Italia

La nostra vita, Daniele Luchetti 2010

La nostra vita
di Daniele Luchetti, 2010

Per essere l’unico film in Concorso al Festival di Cannes di quest’anno, non potevo immaginare che il nuovo film di Luchetti fosse così irrilevante – questa è la parola che mi frulla in testa da un paio di giorni: il problema non è che La nostra vita sia un film particolarmente malriuscito, ma è anche un film che nella fatica del dividersi tra le sue due anime e ambizioni (quella sociale e quella individuale, chiamiamole così per brevità) fallisce nel trovare un taglio personale e originale con cui raccontare l’Italia di oggi.

A criticare La nostra vita si rischia di fare la pessima figura di quelli, in posizioni di potere o meno, che vorrebbero un cinema italiano meno spietato nei confronti del nostro stesso paese, forse più consolatorio, o soltanto allegro. Cosa che in effetti il film non è: ma il problema non sta tanto nell’Italia che Luchetti racconta, guardata da una distanza tale da rivelare da una parte da non appartenenza di Luchetti a questo mondo e dall’altra un sincero interesse, quasi etnografico (che fa il paio con l’ultimo Soldini, in qualche modo), ma sta semmai nella semplificazione con cui si esplicita il giudizio. Insomma, se è molto interessante il fatto che il punto sul nostro paese sia messo in bocca a stranieri, lo è decisamente meno che sia cristallizzato in frasi di dialogo. Che tornano a ondate: "voi italiani siete fissati con i soldi", ed ecco a voi il tema del film, e se qualcuno avesse dei dubbi lo ripetiamo un’altra volta, e un’altra ancora. No, grazie.

Che poi, in realtà, visto dalla prima inquadratura all’ultima, La nostra vita incrocia chiaramente, nella tradizione del miglior cinema italiano, le osservazioni sociali sull’Italia con qualcosa di molto diverso – ovvero, la storia dell’elaborazione di un lutto: una cosa di cui ti rendi conto negli ultimi minuti di film. È tutto lì, e tutto sulle spalle di un solo personaggio, sempre in campo, sempre osservato da una vicinanza estrema, a una spanna dal viso, con la macchina da presa mobilissima – peraltro un personaggio ambiguo e assai spesso sgradevole per il pubblico nel modo in cui si relaziona al mondo, agli altri, ai suoi figli, al suo stesso dolore. Questo, quello più intimo e personale, è forse l’aspetto meno banale di un film riuscito solo a metà -  anche se Luchetti ha troppa fiducia in Elio Germano, che è sì bravo, ma non bravo abbastanza da tenere in piedi un film sulle sue spalle. 

L’altra cosa che mi frulla in testa dall’altro giorno è la questione-Vasco: la scelta della sua canzone sui titoli di testa è un colpo da maestro e un esempio da seguire – nel senso: il fatto che la coppia lo ascolti cantandolo a squarciagola, e poi che sia quella stessa canzone al centro di quell’altra scena qualche minuto dopo, e che il loro terzo figlio si chiami Vasco, racconta già da sé dei personaggi (aspetto che il pubblico internazionale difficilmente capirebbe) molto più delle noiose didascalie e delle voci fuori campo a cui molto cinema medio ci ha purtroppo abituato.

Cosa voglio di più, Silvio Soldini 2010

Cosa voglio di più
di Silvio Soldini, 2010

Storia d’amore tra un uomo e una donna che tradiscono avventatamente, trascinati dall’inevitabilità della passione, sullo sfondo di un paese e di un presente ossessionati dal denaro, o meglio, dall’assenza di esso: Soldini insiste a raccontare il modo in cui si guardano in faccia la precarietà sociale e la precarietà dei sentimenti, e lo fa trasferendo una "storia di corna" piuttosto tipica anche nei suoi "movimenti" in un contesto sociale altro e ben preciso, lontano dai vezzi borghesi e più vicino alle zone residenziali fuori dalla città.

Si fa parecchia fatica, durante il film: forse perché Cosa voglio di più è molto, troppo, inspiegabilmente lungo, e perché la prima metà del film, quella che segue il personaggio di Alba Rohrwacher, si muove in modo disagevole tra la tensione emotiva e una costruzione del contesto appunto inusuale ma abbastanza superficiale. Dopo l’intelligente trovata del controcampo narrativo invece, quando si comincia ad abbracciare il punto di vista di Pierfrancesco Favino, Cosa voglio di più comincia a tirar fuori le armi più efficaci. Che sono quasi tutte davanti alla macchina da presa: i due bravissimi interpreti, prima di tutto, grazie alla cui naturalezza Soldini si riconferma non solo buon sceneggiatore ma anche ottimo direttore d’attori – comprimari compresi; oppure la regia, in cui lo stile documentario e il montaggio secco e intelligente (il taglio/colore di capelli della Rohrwacher come marca del tempo che passa) non impedisce al regista di stare appiccicato al corpo dei personaggi, quasi ad annusarli.

La debolezza, in un certo senso, del film – a parte la già citata eccessiva durata – sta più che altro nel suo non saper andare molto oltre la costruzione stessa, ma forse fa parte di una scelta di campo che vuole privare gli autori della responsabilità sui propri personaggi. Avvicinandosi più all’etnologia che al racconto morale: scritto con una invidiabile spontaneità, soprattutto per un cinema che spesso scade nel didascalismo, Cosa voglio di più di quest’ultimo è del tutto privo, grazie al cielo: si chiede con sereno distacco proprio allo spettatore di partecipare e di giudicare, di immedesimarsi con le ragioni dell’istinto e del corpo, o con quelle della ragione e della famiglia, quella che finisce per avere la meglio – con una punta, bella grossa, di malinconia.

Cosmonauta, Susanna Nicchiarelli 2009

Cosmonauta
di Susanna Nicchiarelli, 2009

Un esordio promettente, quello di Susanna Nicchiarelli (anche sceneggiatrice e attrice nel ruolo di Marisa): profondamente radicato nella tradizione italiana per come la Storia diventa pretesto di un racconto del tutto personale e famigliare (l’insicurezza dell’adolescenza, l’assenza della figura paterna, il desiderio di fuga), eppure capace di uno sguardo laterale, a volte trasversale, sia sulle vicende dei suoi personaggi, sia sul mondo in cui sono ambientate (con un contesto davvero inusuale), sia sul modo di narrarle. E l’idea di associare la storia di Luciana, a quella della conquista dello spazio, vista da lontano attraverso gli schermi televisivi delle sedi di partito, con Mosca a fare da chimera travolta (in conclusione) dal sogno americano dell’uomo sulla luna, è una trovata di sceneggiatura che dà ulteriore lustro a un film gradevole e, anche grazie a un gran bel cast (in primis la giovanissima e sorprendente Marianna Raschillà), del tutto riuscito nei suoi intenti. Sia come period movie sulla perdita dell’innocenza, non solo di una ragazzina ma di un intero immaginario, sia come romanzo di formazione, intimo e delicato, originale e da cui, con tutti i limiti del caso, è difficile non farsi conquistare.

Happy Family, Gabriele Salvatores 2010

Happy Family
di Gabriele Salvatores, 2010


[questo post non è inedito ma è già stato pubblicato in forma di articolo su SKY.it e lo ripropongo anche qui, con poche modifiche, per semplice pigrizia: perché dover trovare altre parole per finire a dire la stessa cosa?]

Uno dei caratteri fondamentali del cinema di Gabriele Salvatores è quello di essersi quasi sempre voluto discostare, pur rimanendo all’interno di un’ottica commerciale destinata al grande pubblico, dai percorsi canonici del cinema italiano. Il suo nuovo film, che si intitola Happy Family, non fa eccezione: si tratta sì di una commedia, un genere coltivato dal regista in passato ma poi abbandonato, ed è senza dubbio radicata nella tradizione italiana. Ma, ammette anche il regista (e si vede, eccome), il film vuole essere "un ponte" tra questo pesante lascito e la commedia d’autore americana, dalle famiglie disfunzionali di Wes Anderson alle cerebrali sceneggiature metacinematografiche di Charlie Kaufman.

E non è una missione da poco, quella di Happy Family: un film che da lontano potrebbe dare l’impressione di una commedia tradizionale e familiare (in entrambe le accezioni) ma che, ce ne accorgiamo subito, sembra più un trattato pirandelliano su autore e personaggio. Il protagonista, intepretato da Fabio De Luigi, si presenta infatti come uno scrittore all’opera su una sceneggiatura di un film i cui protagonisti, i membri di due famiglie milanesi, si presentano a loro volta, uno per uno, sguardo in macchina, allo spettatore. E nelle cui vicende, messo alle strette dai suoi personaggi, dovrà trovare posto l’autore stesso.

L’alternarsi continuo di statuti di realtà è un rischio che Salvatores affronta con spudorata schiettezza e voglia di sperimentare, decidendo di giocare fino in fondo, arrivando a immaginare di mollare Happy Family a metà, con un finale aperto, di "quelli che piacciono ai critici" (sic). Forse non agli spettatori? Sicuramente non ai suoi personaggi. Che infatti si ribellano, e lo spingono a chiudere la partita. E in questa schermaglia tra realtà e scrittura, tra vita e teatro (il film è tratto da una pièce di Alessandro Genovesi, che qui diventa sceneggiatore insieme allo stesso Salvatores), è importantissimo il ruolo che assume la città di Milano. Anch’essa, un tempo ambientazione favorita dal regista per le sue storie e poi abbandonata.

Una Milano che ha due facce, in Happy Family, e due anime: la prima è un costruita, "falsa", rappresentata, è il set di cartone, colori sgargianti e angolazioni surreali su cui si muovono le vicende dei personaggi. La seconda è quella dell’inserto in bianco e nero che Salvatores, con sprezzo del pericolo, inserisce a metà film, accompagnandolo con le note di Chopin, alternando i tasti monocromatici del pianoforte alle guglie del Duomo e alle strisce pedonali. Un "notturno milanese" che suona quasi come un film nel film, un omaggio tardivo che fa pulsare per qualche minuto nel petto del film una vibrazione neorealista. Per poi tornare sulla scena.

Ma Happy Family, film enormemente ambizioso e insieme estremamente lieve, caratterizzato da una cura artistica e produttiva assolutamente superiore alla media (impareggiabili la fotografia di Italo Petriccione e le scenografie di Rita Rabassini), ha un’altra freccia al suo arco, ultima ma non certo meno importante: fa ridere. Specialmente nei ritrovati duetti tra Diego Abatantuono (irresistibile) e Fabrizio Bentivoglio, in una sorta di malinconica reunion dei tempi del bellissimo Turné. In fondo, è una commedia. Missione compiuta.

Mine Vaganti, Ferzan Ozpetek 2010

Mine vaganti
di Ferzan Ozpetek, 2010

Un paio d'anni fa, al Festival di Venezia, venni affettuosamente deriso da alcuni "compagni di fila", e per diversi giorni, per aver sostenuto che La finestra di fronte non era affatto male – anzi, che era un bel film. Una fermezza che venne spazzata via, in quegli stessi giorni, con la visione di Un giorno perfetto, con tutta probabilità uno dei più brutti film del cinema italiano degli ultimi anni. Un film che riuscì persino a farmi rivedere a posteriori la mia opinione su alcuni aspetti del suo cinema, che prima apprezzavo molto.

E che mi fece passare la voglia di recuperare Saturno contro, che a tutt'oggi non ho ancora visto. Lo scrivo in un paragrafo a sé perché ho notato che viene usato molto spesso come pietra di paragone: "è meglio o peggio di Saturno contro?". Ma che ne so. Comunque, non avendo ancora riscontrato misurate vie di mezzo nei pareri su quel film, vorrei precisare a quelli che l'hanno odiato a morte e quelli che l'hanno amato alla follia che esiste anche l'altra categoria, per quanto sembri loro assurdo.

Con Mine Vaganti, Ozpetek riacquista invece quantomeno una posizione di rispetto, da queste parti: e il segreto, forse più semplice di quanto sembrasse, era alleggerire i toni – forse solo perché non è un regista dalla mano particolarmente lieve? In ogni caso, questa è una commedia "pura", nemmeno troppo amara ma scritta in modo chiaro e corretto, e anche piuttosto divertente. Il cambio d'aria da Roma a Lecce è stato utile e nonostante qualche macchietta (leggi: Elena Sofia Ricci) anche il cast è diretto con talento, con uno Scamarcio sotto tono e una Nicole Grimaudo completamente irriconoscibile – in realtà troppo bella per dirvi se reciti bene o meno. Probabilmente no.

Si intenda, Mine vaganti è un film di Ozpetek, in tutto e per tutto: ci sono le tavole imbandite e i dolci, ci sono gli insistiti carrelli circolari (ma si fermasse ogni tanto? paura del vuoto?), ci sono tutte le sue ossessioni, come quella per il legame con i fantasmi del passato e l'annullamento del tempo (che ne fa quasi un sequel/ribaltamento de La finestra di fronte)  - quindi, se queste cose vi sono indigeste, lasciate pur perdere. Se al contrario una volta vi piaceva e poi vi ha deluso, come a me, chissà, con Mine Vaganti potreste tornare sui vostri passi. Chissà.

Baciami ancora, Gabriele Muccino 2010

Baciami ancora
di Gabriele Muccino, 2010

Non ho alcun problema a confessarvi che non provo per Gabriele Muccino quel livore che ho visto negli anni in molti cinefili italiani della mia generazione. Della sua filmografia italiana ho apprezzato alcuni titoli, altri meno; della sua parentesi americana (non ancora chiusa) ho gradito un film, disprezzato l’altro; ma più di tutto, sono sempre stato infastidito dalla tendenza a indicare nel suo cinema la fonte di tutti i mali nonché l’uso spesso sconsiderato di termini come "mucciniano" o "muccinismo".

Allo stesso modo, non ho alcun problema a confessarvi che a mio avviso L’ultimo bacio, film di cui questo nuovo lavoro è evidentemente il sequel, pur non essendo il suo film migliore né un film a cui sono particolarmente legato (in entrambi i casi risponderei senza esitare Come te nessuno mai), era decisamente un bel film. Quale scandalo: e invece si trattava di un giovane regista italiano che aveva saputo portare sullo schermo con enorme successo un film popolare con una padronanza davvero impressionante, visto il contesto, dei mezzi espressivi.

Solo per dirvi che se pensate che L’ultimo bacio fosse un film di merda e che Gabriele Muccino sia un poverino, non credo che ci sia bisogno che leggiate oltre, perché parlerò un’altra lingua.

Infine, venendo al dunque. Sia chiaro, Baciami ancora è un film per cui è impossibile entusiasmarsi, al giorno d’oggi: un po’ per la sua voluta e palese medietà, ma anche perché il Muccino spudorato e sbruffone dei primi film, quello dei piani-sequenza e dei carrelli circolari, è quasi del tutto scomparso, o almeno, il suo stile si è molto acquietato, intimidito. Motivazioni? L’esperienza statunitense, il non dover più dimostrare la sua bravura, ma soprattutto il fatto che lui stesso è invecchiato insieme ai suoi personaggi. E cresciuto.

Se il nuovo Muccino tornato in patria è anche meno cinico e disilluso, senza dubbio più romantico, forse anche un po’ più pacchiano, allo stesso tempo è infatti un regista e sceneggiatore più maturo, non più così insostenibilmente misogino (forse è la differenza più rilevante tra i due film) né così egotista, capace di fare persino un passo indietro nel fuoricampo quando è il caso, di stemperare le sue strillate nevrosi con l’ironia – ed è soprattutto in grado di farci bere un film corale di due ore e venti minuti come fosse acqua fresca.

Un film che non nasconde però le sue ambizioni – e proprio la lunghezza è un preciso sintomo: Gabriele Muccino ha voluto chiudere un sacco di questioni lasciate aperte dal primo film, riaprendone altrettante, affontate a volte con amichevole affetto, altre con un piglio francamente cupo. Niente di particolarmente profondo, si intenda: ma quelle quattro cose in croce che dice, sui rimpianti e sulle seconde occasioni spesso mancate, e sulla riscoperta tardiva di una felicità ormai perduta (o forse no), le dice come si deve.

Chiunque abbia detestato Muccino troverà in Baciami ancora un sacco di cose di cui lamentarsi, moltissime altre da deridere, in una vera e propria antologia di tutto ciò che del suo cinema ha sempre detestato. Con qualche aggiunta eccezionale: il make up di Giorgio Pasotti, le scene madri sotto la pioggia, la canzone di Jovanotti sui titoli di coda – quest’ultima, una pietra tombale su qualunque discussione in merito al film.

Eppure Baciami ancora, seppur sorpassato di molte lunghezze da altri più meritevoli colleghi capaci di accogliere molto meglio di Muccino l’eredità del miglior cinema italiano, è un film che mi sento quasi in dovere di difendere. O forse, più semplicemente, mi è piaciuto. Non tanto, ma il giusto, a sufficienza. Tutto sommato, non è che il film mi chiedesse di più. E sì, non ho alcun problema a confessarvelo.

Come Dio comanda, Gabriele Salvatores 2008

Come Dio comanda
di Gabriele Salvatores, 2008

Levataci di torno la premessa per la quale aver letto un libro da cui è tratto un film e poter così capire il lavoro di adattamento che è stato svolto è un aspetto interessante ma non è necessario né dovrebbe condizionare in alcun modo il giudizio sul film stesso e quella, nello specifico, per la quale io non ho letto Come Dio comanda di Niccolò Ammaniti, da sostenitore del cinema di Salvatores vorrei tanto essere più breve possibile nello scrivere quello che secondo me è, approssimativamente, il suo film meno riuscito. Meno riuscito di Amnésia.

Ne scrivo solo per una sorta di autoimposizione, per format, per coerenza. Ma preferirei dire: passiamo oltre, punto e a capo, il prossimo prego. Sarà un problema mio, ma non sono riuscito a capirlo, Come Dio comanda. Non tanto cosa volesse essere, ma proprio perché fosse necessario farlo. Da principio, mi risulta anche difficile non pensare che il film sia un pretesto per osare una cosa magnificamente differente come la terribile e interminabile sequenza centrale – cuore del film e, purtroppo, quasi la sua unica ragione di esistere.

Ho l’impressione però che la freddezza e persino il fastidio che mi ha lasciato il film siano dovuti soprattutto alla rigitidà letteraria dell’assunto narrativo, e ai personaggi che si chiamano e che dicono cose e fanno cose come solo i personaggi di un testo di Ammaniti potrebbero fare – tutt’altro che il mondo reale, semmai una versione gommosa e superficiale (anche in un’accezione positiva, altrove), che fa acqua da tutte le parti se si comincia a voler scavare nel tessuto sociale oppure nel cuore nero dell’umanità. Ambizioni malriposte.

Insomma, cosa c’è che non va in Come Dio comanda? Approssimativamente tutto, dalla fallita provocazione di un ribaltamento empatico così estremo, giù giù fino alle tremende scelte di soundtrack, con un Antony sul finale che grida vendetta a quello stesso Dio. Ma se proprio volete dare la colpa a qualcuno, datela a Elio Germano, attore altrove bravissimo che qui fa l’errore che in Tropic Thunder viene definito going full retard. Insomma, Salvatores era impegnato a pensare ad altro per poter badare anche alla direzione degli attori?

Ne sono quasi certo: il film è infatti, casualmente, stupefacente da un punto di vista visivo, con una fotografia (di Italo Petriccione) cupa e livida che riesce a riflettere da sola l’inquietudine, la paura, la solitudine e l’incomprensione della provincia molto più di quanto non riesca a fare la zoppicante sceneggiatura e un cast lasciato allo sbando. In questo Salvatores è ancora uno dei registi più preziosi che abbiamo, uno che non mette mai in secondo piano il livello plastico dei suoi film, uno che non inquadra mai niente a caso. Anche quando poi gli viene male. Passiamo oltre, punto e a capo, il prossimo prego.

L’uomo che verrà, Giorgio Diritti 2009

L’uomo che verrà
di Giorgio Diritti, 2009

Quello che è riuscito a fare Giorgio Diritti con questo suo bellissimo, midiciale, straziante secondo lungometraggio di finzione dopo il "caso" di Il vento fa il suo giro ha davvero del miracoloso: narrare sullo schermo una pagina di storia italiana così dolorosa da essere quasi irraccontabile senza rinunciare in nessun modo alla meraviglia del cinema, accostando la matura consapevolezza del proprio doloroso messaggio a quella del linguaggio cinematografico, con un piglio spiccatamente neorealista (nell’accezione migliore e meno banalizzante del termine) e una realizzazione impeccabile che farebbe la gioia dell’Academy – se per una volta presentassimo loro il film giusto.

E come se non bastasse, Diritti non ha scelto certo la via più facile per raccontare la vicenda, bensì il più ostico, complesso, impossibile dei punti di vista: quello dei bambini, e quello delle vittime. L’uomo che verrà è un film che racconta l’insensatezza della Storia degli uomini attraverso gli occhi di chi non può comprenderla ("ecco una cosa che ho capito, che molti vogliono ammazzare qualcun altro") e di chi non ne ha alcuna intenzione ("chi se ne frega della storia e di chi la fa"), attraverso lo sguardo di chi vede soltanto l’essenziale, la morte, la vita, e che non può che lottare per la sopravvivenza di quest’ultima.

La scelta di Diritti, una scelta coraggiosa e che fa immediatamente la differenza nel film fin dalla prima sequenza, è quindi di accostarsi quieto dietro le spalle di Martina per parlare agli spettatori senza filtri e condizionamenti – non solo narrativamente ma anche a livello linguistico, con un uso sapiente quanto assolutamente spudorato della soggettiva – spalancando gli occhi di fronte a un mondo sporcato per sempre dall’insensata violenza dell’umanità.

Un mondo e un’umanità a cui viene data però ancora un’ultima possibilità: quella di raccontare alle nuove generazioni il proprio passato, di cantare anche a bassa voce le nenie di un tempo altrimenti soffocato dalla morte, perché l’uomo che verrà non deba ripetere gli stessi maledetti errori.

Un film dolente e universale, maledettamente stupendo.

Meriterebbe un post a parte la colonna sonora curata da Marco Biscarini e Daniele Furlati: tra ninna-nanne, trascinanti melodie morriconiane e inquietantissimi cori atonali, un autentico capolavoro. Si può acquistare su iTunes: lo stupefacente tema del film è la traccia 30.

Friday Prejudice #203

[boom boom boom*]

Il nuovo episodio di Friday Prejudice.

*I wanna hear you say ehi oh! EHI OH!

La prima cosa bella, Paolo Virzì 2010

La prima cosa bella
di Paolo Virzì, 2010

L’anno del cinema italiano non poteva iniziare sotto un segno migliore: ma il nuovo film di Paolo Virzì è molto più che un buon auspicio: la storia dolce e amara di una madre bellissima e travolgente, di un passato burrascoso rivissuto attraverso gli occhi e la memoria di un figlio triste a cui "ha rovinato la vita", di una città da cui fuggire ma con cui prima o poi si deve tornare a fare i conti, la storia di un padre, di un fratello e di una sorella e di una famiglia, la storia, di disarmante sincerità, di un amore scontato ma grande come un’intera vita, di una sera, di una fotografia e di una canzone. E molto più banalmente, una delle opere più felici del regista toscano.

Il mio problema, al momento, è che la visione di La prima cosa bella è stata una delle esperienze più coinvolgenti e commoventi della mia recente vita di spettatore. Forse è un problema mio, anzi, lo è sicuramente – ma resta che ho qualche problema a razionalizzare, a spiegarvi perché il film è imperdibile, semplice eppure stupefacente, perché Paolo Virzì e Francesco Bruni non sono mai stati così in forma, perché sono gli eredi più veri e profondi della miglior commedia all’italiana, del mondo che la sua lente deformante e spietata rende ancora più bello e toccante, oppure perché Micaela Ramazzotti è sempre più sorprendente o perché a Stefania Sandrelli voglio bene come se fosse una di famiglia.

Fidatevi e basta.

Ti stramo, Pino Insegno e Gianluca Sodaro 2008

Ti stramo
di Pino Insegno e Gianluca Sodaro, 2008

Una volta ogni tanto mi piace mettermi a difendere l’indifendibile, con il rischio che un appoggio relativo al sistema venga scambiato per una convalida entusiasta e assoluta: pazienza, questa non è la prima né sarà l’ultima volta che mi trovo a fare l’avvocato del diavolo. Ho una pellaccia.

Perché sono sicuro che state pensando che a un film diretto da Pino Insegno, presenza malefica e detestabile della televisione italiana, oltre che tra i più orgogliosi rappresentanti della lobby dei doppiatori, oltre che membro della terribile Premiata Ditta che al cinema ci provò già nel 1995 con il terribile L’assassino è quello con le scarpe gialle, non dovrebbe essere nemmeno concessa dignità di post. E perché mai? Mettiamo da parte gli atteggiamenti snob e concentriamoci sulle intenzioni e, ex post, sui risultati.

Le prime sono quantomeno rispettabili, se non condivisibili: le parodie demenziali di film, generi o filoni, nel cinema americano hanno una lunga tradizione, ma in Italia sono praticate poco, spesso malamente, soprattutto negli ultimi decenni – dopo aver fatto la fortuna, a modo loro, di star come Totò o Franchi e Ingrassia. L’intento dei due registi e della sceneggiatrice Francesca Draghetti (anche lei della Premiata Ditta: la meno insopportabile delle due) è quindi quella di fare un film italiano che si rifaccia in tutto e per tutto al linguaggio degli spoof americani, un’operazione simile a quella che Ezio Greggio compì nel 1994 con Il silenzio dei prosciutti rifacendosi al suo amico e mentore Mel Brooks.

Ma laddove Greggio omaggiava alcuni suoi film del cuore scomodando un cast di caratteristi statunitensi, il bersaglio di Insegno e Sodaro è tutto italiano, ed è – ovviamente – il cinema adolescenziale portato al successo da autori come Volfango de Biasi, Federico Moccia e Fausto Brizzi: il sottotitolo del film, Ho voglia di un’ultima notte da manuale prima di tre baci sopra il cielo, non lascia certo molti dubbi. E che dire, oh, perlomeno abbiamo un nemico in comune: alla fine provo più antipatia per quel tipo di cinema che per l’intenzione di fare un film demenziale che lo sfotta – seppur bonariamente, amabilmente, senza avere la pretesa che lasci il benché minimo graffietto sulla fiancata di un sistema che vale milioni di euro.

E come è andata, insomma? Chiaro: non è certo così come non poteva essere un lavoro di fino, né si tratta un’operazione particolarmente raffinata. Va bene, d’accordo, il film è una sciocchezza e gli attori (tranne Ughetta D’Onorascenzo, che interpreta Didi) sono tutti dei cani da galera: e questo potevate capirlo da soli. Ma forte del fatto di essersi costruito addosso una delle aspettative più basse che la storia del cinema italiano recente ricordi, Ti stramo in realtà fa molti più sforzi del previsto, e pur non riuscendoci sempre perché alcuni personaggi sono davvero improponibili e imbarazzanti (la sorellina cicciona e ninfomane, il dj napoletano), azzecca un numero decente di gag, a volte spingendo sul tasto dell’assurdo (la gag dell’idrante) o dell’idiota (la gag del delfino), altre volte rubacchiando qua e là dai classici del genere, e finisce per far ridere più di quanto io sia disposto ad ammettere in questa sede.

Siamo lontanissimi dalle opere migliori dei fratelli Zucker e di Jim Abrahms, e grazie al cazzo: ma Ti stramo ha molta più dignità dei film con cui Jason Friedberg e Aaron Seltzer si sono arricchiti in questi anni.

No, non mi hanno pagato.

Dieci inverni, Valerio Mieli 2009

Dieci inverni
di Valerio Mieli, 2009

Questo è stato un anno molto debole per il cinema italiano. Probabilmente mi sono perso qualcosa, sicuramente non ho avuto fiducia progetti di cui qualcuno, da qualche parte, ha parlato bene, la fiducia sufficiente a recarmi al cinema, a "rischiare". E quindi, a parte l’eccellente eccezione del film di Marco Bellocchio, ho dovuto aspettare proprio gli ultimi giorni dell’anno per vedere un bel film italiano.

Meglio tardi che mai. E sono doppiamente contento che sia accaduto con un’opera prima: l’esordio di Valerio Mieli, qui regista e sceneggiatore, evita sia la spocchia da primo della classe che le ingenuità da neodiplomato, optando per una struttura semplice ma intelligente, che grazie alla sua immediata intelligibilità (fin dal titolo) si mette da parte ponendo in primo piano il lavoro dei due (bravissimi) attori protagonisti e l’ambientazione in una strana Venezia di frontiera (ottima anche la fotografia di Marco Onorato), quella degli studenti e delle piazze vuote, città di passaggio, glaciale e accogliente, spesso abbandonata come una città fantasma.

Ma per quanto possa sembrare una cosa semplice semplice, Dieci inverni ha in realtà le sue ambizioni: è un film che accoglie la sfida di raccontare un intero decennio della vita, quello che porta ai trent’anni, quello in cui si fanno le scelte più stupide e le più importanti ma che viene spesso accantonato – oppure raccontato in modo assai differente. Mieli mostra talento, sincerità, naturalezza, persino un’ironia non banale: vince la sfida, e conquista senza scampo.

Diverso da chi?, Umberto Carteni 2009

Diverso da chi?
di Umberto Carteni, 2009

Quando uscì questo film, la scorsa primavera, ricordo che fu accompagnato da uno strascico di polemiche, la maggior parte delle quali ho volutamente rimosso. La polemica l’avrei fatta io su chi raccontò l’ultima mezz’ora di film nell’occhiello o addirittura nel titolo, il resto mi interessa già meno. Se non come contesto: che è, italianamente, uno di quelli in cui ognuno vede ciò che vuole vedere. Se il film è palesemente schierato (la macchietta del sindaco forzista che non fa altro che inaugurare tutte le settimane lo stesso muro non è proprio sottilissima ma è azzeccata) allo stesso tempo punzecchia il lato democratico facendo leva sulle inconciliabilità interne al partito – fornendo poi una soluzione utopica che, visti i tempi che corrono, fa sorridere metà bocca.

Detto questo, e tolte di mezzo le questioni che riguardano il punto d’osservazione da cui viene guardata la diversità, non soltanto come tema politico (a mio avviso, in modo sufficientemente corretto ed equilibrato. Lascio poi a osservatori più specifici ed esperti il compito di smontarla, a posteriori), del film rimane poco da dire – ma forse qui sta la parte più interessante: in Diverso da chi? ho visto soprattutto un film di invidiabile leggerezza, con un cast adeguato e divertente (la Gerini pecca per overacting mentre Filippo Nigro si fa perdonare molte cose: ma i migliori sono Catania e Pannofino) e la scrittura ormai oliata ed esperta (pure troppo?) di Fabio Bonifacci, che non sfigura troppo nello scaffale della commedia all’italiana più recente, accanto all’ultimo Virzì o al Pellegrini di E allora mambo. Che infatti fu l’illuminante (e mai più superato) esordio di Bonifacci, e nella soluzione finale si vede eccome.

Non saprei che aggiungere: il fatto che certi argomenti, soprattutto in periodi cupi e grami, meritino anche trattamenti più seri e considerati, beh, forse è innegabile. Così come, a mio parere, c’è posto per una prospettiva come quella – un po’ paracula? O forse, semplicemente, più naif? – offerta dal gradevole esordio di Carteni.

Tutta colpa di Giuda, Davide Ferrario 2009

Tutta colpa di Giuda
di Davide Ferrario, 2009

Una volta volevamo molto bene a Davide Ferrario. Gli si vuole ancora molto bene. Magari, ultimamente, un po’ meno. Essere riuscito a fare nel corso di un pugno di mesi un piccolo delizioso film come Dopo mezzanotte (e già lì so che si potrebbe discutere, ma è più forte di me) e una cocente delusione come Se devo essere sincera già non era un buon segno.

Tutta colpa di Giuda è un ritorno alla fiction che risente moltissimo dell’esperienza di Ferrario nel cinema documentario: e la cosa più interessante del film è proprio la ricercata difficoltà di tracciare una linea precisa che separi la realtà dalla finzione. Brevemente, il perché: buona parte del cast del film è composta da veri carcerati, che inscenano nel film la messa in scena di uno spettacolo teatrale. Un musical su Gesù. Meta-meta-meta. Fin qui tutto bene.

Il problema è tutto il resto: se il progetto è stimolante quanto si vuole, la parte di finzione insieme crolla irreparabilmente. Ragione principale: i personaggi sono inesistenti (persino quello centrale di Irena, anche se la Smutniak ce la mette tutta, è disperatamente bidimensionale) oppure sono delle semplici macchiette, più idee platoniche o categorie semantiche che veri personaggi. Il prete! La suora! Eccetera.

Insomma, ho capito dove vuoi arrivare, sono d’accordo, mi piace, ma non mi piace come ci sei arrivato. Si può sacrificare il cinema per i propri scopi fino a un certo punto, poi interviene il fastidio. Mica poco.

Ci sono alcune ragioni però per poter gradire davvero il film. La principale è essere dei fan dei Marlene Kuntz. Vabbè, come non detto, sarà per la prossima volta.

Il grande sogno, Michele Placido 2009

Il grande sogno
di Michele Placido, 2009

Ho visto questo film più di una settimana fa. Queste sono più che altro considerazioni sparse: mi sono reso conto che Il grande sogno è un film su cui preferisco dialogare che scrivere. La prima, la più ovvia ma non ovviamente la più rilevante, è che ho trovato Il grande sogno un film sostanzialmente riuscito – almeno nella metà dei suoi intenti. Sempre se ci abbassiamo, per amore di sintesi, a considerarlo un film dalle due anime. La prima è quella di un film di personaggi, se vogliamo più tipicamente italiano-contemporaneo, la seconda è quella di un film di decisa impronta storico-critica.

Non credo che le due cose possano escludersi a vicenda, in questo caso (come è accaduto per esempio con il pessimo QPGA che affogava il peso della stupidità del plot nel veleno dell’aberrante rivisitazione storica), insomma, il film non è solo l’uno o solo l’altro. Infatti se la sua intenzione romanzesca è più spiccata, e anche più funzionale alle aspirazioni del regista, non si può negare che la visione che Placido dà del contesto (il ’68, un ’68, il suo ’68, il ’68 di qualcun altro: mettetela come vi pare) abbia caratteristiche personali e "forti" tali da configurare senza dubbio un interesse serio e ragionato nei confronti del contesto stesso.

Ciò nonostante, qui si fa una cortesia a Placido tenendo in considerazione più che altro la prima delle due anime: quella che gli è riuscita meglio, una storia d’amore costruita su un triangolo "allargato": una storia che Placido sa narrare con talento conciso, chiarezza e semplicità, e con il coraggio, in fin dei conti chiamiamolo così, di piegare al suo volere la Storia per raggiungere i suoi scopi. Semplificando e banalizzando forse, ma raccontando e dirigendo gli attori come si deve, e infine infinocchiandoci per benino.

Anche se poi alla fine il risultato di questa duplicità ha un risultato ancora più interessante e inaspettato: da una parte è un film che cerca di accontentare tutti, persino in modo cerchiobottista e un po’ paraculo – dall’altra sembra un film nato per scontentare chiunque, e per far incazzare molti. Inutile negare che quest’ultima cosa desti la mia simpatia.

Vincere, Marco Bellocchio 2009

Vincere
di Marco Bellocchio, 2009

Ho visto Vincere da ormai molti giorni, e mi sono trovato immediatamente in difficoltà all’idea di scriverne – tanto da sospendere temporalmente il blog in attesa che venisse fuori qualcosa da dire su questo film, che pur essendo intellettualmente una delle cose più stimolanti in circolazione mi ha colpito così tanto soprattutto da un punto di vista viscerale. Ovviamente, non è venuto fuori niente. Altrimenti non avrei scritto questo paragrafo, non credete?

Quando mi capita un film che sa stringermi le budella in questo modo, quello che mi sento di fare è semplicemente di consigliarlo caldamente – cosa che infatti ho fatto attraverso canali meno istituzionali di questo blog – e ancor più che in casi simili precedenti, di cercare di vedere un po’ al di là dei propri pregiudizi. Ed è questo, che è venuto fuori: la strana impressione che mi ha fatto, per molteplici volte negli ultimi giorni, rendermi conto che il mio consiglio non veniva preso sul serio – che si dava per scontato che Vincere non fosse niente di che.

A costo di ripetere discorsi forse più adatti a quell’altro blog: davvero non credete in Marco Bellocchio? Dico, li avete visti, i film che ha girato negli ultimi anni? Li avete visti L’ora di religione e Buongiorno, notte? Davvero credete che Giovanna Mezzogiorno – che da queste parti, con tutti i limiti del caso, non è nemmeno così mal vista – sia comunque una ragione sufficiente per scalzare un film di Bellocchio dalle proprie preferenze? Davvero credete che Vincere possa essere il feuilleton storico-erotico che hanno cercato di venderci (tant’è che anch’io ci ero quasi cascato)?

Non lo è. Vincere è semmai uno dei film più sperimentali e insieme più poderosi del nostro cinema recente. Un film liberissimo e svincolato da ogni prevedibile meccanismo, che alterna lo splendore della ricostruzione storica e la fotografia, assolutamente ipnotica, di Daniele Ciprì, a una messa in scena teatrale e antinaturalista nella quale l’inevitabile scambio semantico tra la Storia e l’attualità si mescola con con una regia che, soprattutto nella prima parte, ricorda una versione furiosa e contemporanea dei manifesti futuristi, presenti essi stessi all’interno delle vicende – e dentro cui, programmaticamente, si svolge l’atto erotico di rifiuto che dà inizio al "martirio" di Ida.

Ma senza stare a scomodare le ragioni effettive (l’intelligenza delle scelte strutturali e narrative, la capacità di parlare con le immagini, e di non aver paura che siano le immagini a parlare) che rendono Vincere un film così prezioso per un cinema come quello italiano che ultimamente, diciamolo, si è un po’ appisolato sugli allori, lo ripeto, la motivazione più pregnante per convincervi è probabilmente quella con cui ho aperto il post, quella più inconscia, inspiegabile, unica: Vincere è un film che ti stringe le budella. Bastava dire quello.

La parmigiana / La visita, Antonio Pietrangeli 1963

La parmigiana
di Antonio Pietrangeli, 1963

Il primo dei due film con cui Pietrangeli affina definitivamente il suo stile e completa l’ossessione per i complessi e amari racconti al femminile, in preparazione al suo ultimo capolavoro, colpisce immediatamente per due ragioni. La prima è una straordinaria struttura a montaggio parallelo che permette un’empatia totale nei confronti di Dora e insieme un’analisi secca e serrata del mondo maschile che le gira intorno. La seconda è la bellezza dell’allora diciottenne Catherine Spaak: fotogenia pura. La firma di Pietrangeli si vede proprio soprattutto nel modo in cui guarda al corpo e al volto di Dora, nel modo in cui si perde a osservarne le luci e le ombre, su un letto rimasto vuoto o di fronte al riflesso di una vetrina – e in molti sensi Dora è già una Adriana in nuce, in quel modo che ha di trattenere per sé le proprie lacrime, e di donare al mondo un sorriso che il mondo stesso, probabilmente, non merita. Anche se in Dora è instillata una forza di volontà inusuale: quasi fosse una rabbia sensuale, in cui, come già la Francesca di Nata di Marzo, l’indipendenza si esprime con lo scherno – uno scherno che non sempre ripaga, che è macchiato di inevitabile malinconia e solitudine, ma che è un’altra forma, forse l’unica forma possibile, di libertà. Davvero splendido.

Il film non è ancora disponibile in DVD e non è attualmente in programmazione sulle reti nazionali. Bisognerà pazientare un po’.

La visita
di Antonio Pietrangeli, 1963

Con questo film, ambientato nella bassa mantovana e con protagonista la Sandra Milo che lui stesso aveva scoperto e lanciato nel 1955 in Lo scapolo, Pietrangeli raggiunge quella che è senza dubbio una delle più alte vette della sua carriera. Prima di tutto dal punto di vista della messa in scena: inframmezzato dai suoi flashback improvvisi e precisi, La visita è soprattutto un film di impressionante rigore registico, tenuto conto della semplicità dell’ambientazione e della riduzione dei conflitti, in cui ogni singolo movimento di macchina è studiato nel dettaglio – e proprio grazie a questa precisione si crea una tensione tra i due protagonisti che non ha davvero pari. E La visita è, appunto, soprattutto l’incontro tra Pina e Adolfo: da una parte la perfezione di un personaggio che è insieme tra i più dolci e tra i più malinconici del cinema italiano di quegli anni, dall’altra l’impietoso ritratto che François Périer regala del gretto e meschino libraio romano. Lo scontro psicologico, inserito in un contesto che fa luce su una provincia molle e abbandonata così come sui contrasti regionali, dà il vita a uno dei duetti più amari e inquietanti mai prodotti nel contesto allargato della cosiddetta "commedia all’italiana", in cui la presenza di Mario Adorf e Gastone Moschin non fa che arricchire questo piccolo capolavoro del nostro cinema.

Il film è stato pubblicato in una bella edizione DVD all’interno della notevole collana Minerva Classic. Va da sé, è assolutamente imperdibile.

Il sole negli occhi / Nata di Marzo, Antonio Pietrangeli 1955-1957

A cinque anni esatti dalla mia scoperta (pressoché casuale) del cinema di Antonio Pietrangeli, sto cercando finalmente in questo periodo, poco per volta, di recuperare tutta la restante filmografia del regista romano, uno degli Autori più interessanti – e spesso più tralasciati – del nostro cinema, scomparso quasi 41 anni fa alla malaugurata e imperdonabile età di 49 anni.

Il sole negli occhi
di Antonio Pietrangeli, 1953

La cosa più straordinaria del primo film di Pietrangeli è il modo in cui si relaziona, a posteriori, al suo ultimo Io la conoscevo bene, uscito 12 anni più tardi – che sembrano 120 – di cui questa opera prima sembra quasi un apripista, un primo accenno. E nemmeno poi così timido: la struttura paratattica delle vicende di una giovane ragazza di provincia finita a Roma a far la serva per sopravvivere porta infatti anch’essa, implacabilmente, verso la tragedia – annunciata da principio e ribadita con continui segnali e presagi. E se i tempi forse non sono ancora maturi per la rivoluzione linguistica e la franchezza spietata del film del 1965, Il sole negli occhi è davvero un ritratto di ragazza che ha pochi pari nel cinema dell’epoca, originalissimo e caratterizzato da un gusto tagliente per la satira sociale, Oltre che da molte scene e sequenze immediatamente indimenticabili – come quella ambientata a Ladispoli. Davvero bellissimo.

Il film è stato trasmesso il 10 aprile 2009 nella programmazione notturna di Rai3 in un’edizione meravigliosamente restaurata. Immagino che prima o poi spunterà fuori anche un DVD.

Nata di marzo
di Antonio Pietrangeli, 1957

Da Roma ci si sposta a Milano, per un altro ritratto al femminile. Questa volta però la protagonista è la diciassettenne Francesca, "marzolina" e volubile, tanto moderna quanto infantile, che si innamora e si sposa con un architetto vent’anni più vecchio di lei. I motivi della loro separazione, due anni dopo, vengono raccontati nei tre lunghi flashback che compongono il film. Quello di Francesca è un personaggio equilibratissimo tra insopportabilità e tenerezza, che lotta con le sue armi – compresa quella del capriccio – la sua battaglia laica contro una società in cui anche le famiglie più progressiste sono legate a una concezione fallocratica in cui la "parità", per le donne, è ancora un sogno lontano. Il tutto, però, raccontato in forma di commedia – peraltro divertentissima, soprattutto per i dialoghi: dopotutto, la sceneggiatura è di Age, Scapelli e Ettore Scola. Gli ultimi due consolatori minuti, appiccicati dalla produzione e palesemente posticci, non sminuiscono la gradevolezza e la modernità del film. Una cosa buffa: Jacqueline Sassard (che è ancora viva, da qualche parte) è veramente nata all’inizio di marzo del 1940.

Il film non è reperibile in DVD, ed è andato in onda l’ultima volta in tv nel settembre 2006. Mi sa che dovete, er, ingegnarvi.

Complici del silenzio, Stefano Incerti 2009

Complici del silenzio
di Stefano Incerti, 2009

Che qualcosa sta per andare per il verso sbagliato nel sesto film di Stefano Incerti lo si capisce dalle primissime battute, quando i due personaggi sono in volo sopra l’Argentina. Ma non riguarda ciò che accadrà ai due una volta atterrati, bensì quello che accadrà al film da lì in avanti. I primi minuti sono infatti un esempio quasi manualistico di come non si dovrebbe aprire una sceneggiatura, di qualunque film, un modo che invece è utilizzato da molto cinema italiano (e non solo) proprio, appunto, come se fosse un manuale.

Per spiegarci con l’esempio pratico, c’è davvero bisogno che i due personaggi si dicano nel giro di pochi secondi "ciao siamo due giornalisti sportivi, è il 1978, e quindi ci sono i Mondiali in Argentina, e noi stiamo andando in Argentina, io sono quello bello e tu sei quello simpatico, che bello andiamo in Argentina, non ti preoccupare perché adesso andiamo da questi parenti e te lo spiego proprio adesso che stiamo per atterrare così che tu mi chiedi anche se tra i miei parenti c’è da trombare, che sei pur sempre Battiston, tanto tranquillo che alla fine trombo io"? Non è che io pretenda per forza un approccio realista ai dialoghi: ma mettiamo in campo almeno un livello minimo di credibilità che permetta almeno al pubblico di non pensare ai prati fioriti finché qualcuno sullo schermo non viene massacrato di botte? L’alternativa era la voce fuori campo, probabilmente: faceva paura? Capisco, ma questa soluzione fa ancora più paura. E un film dovrebbe saper essere in grado di piegare al suo volere una sceneggiatura, soprattutto se debole, e non interpretarla letteralmente.

Per adesso ho parlato soltanto dei primi 3 minuti del film, ma soltanto perché mi sembra tocchino un tasto molto dolente del nostro cinema – e perché comunque nei successivi 97 il problema dell’eccesso di sceneggiatura si ripropone. Soprattutto nella forma del personaggio di Florencia Raggi, tutta sguardi intensi e misteriosi, e in quello di Alessio Boni, che è fondamentalmente uno che non fa niente e non sa fare niente, e subisce la Storia che avviene intorno a sé trascinato, diciamolo pure, più dall’ormone e dal capezzolo turgido della Raggi che dal senso civile che a un certo punto lo script cerca di appioppagli con la frase – istantaneamente cult – "l’unico servizio che voglio fare è su queste persone che scompaiono".

Dopo tutto questo cianciare, messo lì un po’ per sfogo di fronte alle potenzialità sprecate di una buona metà, ammettiamo anche però che il film sfoggia una seconda metà di tutto rispetto. Motivi? Primo, Alessio Boni si leva dalle palle per un po’, lasciando il campo libero a Jorge Marrale. Secondo, perché si affronta il contesto storico con un piglio finalmente forte e deciso, violento e inquietante, cupo e angosciante, come è giusto che sia secondo i dettami – rispettati alla lettera – di predecessori come Garage Olimpo. Non basta per farsi perdonare una prima metà imbarazzante, né Alessio Boni che in cella ha i flashback del super-capezzolo, né il finale un po’ piagnone (comprensibile e corretto, ma ancora da manuale) ma qualcosa di buono c’è, a cercarlo.

Due partite, Enzo Monteleone 2009

Due partite
di Enzo Monteleone, 2009

Essere tratti da un’opera teatrale non è una condanna a priori, per un film, se questo sa trovare nella forma filmica una sua, chiamiamola così, dimensione cinematografica. Non è purtroppo il caso di Due partite, tratto dalla pièce di Cristina Comencini che assomiglia più a una versione filmata dello spettacolo che non a un vero adattamento.

Intendiamoci, il film è decisamente meno insopportabile e/o imbarazzante del cinema italiano che sta girando nelle nostre sale. Ed è breve, il che non guasta. E sarebbe anche scritto bene, sebbene non vada da nessuna parte e non abbia la benché minima capacità (né la voglia) di graffiare o di dire qualcosa di davvero forte sui caratteri di dipendenza e codipendenza (contingenti? immanenti? boh) che caratterizzerebbero l’universo femminile. Ma si tratta comunque di un film che, dichiaratamente, è la riproposizione sterile di un successo da palcoscenico su cui era ancora possibile monetizzare, una replica 2D assolutamente priva di una regia che non sia direzione d’attori: a quel punto, che il testo di origine sia valido ha ben poco peso sui risultati.

Il film semmai è più che altro l’occasione per fare il punto sulla situazione dello star system femminile italiano – e anche per fare il giochino di quali funzionano e quali no, tra questa caterva di attrici. Il meglio, lo dico subito, lo danno le attrici, più giovani, della seconda parte: chi più (Pandolfi, la migliore del quartetto, e Crescentini) chi meno (Rohrwacher e Milillo) riescono a sopperire al disinteresse fotoscenografico dell’episodio moderno, che invece teneva svegli nella parte ambientata negli anni ’60 con i suoi colori pastello e il mascara di troppo. Un po’ deludenti invece, appunto, la Buy (che rifà sempre le stesse faccette nervose), la Massironi, e la Ferrari (che si limita a fare un accento ridicolo, ed è davvero indigeribile).

Ma forse sono state semplicemente ammazzate dalla presenza di Paola Cortellesi, che è di una bravura (e di una bellezza) (e di una classe) sovrumana. Talmente brava che tutta la prima metà ad un certo punto sembra soltanto funzionale a lei (quando di suo non lo sarebbe affatto), talmente brava che mi ha fatto dubitare per un po’ che questo post fosse una stroncatura.