La nostra vita
di Daniele Luchetti, 2010
Per essere l’unico film in Concorso al Festival di Cannes di quest’anno, non potevo immaginare che il nuovo film di Luchetti fosse così irrilevante – questa è la parola che mi frulla in testa da un paio di giorni: il problema non è che La nostra vita sia un film particolarmente malriuscito, ma è anche un film che nella fatica del dividersi tra le sue due anime e ambizioni (quella sociale e quella individuale, chiamiamole così per brevità) fallisce nel trovare un taglio personale e originale con cui raccontare l’Italia di oggi.
A criticare La nostra vita si rischia di fare la pessima figura di quelli, in posizioni di potere o meno, che vorrebbero un cinema italiano meno spietato nei confronti del nostro stesso paese, forse più consolatorio, o soltanto allegro. Cosa che in effetti il film non è: ma il problema non sta tanto nell’Italia che Luchetti racconta, guardata da una distanza tale da rivelare da una parte da non appartenenza di Luchetti a questo mondo e dall’altra un sincero interesse, quasi etnografico (che fa il paio con l’ultimo Soldini, in qualche modo), ma sta semmai nella semplificazione con cui si esplicita il giudizio. Insomma, se è molto interessante il fatto che il punto sul nostro paese sia messo in bocca a stranieri, lo è decisamente meno che sia cristallizzato in frasi di dialogo. Che tornano a ondate: "voi italiani siete fissati con i soldi", ed ecco a voi il tema del film, e se qualcuno avesse dei dubbi lo ripetiamo un’altra volta, e un’altra ancora. No, grazie.
Che poi, in realtà, visto dalla prima inquadratura all’ultima, La nostra vita incrocia chiaramente, nella tradizione del miglior cinema italiano, le osservazioni sociali sull’Italia con qualcosa di molto diverso – ovvero, la storia dell’elaborazione di un lutto: una cosa di cui ti rendi conto negli ultimi minuti di film. È tutto lì, e tutto sulle spalle di un solo personaggio, sempre in campo, sempre osservato da una vicinanza estrema, a una spanna dal viso, con la macchina da presa mobilissima – peraltro un personaggio ambiguo e assai spesso sgradevole per il pubblico nel modo in cui si relaziona al mondo, agli altri, ai suoi figli, al suo stesso dolore. Questo, quello più intimo e personale, è forse l’aspetto meno banale di un film riuscito solo a metà - anche se Luchetti ha troppa fiducia in Elio Germano, che è sì bravo, ma non bravo abbastanza da tenere in piedi un film sulle sue spalle.
L’altra cosa che mi frulla in testa dall’altro giorno è la questione-Vasco: la scelta della sua canzone sui titoli di testa è un colpo da maestro e un esempio da seguire – nel senso: il fatto che la coppia lo ascolti cantandolo a squarciagola, e poi che sia quella stessa canzone al centro di quell’altra scena qualche minuto dopo, e che il loro terzo figlio si chiami Vasco, racconta già da sé dei personaggi (aspetto che il pubblico internazionale difficilmente capirebbe) molto più delle noiose didascalie e delle voci fuori campo a cui molto cinema medio ci ha purtroppo abituato.