Il Divo
di Paolo Sorrentino, 2008
"Presidente, sta arrivando una brutta corrente"
In una delle prima sequenze de Il divo, tutti i più noti omicidi della storia repubblicana vengono riproposti con un montaggio serratissimo e da didascalie che si ribaltano, si specchiano, ruotano davanti e dietro ai personaggi: saranno così in tutto il film, rosse. In un’altra delle prime sequenze, la cosiddetta "corrente Andreottiana" arriva nel palazzo deserto il giorno della nascita del settimo governo Andreotti: si muovono al ralenti, e più che con parole si esprimono con suoni, versi, fischiettii. In un’altra delle prime sequenze, la festa per la nascita del settimo governo Andreotti è rappresentata con un piano lunghissimo e virtuosistico, quasi un piano-sequenza, che aleggia di stanza in stanza avvolgendo grottesche figure che si dimenano con una furia irreale e quasi indecente in un festino afro, mentre i coniugi Andreotti si alzano e vanno a dormire con la flemma che ben conosciamo. Che domani si va a Mosca.
Il divo, insomma, mette subito le cose in chiaro: Paolo Sorrentino sa che l’urgenza di un film, soprattutto se si tratta di un film come questo, deve sempre andare a braccetto con un’urgenza estetica, e con un’urgenza linguistica. Con un’idea di cinema. E il cinema del napoletano, non è cosa nuova, è così: egotista, "visibile", rabbioso, barocco, sfrontato, sfacciato, spudorato. Eppure mai come ne Il divo il suo sguardo è stato limato da sbavature: il film che narra, come recita il sottotitolo, "la spettacolare vita di Giulio Andreotti", non ha infatti solo una ricercatezza formale impressionante, che lascia senza parole (impossibile non citare la solita splendida fotografia di Luca Bigazzi, molto più che "il migliore su piazza"). Ma è un film che proprio non sbaglia un colpo. Il successo in un festival estero di un film del genere si spiega solo così: perché non è solo una rarità, un Autore capace di ridare un valore estremo ad ogni singola inquadratura, a tutti i movimenti di macchina, zoom improvvisi, carrelli, dolly, ma davvero, un regista così non ha prezzo – né tantomeno ci sono archi alpini in grado di contenere questa ribollente e strabordante ondata di stile.
Ha molte altre cose, poi, Il divo: ha prima di tutto un Toni Servillo gigantesco e gigante quanto lo schermo, che rimette in scena Giulio Andreotti e le sue parole con una maschera che è insieme letteraria e teatrale, intima e crudele – e che conosce nell’ormai nota scena della "confessione" la consistenza, quasi horror, della carne contorta e dello sputo di rabbia. Ha un esercito di caratteristi impensabile: lo Sbardella di Popolizio che fa il gesto della pistola e che saluta con la mano da basso mentre lo portano via, la malinconica Signora Enea di Piera Degli Esposti, che sfoga il pianto di mille segreti sul sedile di un autobus diretto verso un’amara cicoria, l’uber-mimetico Eugenio Scalfari di Giulio Bosetti (che fu già Paolo VI per Bellocchio, e se fossi Scalfari mi verrebbero i brividi) e soprattutto il pazzesco Paolo Cirino Pomicino di Carlo Buccirosso, ritratto come un eterno ragazzaccio cattivo che fa le scivolate urlando nei corridoi di montecitorio, che dice "Squalo? Squaletto! Affogherà", che urla e che si dimena. Assolutamente geniale. Strano – o forse no – che Sorrentino non ne suggerisca il curioso destino.
Ma al di là di tutto, Il divo è soprattutto e appunto un film di Paolo Sorrentino. Che è riuscito a realizzare un film impossibile – e che lo sia, risulta palese proprio durante la visione – infarcendolo della sua personalità eclettica e multiforme, che è riuscito a trovare un compromesso esaltante tra il gansterismo scorsesiano e il cinema di Elio Petri. Tra l’indeterminatezza surreale del sogno (o meglio dell’incubo) e la tangibilità delle parole, vere e immaginarie, che han fatto da fondamento e motore della vita di un intero paese. Insomma, se la gara per il miglior regista italiano è davvero aperta, Paolo Sorrentino è davvero il miglior metteur en scène che abbiamo. Anche perché in tutto questo non dimentica di confezionare un ritratto sfuggente e inquietante, sagace e ambiguo, di un glaciale statista la cui unica vera ossessione, e debolezza, ha la voce filtrata, perché chiusa in quattro strette mura, o forse da una coperta dentro un bagagliaio, di Aldo Moro.
Una delle prime cose a cui ho pensato fu una riflessione che feci, e molti fecero con me, all’uscita de Il Caimano di Nanni Moretti: che quel film nel film su Silvio Berlusconi girato da Bruno Bonomo, se esistesse davvero, forse sarebbe davvero un grande film. Il divo non riesce a non ricordarmelo, quel meta-Caimano, per molteplici e complesse ragioni – che hanno a che fare con il rapporto tra Storia e racconto, tra maschera e personaggio – e tant’è, che Il Divo è un grande, grandissimo film.