifica, così com’è di grande effetto l’inquadratura tronca con cui il film si chiude, ma il riferimento storico che la precede di poco è davvero troppo sfacciato. Abbiamo capito l’intento, ma ci saremmo arrivati da soli.
In un’annata non troppo entusiasmante per il cinema italiano, Scialla! ha saputo difendersi piuttosto bene, a partire dalla vittoria (scontata) di Controcampo Italiano a Venezia, col favore di molta critica, a quella del David come miglior regista esordiente. In verità, come sappiamo bene, Bruni è tutt’altro che un “esordiente”: ha scritto tutti i film del suo amico Paolo Virzì, quasi tutti quelli di Mimmo Calopresti. Scialla!, uscito giusto in tempo per il suo cinquantesimo compleanno, è la sua opera prima dietro la macchina da presa, ma vent’anni di lavoro non si cancellano in un soffio: per questo motivo, ben più della messa in scena (anche se la fotografia del veterano Arnaldo Catinari ha qualche buona intuizione, soprattutto intorno al personaggio di Luca) al centro del film c’è il soggetto, in cui un ex professore disilluso e sciatto scopre la vera identità del ragazzetto a cui dà ripetizioni di lettere. Qualche volta la sceneggiatura scopre troppo le carte, rivelando uno scheletro narrativo rigidissimo, ma alcuni dialoghi hanno un’invidiabile freschezza – anche grazie all’ottima intesa tra il giovane Filippo Scicchitano e Fabrizio Bentivoglio, che sfoggia un accento veneto forzato ma stranamente sensato – ed è vincente a modo suo la scelta di Bruni di mantenere per tutta la durata del film un registro così lieve, pressoché inoffensivo, da qualunque punto di vista lo si guardi. Così, persino gli ostacoli più violenti finiscono per risultare tutt’altro che minacciosi: dalla sua, il gangster colto cinefilo è una buona vecchia idea, giusto a un passo dalla macchietta (ma Vinicio Marchioni se la cava, e c’è pure spazio per una in-joke su Romanzo Criminale), peccato che poi finisca per diventare il deus ex machina di turno. Scialla! è un film che, se non graffia né va in profondità, almeno lo fa per sua stessa scelta: la sua preoccupazione è quella di raccontare una storia semplice e sensibile, priva di sensazionalismi e di rischi, con un umorismo quieto e abbastanza insolito per la commedia italiana. Nonostante tutto, ci riesce abbastanza bene. In fondo è un’opera prima. Il ragazzo si farà.
Diaz – Don’t Clean Up This Blood di Daniele Vicari, 2012
L’uscita a così breve distanza di Romanzo di una strage e di Diaz è curiosa e interessante per il modo in cui ci aiuta a osservare e distinguere due approcci radicalmente opposti a una materia sensibile e così delicata: il racconto cinematografico di un noto, bruciante fatto storico. E l’approccio scelto dal film scritto e diretto da Daniele Vicari e prodotto dalla Fandango di Domenico Procacci non potrebbe essere più distante da quello di Giordana e Tozzi, perché scaturisce da un’idea decisiva: che si possa fare un film profondamente politico senza rinunciare al Cinema.
Tutto quanto, in Diaz, discende da questo stimolo primario e ineliminabile, a partire dalla struttura corale che si impadronisce di molte testimonianze trasformandole in veri personaggi di un intreccio dal respiro corale e, ancora di più, dall’intelligente struttura che avvolge (e rinchiude) questi personaggi utilizzando un’immagine solo apparentemente poco significativa (una bottiglia lanciata che si frantuma cadendo a terra) come perno narrativo dell’intera opera. Un “simbolo” che vuole funzionare anche come rottura di una tensione intensa e a tratti insostenibile, montata con un occhio (ma anche entrambi) al cinema di genere, più specificamente all’horror: la costruzione che porta gradualmente verso il blitz è un’alternarsi di casualità e presagi che sembra provenire da un film di zombi – e l’orrore che segue, benché terribilmente reale, non è che una conferma.
Quest’ultimo è un procedimento a cui il pubblico del “cinema italiano impegnato” non è abituato, ed un’idea piuttosto radicale che va ben oltre la rilettura noir del gangsterismo italiano fatta da Placido, e che si sporge verso il pubblico con l’audace sfrontatezza di un pugno nello stomaco e di un calcio nei denti: perché se parte del coraggio di Vicari sta in una sorta di dichiarata autocensura (ci si ferma dove si crede sia giusto, e non gli si può certo dar torto: un autore risponde alle proprie, di esigenze) e nell’idea, probabilmente impopolare, che le colpe vadano redistribuite e che il manicheismo non contribuisca a proteggere gli innocenti, non si può dire che il suo sguardo sia ammorbidito o tenue. Diaz picchia duro e dove fa più male, non solo nell’esplosione della furia tra le mura della Diaz o nell’angoscia della prigionia di Bolzaneto (comunque impressionanti e durissime) quanto nella rappresentazione dell’assurdo che scaturisce dalla banalità, un punto nero che partorisce una voragine.
Ma nonostante la verità impugnata dagli autori non voglia avere solo a che fare con l’esattezza della cronaca, Diaz non si dimentica il contatto con la realtà e sceglie di mescolare in modo minuzioso alla ricostruzione (saggiamente realizzata fuori dall’Italia) alcuni autentici video girati proprio a Genova in quei giorni, chiudendo il cerchio su un’operazione che come poche altre ha saputo mescolare Storia e finzione; perseguendo sempre un obiettivo definitivamente civile ma con i mezzi e le armi che sono quelli del Cinema. Considerando i pochi anni, poco più di 10, passati da quel giorno, e tutti i rischi che ne conseguivano, quello ottenuto da Vicari è un risultato davvero insperato.
Diaz è un film spaventoso, bellissimo e doloroso – e un film necessario: non soltanto, come è più ovvio sostenere, per puntare il dito su una ferita mai rimarginata, ma anche per ricordare che un altro cinema (italiano) è possibile.
Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana, 2012
A discutere delle differenze con la Storia e delle inesattezze del Romanzo lascio che ci pensino gli storici, gli esperti, ma non c’è dubbio che in Romanzo di una strage è anche questa confusione tra linguaggi, ciascuno con le sue regole ed esigenze, ad agire come tratto distintivo, e cinematografico. Nonostante le visibili libertà che lo allontanano dai territori della docufiction, termine scomodato abbastanza a sproposito, è evidente che il film nasce da un’esigenza prettamente didattica e per capirlo non c’è bisogno di leggere le interviste agli autori. Il problema più profondo di Romanzo di una strage proviene forse da questa pulsione, quasi pedagogica e tendenzialmente inattuale, che ha contribuito più di ogni altra a trasformarlo in ciò che è diventato nelle mani del trio Giordana, Rulli e Petraglia: un film secco, rigidissimo, mai veramente noioso ma decisamente poco coraggioso, che deve dire un determinato numero di cose e non può dirne altre, finendo per mescolare verità e romanzo, atti giudiziari e licenza poetica, libera reinterpretazione e imitazione pedissequa, in modo fin troppo ordinato e compiuto. Quasi tutto il film sembra muoversi in punta di piedi per non svegliare nessuno, e quando alla fine osa spostare il baricentro dalla cruda relazione all’interpretazione storica, lo fa in modo terribilmente prosaico, per di più all’interno di una cornice onirica che ne annulla l’effetto. Un paragone con La Meglio Gioventù è azzeccato, ma soltanto in contrasto: là ci si appropriava di un contesto storico per raccontare uno straordinario feuiletton televisivo tutto incentrato sui suoi personaggi, qui ci si appropria di due personaggi realmente esistiti (ma rivisitati in libertà, come in fondo è giusto che sia) per esporre un fatto storico, o una possibile lettura di tale fatto. In tal senso Romanzo di una strage ha un grosso merito, quello di aver riportato con innegabile professionalità l’attenzione su una tragedia che sembra lontana secoli ma che ancora fa male; nel farlo Giordana si è però dimenticato in parte di costruirci intorno un film che potesse stare in piedi da solo e soprattutto che potesse risultare avvincente anche per chi, la Storia, se l’è dimenticata oppure non l’ha mai conosciuta. Il cast fa quel che può, ma Favino e Mastandrea sono ingabbiati nell’austerità del progetto, Gifuni fa un Aldo Moro vacuamente identico all’originale (o meglio all’idea più diffusa sul modello), Lo Cascio e Chiatti sono pressoché inutili come gran parte delle molte figure di secondo piano; alla fine i migliori sono il Ventura di Denis Fasolo e il Freda di Giorgio Marchesi – sembrano usciti da un altro film, più aggressivo e squilibrato, più vicino al genere ma non per questo meno “politico”. Da un film del quale qui non c’è traccia.
Da quando abbiamo deciso che Paolo Sorrentino sarebbe stato l’unico (o il più probabile) regista italiano a potersi confrontare non solo con la qualità ma anche con lo stile e – perché no – con la vendibilità dei maestri del cinema americano, una domanda, anche alla luce dei riconoscimenti, è balenata in molte delle nostre menti: come si troverebbe Sorrentino in una produzione di quel tipo? This Must Be The Place è la risposta: un film quasi interamente italiano, ma recitato in inglese, interpretato da una star, con un budget sostanzioso (poco meno di 30 milioni di dollari) e ambientato all’estero – in Irlanda, e ovviamente negli Stati Uniti.
La soluzione di questa curiosità è però, purtroppo, abbastanza deludente. Il problema di This Must Be The Place – lo avrete letto e lo leggerete ovunque - è soprattutto una questione di misura: Sorrentino è sempre stato un regista virtuosistico e baldanzoso, lo dimostrano i clamorosi pezzi di bravura disseminati nei suoi film precedenti e che non mancano nemmeno qui, ma in questo film il regista e il solito Luca Bigazzi (che fa però un lavoro davvero ammirevole intorno agli spigoli e nel cuore del mito estetico dell’America on the road) perde spesso il controllo del mezzo tecnico, in un profluvio inarrestabile di dolly e di carrelli; che però, purtroppo, sembrano non procedere insieme al personaggio, né verso alcuna direzione a dire il vero, danzandogli piuttosto davanti in un’altalena vertiginosa; il regista sembra dimenticarsi il potenziale trasporto emotivo di un movimento di macchina trasformandolo in una fiaccante chinetosi.
Certo, il film non è tutto qui: c’è la riuscita e peculiare interpretazione di Penn (pur rovinata irrimediabilmente dal doppiaggio italiano), c’è la colonna sonora di David Byrne (intorno a cui Sorrentino costruisce l’immancabile pezzo di bravura, vedi sopra), c’è un’ironia sorniona e quieta che a tratti riesce a conquistare – ma l’esuberanza formale rimane in primo piano, nascondendo frequentemente (basti pensare ai tre lenti ed elaborati carrelli circolari con cui è girato il lungo monologo di Aloise Lange, sotto ai quali le parole – pur pesanti e provocatorie – perdono di rilevanza) molte delle difficoltà e le debolezze della sceneggiatura, decisamente meccanica (la risoluzione finale del personaggio), spesso indecisa (per esempio nel tratteggio di personaggi secondari solo in funzione del protagonista) e forse persino un po’ pretestuosa.
Va detto però che questo film (che non è un brutto film in senso assoluto, diciamo che si tratta di una questione di prospettive) rappresenta un punto di svolta importante per il cinema italiano: una produzione nostrana che ha investito capitali ingenti, non solo economici, su un vero Autore che non ha paura di mettere nel film tutto se stesso, tutte le sue capacità, a manciate, a badilate, senza paura di fallire – o meglio, anche a costo di fallire. Sorrentino avrà preso male le misure e si sarà fatto trascinare troppo, ma è ancora il regista di cui si parlava all’inizio: l’unico in grado di competere davvero con i maestri, e di vincere. Un esempio per tutti, persino in un film sommariamente sbagliato come questo.
L’ultimo terrestre
di Gian Alfonso Pacinotti, 2011
Come spesso accade con le opere prime, anche l’esordio di Gian Alfonso Pacinotti, in arte Gipi, celebre autore di fumetti, è vittima di qualche ingenuità, della metafora troppo esplicita, della tentazione di spingere sul pedale del grottesco tralasciando magari elementi essenziali quali il rigore della sceneggiatura; ma ben più preziose, in fin dei conti, sono la sua audacia, la sua libertà visiva, evidente fin dalla prima sequenza, per non dimenticare la professionalità produttiva che si stacca con forza dalla media del cinema italiano. E, perché no, il suo talento: il film è pieno di momenti di grande forza espressiva (il culmine è forse la lunga e violenta scena ripresa dall’interno della macchina) che pongono pochi dubbi sulle sue capacità di metteur en scène.
Ispirandosi a un graphic novel di Giacomo Monti, Gipi racconta una storia bizzarra, tenera e feroce, che getta uno sguardo per nulla rassicurante su un’umanità sbandata, svuotata di morale e di senso, alla ricerca disperata di una salvezza o di una condanna, condividendo con il pubblico il punto di vista di un cameriere del Bingo, solitario, schivo, pavido e misogino, che sembra però in qualche modo possedere gli ultimi barlumi di umanità sul pianeta, a pochi giorni da un’apocalisse aliena che ne deciderà le sorti. Cedendo semmai nella seconda parte alla tentazione di rimettersi su binari meno inauditi e originali (e a un certo punto, colpevolmente, all’overacting di Roberto Herlitzka) ma mantenendo sempre un registro ironico e lo stesso gusto compositivo di impressionante precisione.
Gabriele Spinelli e Anna Bellato sono terribilmente convincenti, e sono loro la più bella sorpresa del film: quella di Gipi è forse ancora una promessa da mantenere, ci sono molte cose da sistemare e aggiustare, ma il suo primo film è senza dubbio un buon segnale per il futuro e, a modo suo, un esempio per gli esordi italiani a venire.
Alla periferia di una grande città, un gruppo di bambini di regioni e accenti diversi, asserragliato dentro un castello di lamiere e ruggine, deve affrontare la scoperta del male; molti anni dopo, tre di quei bambini sono diventati grandi, ma portano nello spirito il peso e sul corpo i segni di quell’estate.
Daniele Gaglianone, attraverso un montaggio parallelo scritto senza alcuna delle insopportabili enfasi della sceneggiatura all’italiana, racconta una fiaba nera e cupissima sulla perdita dell’innocenza e sui corrosivi sedimenti della paura: Ruggine non è un film impeccabile, non sempre riesce a trovare un equilibrio tra le sue parti che ne giustifichi del tutto la struttura (prima di tutto perché quella ambientata nel passato è inevitabilmente più forte e più radicale), eppure è un film prezioso e imperdibile, ai di là della confezione in cui spiccano la fotografia e le musiche: prima di tutto perché Gaglianone (come già aveva dimostrato in Nemmeno il destino) è un grande direttore di giovani attori e qui i bambini, piccolo esercito di facce sporche di polvere e sudore e lividi di cinture, sono assolutamente perfetti, tanto da metter in ombra i colleghi più adulti e scafati; e poi ha il talento di saper saltare dal punto di vista dell’ingenuità infantile che svanisce di fronte alla morte a quello del male puro, spesso mostrando la distorsione del reale da entrambe le prospettive, e di spingersi al di là dell’orrore, dentro la tana del lupo – con un coraggio raro nel cinema italiano, ma anche con un rigore morale, che si dissolve semmai gradualmente nella consapevolezza che l’orrore reale è più terrificante di qualunque storia di paura.
Dall’altra parte del tempo gli adulti interpretano in tre unità di tempo e spazio un lampo del loro destino: Accorsi è quello più in difficoltà, un po’ per la natura stessa della sua parte e un po’ perché è l’elemento più debole del cast; la Solarino interpreta con grazia e sensibilità il segmento più esplicito e duro; Mastandrea è semplicemente bravissimo, anche fuori dal suo accento naturale, e ha la responsabilità di far respirare il pubblico con riusciti tocchi ironici, anche se in verità la sua parte è la più profondamente drammatica. La parte del gigante, in tutti i sensi, la fa però Filippo Timi: seppur affrontando un paio di (perdonabili) forzature dei dialoghi, regala un orco nero di indimenticabile cattiveria, un villain terrificante che non concede spazio all’empatia o alle sfumature, un’incarnazione del male dai contorni horror, e almeno due scene da antologia - una di queste, quella in cui canta Una furtiva lagrima rivelando nella mano la traccia del suo delitto.
Nelle ultime settimane si è parlato così tanto, ma così tanto, di Habemus Papam, che si è parlato troppo persino del fatto che se n’è parlato troppo. Dal canto mio, ho avuto molto da fare: un’ottima giustificazione per assolvermi assistendo accigliato alla sfilata di commenti spesso discordanti non tanto con la mia opinione personale sul film quanto sul metodo o sulle premesse di partenza. La tentazione di fare un post in cui prendersi gioco di queste posizioni e delle molte sciocchezze che ho letto in giro era forte, ma poi mi sono reso conto (in realtà lo so da tempo) che spesso mi danno ancora più noia i giudizi che fungono da mero pretesto per attaccare gli altri giudizi o gli spettatori, i cui estremi in questo caso sarebbero: quelli che odiano Moretti a prescindere; (ancora di più) quelli che lo amano troppo; per tacere dei preti, o degli anticlericali più accesi. Preferisco parlare anche un po’ del film, per quel che vale, soprattutto perché Habemus Papam merita questo rispetto: Moretti è riuscito nel benevolo inganno di prenderci alla sprovvista con lo specchietto per allodole del Vaticano per raccontare una storia assai universale sul peso delle responsabilità e sui limiti dell’essere umano filtrata attraverso uno scontro gentile ma sbalorditivo tra l’ossessione psicanalitica del regista e un inatteso (ma non incoerente) fascino nei confronti del sacro – o meglio, il rapporto dell’uomo con il sacro, e la malinconia disperata di un uomo investito da Dio nei confronti della sua stessa ormai perduta umanità. Il film viaggia ovviamente su due binari paralleli, con il Papa che va a zonzo per Roma in preda ai postumi di un rivelatorio attacco di panico mentre lo psicanalista rimane imprigionato in Vaticano alle prese con una sconcertante, buffa e poetica umanizzazione (e smitizzazione) del Conclave; e mescolando in modo sapiente ed equilibrato lo spirito pungente tipicamente morettiano del secondo binario (lunghissima e irresistibile la lista delle citazioni che ci esimeremo dal citare) con la più quieta e interiore ricerca del Papa tra le vie e i mezzi pubblici della Capitale, procede verso un finale secco e quasi improvviso ma assolutamente necessario in cui Moretti tira davvero le fila, senza lasciare scampoli, della sua riflessione sull’essere umano. Una chiusa spietata, a suo modo, ma giustissima e perfetta che conferma, al di là del divertimento innegabile e della candida leggerezza che accompagna gran parte del film, la cupezza sottesa del suo cinema, o quantomeno la sua ineluttabilità. E più di tutto, la lucidità sempre più matura e profonda del suo sguardo sul mondo e sull’uomo.
Tra le opere italiane delle ultime stagioni che hanno goduto di un qualche tipo di visibilità sul mercato americano, il film di Luca Guadagnino è (insieme a Vincere di Marco Bellocchio e pochi altri) quello che ha suscitato pareri più entusiastici: merito della presenza di Tilda Swinton a fare da apripista, senza dubbio, ma anche di un modo di raccontare l’Italia, forse l’Europa per estensione, che come il citato Vincere si distacca fortemente da quello che normalmente propone il panorama del cinema italiano. Non per forza una questione di qualità, ma senza dubbio di differenza: Io sono l’amore ha dunque l’aspetto, e l’ambizione, di un film d’autore, “arty” se mi passate il termine, e distante da dinamiche prettamente locali (per il suo parlare di temi estesi: la famiglia, la coercizione sociale, il potere deflagrante delle passioni) che sono anche i soli modi, o tra i pochi, di farsi notare oltreoceano. Curioso però che un film tanto osannato dai media anglofoni, con tanto di nomination agli Oscar per i costumi (che suonava l’usuale briciola buttata lì per accontentare la critica, in una linea simile alla candidatura di Jackie Weaver), sia così mortalmente malriuscito: si intenda, Guadagnino ha tutta la nostra stima per aver cercato in tutti i modi di imporre un’impronta stilistica decisa al suo film, per aver raccontato la dissoluzione borghese senza ricorrere ai mezzucci di certo cinema medio, e per aver girato un’opera che sa essere così personale, ma tra le intenzioni e i risultati c’è di mezzo un mare. Di noia, di boria e qualche volta di imbarazzo. Il problema è che le difficoltà del regista, enormi, spiccano immediatamente in ogni momento in cui la macchina da presa smette di muoversi (la sequenza migliore, a parte i titoli di testa, è lo stalking tra le vie di Sanremo) con la sua precisa frenesia: prima di tutto la direzione degli attori, funesta e disperatamente fallace (soprattutto nel suo volersi in qualche modo nascondere implicitamente dietro a un “metodo” o all’idea che la pessima performance di gran parte del cast possa veicolare la glacialità del loro status sociale), la fotografia che si appoggia a comodità scenografiche proponendo una patina polverosa spacciata per europeismo di maniera, ma è soprattutto la foga di Guadagnino nel voler dimostrare la propria alterità a creare i mostri di questo film, tra cui l’incredibile sequenza del coito tra i fiori, una delle più sgraziate e ridicole degli ultimi anni, peraltro un vero e proprio spartiacque tra ciò che il film stava cercando di essere prima e ciò che finisce per essere dopo: un bel disastro in cui il contrasto tra natura e cultura diventa un conflitto aperto tra cliché sull’oppressione borghese da una parte, e dall’altra campi fioriti, gente che cucina in montagna e indossa canottiere alla guida di camioncini. L’esempio definitivo di come Guadagnino sia riuscito a celare le sue difficoltà, ai miei occhi, è però tutta la parte finale, in cui (a parte la presenza di momenti risibili come l’abbraccio alla cameriera, e passi) basta togliere dal campo la colonna sonora dagli ultimi minuti per rendersi conto che sotto la musica roboante ci sono solo brutte inquadrature statiche; e allo stesso tempo la catartica risoluzione emotiva finisce per essere tanto asfittica quanto i personaggi lasciati a soffocare nella loro asfissia.
Boris – Il film
di Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo, 2011
Il passaggio di un prodotto dal piccolo al grande schermo contiene di per sé un fattore di rischio enorme, qualunque sia il contesto commerciale o culturale in cui si inserisce, per molteplici ragioni. Tanto più se il contesto è quello italiano, in cui Boris è sempre stato un outsider, un “ribelle”, e un caso più unico che raro: quello di una serie tv capace di penetrare davvero il suo pubblico entrando nel cuore degli spettatori, seppure una nicchia, con dinamiche promozionali e affettive (per sintetizzare) che generalmente si applicano solo a prodotti in lingua inglese.
Se non è l’unica serie italiana a cui si può attribuire l’etichetta di “cult”, visti i recenti casi di Romanzo Criminale e, in modo differente, di Tutti Pazzi per Amore, Boris è senza dubbio la capofila di un modo di produrre (e promuovere) la televisione che vuole levarsi di dosso il più possibile la pesante eredità delle brutture portate da trent’anni di tv commerciale. E non a caso era proprio una serie tv sulla televisione stessa. Ma senza soffermarsi lungamente sui meriti della serie, isoliamo il problema principale del passaggio, il rischio numero uno: la televisione e il cinema parlano lingue diverse.
Qui sta il paradosso più stupefacente della riuscita eccellente, straordinaria, e a mio avviso quasi miracolosa del film di Boris: ovvero, che non c’è alcuna differenza sostanziale con la serie, non solo per la presenza di quasi tutti i personaggi principali e secondari, ma anche con il suo ritmo e i suoi toni (più che di un episodio lungo come cinque, come si legge spesso in giro, sarei più portato a parlare di una stagione lunga la metà) eppure non risulta mai forzato da un punto di vista cinematografico: anzi, funziona alla perfezione sia come ideale sequel della serie che come film a sé stante; è creato indubbiamente pensando ai fan della serie ma è capace di parlare a quelli che la serie non l’hanno mai vista. E non a caso è un film che parla del cinema, del cinema italiano.
I tre sceneggiatori, passati qui alla regia, hanno però senza dubbio preparato il campo con la terza stagione della serie, che era nerissima, quasi disperata pur nella sua irresistibile comicità; e travolgendo stavolta l’industria del cinema italiano, con le sue contraddizioni e una corruzione ormai endemica e strutturale, il film porta a compimento una vera riflessione a tutto tondo sull’industria dello spettacolo, e lo fa con un pessimismo e uno sguardo di impressionante lucidità (nonostante l’uso del grottesco, a volte della parodia sopra le righe) che è la vera, autentica eredità della migliore tradizione della commedia nostrana. Nel panorama dell’exploit del cinema medio, nel bene e nel male, Boris è ancora un outsider: un film che fa ridere, eccome, ma che graffia e fa sanguinare.
Una crudeltà e un’irriverenza che non fa troppi prigionieri, con una gamma che va dalla denuncia allo sfottò (irresistibile il nuovo personaggio della “miglior attrice italiana”: il gioco, facile, è indovinare l’originale) e che non ha semplicemente paragoni nel cinema recente: questo sarebbe già un motivo sufficiente per amare e promuovere questo piccolo film che ha la fortuna di uscire in un periodo particolarmente fortunato per la commedia italiana (il rischio era che passasse del tutto inosservato), ma la verità è che il cuore di Boris è prima di tutto la scrittura e, per estensione, la comicità. Quindi è una fortuna che Ciarrapico, Torre e Vendruscolo, sceneggiatori dal talento esuberante e completamente anomalo, abbiano preso le redini del progetto: perché è la sceneggiatura l’asse portante del film, uno script illuminato, chirurgico e spietato, che non sbaglia un colpo.
L’altro elemento che fa di questo film una continuazione ideale della serie, se vogliamo, è l’evoluzione del personaggio di René Ferretti, modificato gradualmente nelle tre stagioni da elemento portante di un racconto corale a protagonista assoluto della saga: e il film gira tutto intorno a lui, alla sua frustrazione, al suo tentativo quasi tragico e palesemente vano, a tratti epico e poderoso e a tratti vigliacco e disilluso, di trasformare gli insuccessi in una riscossa personale; è la sua la più profonda, o meglio l’unica vera consapevolezza del virus epidemico della cultura in Italia, e Francesco Pannofino dipinge questo allegro avvilimento dando una vera lezione di recitazione – comica e non solo. Dovrebbe fare un film al mese, Pannofino. Altro che doppiaggio.
Nessuno mi può giudicare
di Massimiliano Bruno, 2011
Non mi capita spesso di divertirmi davvero con una commedia italiana odierna: a dire il vero, non mi capita quasi mai. Parte dei film che ci provano li evito per questo o quel pregiudizio, i rimanenti mi lasciano quasi sempre insoddisfatto. Il primo film da regista di Massimiliano Bruno, collaboratore fisso di Fausto Brizzi – che qui è soggettista e co-sceneggiatore – e caratterista di Boris (da cui ha trasportato in massa mezzo cast facendo di questa sua opera prima, anche per certi toni e per alcune suggestioni umoristiche, una sorta di “cugina” della serie tv e del film da essa tratto), riesce nell’impresa di perfezionare il metodo-Brizzi (che include, va da sé, anche una buona dose di cerchiobottismo e di paraculaggine) con una bella commedia di personaggi che fa ridere di gusto. Punto. E come già Pellegrini l’anno scorso con il suo valido Figli delle stelle costruisce questo suo successo intorno a un’idea di ispirazione contemporanea ma senza avere la minima intenzione di spingersi a una riflessione sociale o politica, né tantomeno di fare satira. Soltanto una storia, insomma: ma raccontata come si deve. Certo, anche qui non tutto va per il verso giusto, ci sono alcune scelte sparse abbastanza inspiegabili (per esempio la tirade antimorettiana di Papaleo, del tutto fuori luogo: facciamo finta di niente) e alcune parti drammatiche sono spesso tirate via e/o incollate con lo sputo, ma Bruno ha la capacità di spezzare sempre il patetismo (brizziano anch’esso, pensiamo a Ex) al punto giusto con un uso più sapiente dell’ironia, mantenendo il film sempre su un registro leggero ma con un ritmo invidiabile – e in definitiva il film trae vantaggio proprio dalla riduzione delle sue ambizioni. Insomma, come “prodotto medio” Nessuno mi può giudicare è davvero ineccepibile: ci si può chiedere, al massimo, se abbiamo bisogno o meno di film così, ma penso che un’opera così ben confezionata e interpretata (bravissima la Cortellesi, finalmente protagonista e peraltro di un film che sfrutta doverosamente la sua sensibilità e il suo talento, ottima buona parte del cast secondario), che fa ridere senza quel tipico senso di imbarazzo televisivo e d’altro canto lasciando le questioni politiche e sociali a chi se ne può occupare con più cura e attenzione, non solo non faccia male a nessuno ma sia un buon punto di partenza per lavorare sul futuro della commedia italiana. Alla fine, una risata ben piazzata non è una rivoluzione né una panacea: ma visto l’andazzo è un risultato di cui andare fieri. Ed è una strada giusta.
Vallanzasca – Gli angeli del male
di Michele Placido, 2010
Se avessi visto tutti i film di Michele Placido, e son lungi dall’averlo fatto, mi spingerei a dire che Vallanzasca è il suo film più bello: anche soltanto perché porta a compimento un procedimento produttivo già presente in film com Romanzo Criminale e Il Grande Sogno: in due parole, nel nostro paese è difficile, quasi impossibile fare della fiction basata su fatti reali o storici, a causa della tendenza spiccata dei media di politicizzare e polarizzare tutto, cinema incluso, procedimento che causa una sorta di autocensura inconscia delle istanze creative che non fa certo bene al cinema. Placido, si sa, con i media non ha mai avuto un buon rapporto: e se si può discutere sul suo “carattere”, sia come uomo che soprattutto come regista, è indubbio che la sua sfrontatezza abbia giovato al suo cinema. Ed ecco che Vallanzasca è la rappresentazione ideale e definitiva del suo gioioso e spudorato disinteresse in tal senso: si può parlare eccome del fascino del male, senza sentirsi in colpa, né tantomeno senza avere paura di fare l’apologia del male. A Placido interessa lo charme del bandito in sé più che le distinzioni metaforiche, il corpo e la voce di Vallanzasca più che l’inserimento all’interno della Storia di un Paese: il suo film è semplicemente un ottimo gangster movie, poderoso e a tratti sorprendente, che se da una parte abbassa appunto in modo sano e doveroso le ambizioni autoriali, dall’altra si allontana dalla televisione avvicinandosi sempre di più alla storia gloriosa (e ormai ultra-celebrata) del cinema di genere italiano. Il segreto di Vallanzasca, che lo rende persino più riuscito di Romanzo Criminale, è l’eliminazione dell’anello debole, ovvero la lotta tra il bene e il male, impersonata in quel film da Stefano Accorsi: non ci sono poliziotti in Vallanzasca, non ci sono “buoni” tradizionali, ci sono solo banditi, Vallanzasca è semmai un film sulla lotta tra il male e se stesso. Tratto distintivo dell’operazione, e suo punto di forza, è la direzione degli attori, sopra le righe, teatrale, quasi caricaturale, con un Kim Rossi Stuart spettacolare e affascinante, bellissimo e “sporco”, che mette in ombra Filippo Timi e spesso anche Placido stesso; un ruolo deliberatamente spinto all’eccesso nei movimenti del corpo, nei toni della voce, nell’accento milanese, l’ennesima conferma del talento versatile dell’attore romano.
Ciò che mi fa più innervosire di Qualunquemente è che te la fa annusare, la vittoria. Ti crea l’illusione di essere riuscito davvero a prendere un personaggio televisivo e trasformarlo in una commedia acida che riflettesse l’immagine dell’Italia contemporanea tramite l’arma del grottesco e dell’eccesso, come da migliore tradizione se vogliamo. E per un po’ ci si crede: colpa o merito della regia assai impegnata e professionale di Manfredonia, e della prima mezzora in cui si consumano quasi tutte le idee (non troppe) della sceneggiatura. Ma dopo una partenza scoppiettante, il modo drastico e inevitabile con cui il film si ammoscia minuto dopo minuto rende ancora più indigeribile la sconfitta, raggiunta replicando allo sfinimento le trovate della prima parte senza mai riuscire a sfondare con una risata liberatoria il muro del sorriso a denti stretti, e con la netta sensazione che si siano divertiti più loro a realizzarlo che noi: mai compiacersi troppo delle proprie barzellette. Albanese è anche bravo, a modo suo, ma non ha il coraggio di liberare Cetto La Qualunque dai tic e dai tormentoni, né di trasformare la sua cattiveria buffa in cattiveria amara; Sergio Rubini invece è soltanto una macchietta, che non sarebbe nemmeno un male se solo fosse una macchietta divertente. Davvero un peccato: la prossima volta impariamo a diffidare di un film, per quanto possa starci simpatico il suo autore, che sia nato da uno sketch televisivo, per quanto si possa trovare spassoso e geniale lo sketch stesso. Che il cinema è un’altra roba.
La solitudine dei numeri primi
di Saverio Costanzo, 2010
Non mi capita molto spesso di pensare che un film sia radicalmente trasformato dalle scelte della sua colonna sonora. Qualche volta però capita un film che ci ricorda quanto sia importante il rapporto tra musica e immagini – ovviamente in opere che fanno utilizzo delle musiche in modo significativo: il fatto che sia così evidente può anche non andare a vantaggio del film stesso. In La solitudine dei numeri primi, la cui bellissima colonna sonora è curata da Mike Patton, ci sono almeno tre musiche, tutte intradiegetiche, che sono fondamentali per lo svolgimento del racconto: l’incipit spettacolare della recita teatrale dei bambini, con un pezzo inedito dei Goblin; la lunga sequenza della festa adolescenziale, con la musica da discoteca dei primi anni ’90; la scena dell’incontro tra Mattia e Alice nell’appartamento di quest’ultima, con Bette Davis Eyes. Il primo pezzo, per esempio, riesce da solo a dare il La all’intera narrazione successiva: La solitudine dei numeri primi è un romanzo di formazione sentimentale ma è raccontato come un horror, ne richiama i toni, la costruzione della tensione, ma di fatto è la colonna sonora a fare gran parte del lavoro. Per quanto riguarda la sequenza centrale della festa liceale, ovviamente inframmezzata dai flashback e i flashforward attraverso i quali è raccontata la storia di Alice e Mattia, quello è il punto del film dove Saverio Costanzo si sblocca dagli indugi che hanno caratterizzato la prima parte, e ancora una volta la musica sembra essere il veicolo ideale per questa autentica liberazione dalla sceneggiatura. L’impressione che ho avuto è che la collaborazione con Giordano non abbia giovato al film, i cui primi tre quarti d’ora sono caratterizzati da dialoghi forzati, personaggi di poco interesse e una generale scarsezza di energia visiva e narrativa, seguendo un’idea fin troppo scoperta della trasposizione letteraria sotto la quale si intravede poco cinema. Nel momento in cui i personaggi smettono di parlare, in cui la musica assordante copre le loro voci divenute inessenziali, il film diventa più interessante – prima un tour de force visivo e sonoro (a patto di vederlo nelle condizioni ideali: a volume altissimo) e poi una inevitabile concatenazione di eventi in cui il gioco del montaggio parallelo acquista finalmente un senso compiuto. I dialoghi, il grande ostacolo alla riuscita completa di questo film inusuale e sbilanciato, smettono di avere un peso e si gioca di più sui rapporti tra i corpi, sui contrasti tra i luoghi. Il film smette di spiegare e comincia a raccontare: bisogna dargli un po’ di pazienza e fiducia, ma il film di Costanzo, imperfetto ma coraggioso, qualcosa restituisce. E infine, la canzone di Kim Carnes, che Alice sta ascoltando a volume altissimo quando Mattia arriva alla sua porta e che non viene interrotta al suo ingresso: anche qui è la musica a parlare, insieme agli sguardi e ai corpi dei due protagonisti. Nel finale, a parlare è il silenzio.
Dopo la morte di un operaio sul lavoro, e dopo essere intervenuto invano in un talk-show sulle morti bianche, un collega decide di rapire il Ministro del Lavoro per chiedere un riscatto di risarcimento alla vedova. Insieme a lui, un professore di educazione fisica costretto dalla crisi a lavorare all’Autogrill; il cugino di quest’ultimo, un corpulento malinconico delle lotte sociali che ha sposato una coi soldi; e un ex carcerato con giacca di pelle e fare misterioso; il collante, una giovane giornalista combattiva e confusa. Purtroppo i quattro sbagliano persona e rapiscono un povero sottosegretario finito nel posto sbagliato, al momento sbagliato, per la causa giusta.
Con una premessa simile, Figli delle stelle poteva prendere un sacco di direzioni e diventare un sacco di cose – approssimativamente tutte quelle per cui può venire scambiato, come la delicatissima parodia dei film sul terrorismo che il film in realtà non è. Pellegrini mette invece in scena una commedia all’italiana, con tutti i crismi del caso, e un film in cui al centro dell’azione non c’è critica sociale o politica ma il disegno dei personaggi, perseguendo l’idea che siano questi ultimi, da sé, a far fuoriuscire la prima: l’azzardo considerati i temi in ballo è davvero minimo, e nonostante le pistole in scena siano molte gli spari sono pochi. Ma quella di Pellegrini è una direzione coerente, sostanzialmente inattaccabile, perché conscia dei propri limiti – o meglio, dei confini all’interno dei quali vuole narrare la sua storia. Inutile andare al cinema a cercare soluzioni di un altro cinema: tenetelo ben presente, che la tentazione è forte.
Dunque Figli delle stelle funziona, anche se funziona solo a metà. Si apre infatti in modo brillante, sulle immagini di Marghera, sull’incidente improvviso, e ha la trovata intelligente di continuare a intervenire in medias res spezzando di nuovo la narrazione con un’ellissi temporale – evitandoci il fastidio della solita presentazione dei personaggi e lasciando che si presentino da soli con il passare dei minuti. Stesso discorso per le modalità con cui le loro storie si incontrano e per il piano del rapimento: alla sceneggiatura questi dettagli non interessano, li salta a pié pari, e questo giova al ritmo del film. Da lì in poi però il film ingrana a fatica, gli attori sono spinti a calcare sul carattere e sugli accenti, il divertimento viene in secondo piano rispetto alla fatica di far proseguire la narrazione. Tutta la parte del film ambientata in Val D’Aosta, con il beneficio della stasi, è invece decisamente più riuscita, sia per il set inaudito (e la cura visiva che nella prima metà era lasciata a se stessa, potere della neve), sia per il cinismo con cui è dipinta la piccola comunità montana, sia per il coraggio di spingere un po’ di più su tutti i pedali – quello farsesco (il balletto sulla canzone di Sorrenti) quello drammatico (la sequenza minacciosa della “passeggiata”) che quello più classicamente dolceamaro (l’inseguimento sul confine e il finale).
Se ancora una volta Pellegrini non è riuscito a ripetere quell’episodio straordinario che fu E allora mambo!, una delle migliori commedie italiane degli ultimi vent’anni (riflettendoci ce ne sono poche a quel livello, ma fa lo stesso), si conferma quantomeno un buon co-sceneggiatore (abbiamo visto perché, i trucchi del mestiere non mancano, i dialoghi sono buoni e fanno ridere, visto l’andazzo generale è tutto grasso che cola) e un ottimo direttore di attori, con la trovata di dividere nettamente i compiti all’interno del cast in modo piuttosto inusuale ma funzionale: Giuseppe Battiston e Pierfrancesco Favino si beccano le parti comiche, a Fabio Volo e Fabio Sassanelli toccano quelle drammatiche, Giorgio Tirabassi ha questo ruolo intermedio ed è il migliore del gruppo – ma comunque se la cavano tutti egregiamente, chi più chi meno.
Una commedia innocua, tutto sommato: chi ha detto che ci deve dispiacere?
Nel quartetto degli italiani in Concorso all’ultima Mostra di Venezia, il nuovo film di Carlo Mazzacurati è probabilmente quello che è stato accolto più positivamente – o meglio quello di cui io, personalmente, avevo sentito parlare con meno riserve dai fidati contatti distribuiti per il Lido. Ciò nonostante, La Passione è stata per me una non troppo sonora ma innegabile delusione. Non tanto perché sia un film indifendibile (non lo è, anzi, ha i suoi momenti) ma perché spreca la possibilità di parlare con intelligenza e acume dello stato del cinema e della cultura in Italia (e l’intenzione c’era, basta vedere l’incipit) per girare più spesso intorno a una più facile comicità fatta di un accumulo di sketch, battute e macchiette che non fanno mai ridere, inseguendo l’ambizione di una sorta di dolente confessione artistica che, nell’interminabile parte conclusiva, sfocia in un misticismo autoindulgente che fa venire il nervoso persino in un film italiano. E tra disequilibri e indecisioni, a risentirne è la qualità dei personaggi (grave, in un film fatto solo di personaggi), tratteggiati con poca cura, soprattutto quelli secondari sopra i quali Silvio Orlando si muove a bordo di uno stampino col pilota automatico. Nella depressione generale, Battiston è ancora una volta il migliore della compagnia, mentre è inutile spendere troppe parole su Corrado Guzzanti, il cui assoluto genio televisivo non trova per nulla la sua dimensione – semplicemente: fuori posto.
Devo dedicare però una nota particolare all’esperienza tanto interessante quanto mortificante della visione di La Passione in una sala del centro a Milano, che potrebbe addirittura aver determinato in qualche modo il basso gradimento del film stesso. In poche parole, il pubblico ha riso a squarciagola per tutta la durata del film (e fin qui niente male, contenti loro) ma spesso e volentieri in momenti in cui sullo schermo non succedeva niente, addirittura nel passaggio tra una scena e l’altra – non dico che ci sia un problema se tutti ridono nella gag del divano letto, pace all’anima loro ma almeno è una gag, parlo di grasse e rumorose risate in sala mentre un personaggio si mette le ciabatte e basta. A quanto pare, non sono l’unico ad aver notato questa cosa. In una prospettiva particolarmente snob, sono giunto alla conclusione disumana che a tutto ciò abbia contribuito il lancio del film, spacciato dal trailer per una specie di commedia demenziale: forse il pubblico pur di non vedere stravolte le proprie aspettative preferisce affrontare un film (anche socialmente, Goffman docet) non come il film che stanno vedendo ma come il film che credevano di vedere? Non sono sicuro di voler sentire la risposta.
Certi post dovrebbero avere una data di scadenza, ma forse è possibile fare di necessità virtù, al prezzo del rumore delle unghie sul vetro. Mi spiego: ho visto Shadow qualche settimana fa, nel weekend in cui è uscito, ma non ne ho mai scritto. Non so se qualcuno se ne sia accorto, ma il ritmo qui è decelerato notevolmente: scegliete voi a chi dare la colpa, mancanza di tempo, mancanza di titoli, la stagione che va scemando, la decadenza dei blog in generale. Peccato: avrei voluto prendere parte all’accesa discussione che si è svolta nel giro di pochissimi giorni sul film, che ha diviso infatti quasi nettamente quelli che considero i due migliori blog di cinema attualmente in Italia – da una parte, l’entusiasmo di Nanni su I 400 Calci, dall’altra la freddezza di Paolo su Secondavisione. In altri tempi, probabilmente, mi ci sarei buttato a pesce. Ma forse, si diceva, posso riportare a mio vantaggio il mio ritardo perché, come al solito, dopo pochi giorni di Shadow non interessava più niente a nessuno, c’era qualche altro film su cui discutere, e la quantità di sale in cui il film di Zampaglione è uscito non ha certo aiutato a renderlo più rilevante. Ancora una volta: peccato. Shadow infatti tra i suoi più grandi meriti, non il solo, e qui già credo si intuisca vagamente cosa io ne pensi, ha quello di far intravedere una possibilità per il genere nel nostro paese infinitamente più concreta che in alcuni altri casi recenti, e forse proprio a causa della sua ingenuità. Ovvero, se dubito che Zampaglione volesse rilanciare il film horror all’italiana, perché probabilmente voleva solo fare un horror all’italiana omaggiando i maestri del genere, forse è proprio questo lo spirito giusto – farlo perché si può fare, e perché una volta lo facevamo spesso, e benone, anche se poi ci è venuta, al pubblico e agli autori italiani in equa parte, una gran paura dell’ignoto che nemmeno la Cina. E beh, poi c’è il problema che non c’è più molto da dire. Tutti sanno bene o male di cosa si tratta, tutti sanno quale cosa strana sia che il leader dei Tiromancino diriga un horror che cita Argento e Deodato prendendosi il plauso degli appassionati del genere, tutti sanno ormai quali sono i frutti della discordia – soprattutto il finale “a sorpresa”, ma anche cose come il corridoio con i quadri – tutti sanno che è indubbiamente girato come la madonna vuole, tutti sapete di che film stiamo parlando, e del perché possa piacere da matti, e del perché possa lasciare indifferenti. Quindi a me non rimane che rimettere in campo per qualche ora Shadow, il secondo film di Federico Zampaglione, un film che ha un sacco di cose che non vanno, fuori fuoco ma che, all’uscita dalla sala, ho voluto consigliare a gran voce per settimane a mezzo mondo, evitando magari i più impressionabili, “andate a vedere Shadow perché è una figata e forse ci siamo”. Forse è questo è il momento giusto, quello in cui a nessuno fregava più niente di Shadow, e forse questo post fa già abbastanza da sé.
Cosa faccio quindi, prendo posizione e non spiego nemmeno un po’? Va bene.