Italia

Giulia non esce la sera, Giuseppe Piccioni 2009

Giulia non esce la sera
di Giuseppe Piccioni, 2009

Se c’è un problema che non ha, il film di Piccioni, è il controllo delle emozioni: tutto avviene attraverso dinamiche di repressione, soffocamento, persino di reazioni come il pianto e la rabbia. Giulia è un film in cui la gente è felice, soffre, e muore in silenzio – o facendo poco rumore. In tal senso, meglio un film come Giulia che uno in cui la gente sbraita e si dimena – contando anche il ruolo centrale, palesemente metaforico – ma anche in qualche modo, che so, sinestesico? – dell’acqua.

Ma Giulia, nonostante le buone premesse e una realizzazione accurata (la fotografia del solito bravissimo Luca Bigazzi, che fa esattamente il gioco di Piccioni nell’uso delle luci e dei colori) non lascia veramente soddisfatti. Prima di tutto perché, se ne discende da quanto detto finora, è un film tanto riflessivo quanto deprimente – lo si sapeva: ma bisogna farsi trovare preparati. Inoltre, per un problema legato alla sceneggiatura, che cede alla tentazione di spiegare tutto, anche le metafore o – peggio – ciò che lo spettatore (anche da un punto di vista meramente narrativo) potrebbe immaginare da sé. Giulia è uno di quei film italiani durante la visione dei quali ci si ritrova spesso, troppo spesso, a pensare: potrebbe mai una persona dire davvero queste cose, con queste parole, con questo tono?

I due attori sono bravi (molto: Mastandrea soprattutto, che getta degli improvvisi lampi di tiepida ironia nella scena, ed è tutta farina del suo sacco), i comprimari pure, e il film tutto sommato non è deprecabile né ridicolo. Ma non si capisce dove finisca l’introspezione intima e dove inizi il guardarsi l’ombelico, il tipo di cinema insomma di cui per anni abbiamo cercato di liberarci – e se mi chiedete se adesso un film così abbia un senso e se faccia bene alla salute del cinema italiano, mi toccherà rispondervi che no, probabilmente non serve proprio a nulla. Non fa male a nessuno: e allora?

L’unica cosa indiscutibile, va da sé, è la bruttezza del titolo.

Update: mi rendo conto solo ora di non aver detto che la colonna sonora è dei Baustelle. Lo dico adesso: la colonna sonora è dei Baustelle.

Questo piccolo grande amore, Riccardo Donna 2009

Questo piccolo grande amore
di Riccardo Donna, 2009

Ci sono molti motivi per cui mi sono sempre tenuto a debita distanza dai film romantici adolescenziali italiani, almeno da quando questo simil-genere è diventato una specie di impressionante sacca economica che sembra non conoscere fondo, sia nell’investimento che nei risultati. Questi motivi mi sono tornati tutti su, come un bel ruttone, durante la visione di questo film. Che ha una particolarità, rispetto al filone: il disco a cui è ispirato è uscito nel 1972, il che include nel target ideale del film non solo le coppie di adolescenti di oggi, ma anche, più curiosamente, coloro i quali lo erano negli anni ’70 – insomma, i nostri genitori. Ma sfido un adulto di oggi, o anche un post-adolescente (sui più giovani non mi pronuncio: probabilmente a loro questa roba va a genio così com’è) a riconoscersi in questo film così artificioso, patinato, mocciano e – soprattutto – involontariamente ridicolo.

Perché se non è una sorpresa che QPGA, pronto e cucinato per il solito acronimo di questa fava, sia un film furiosamente brutto, lo è, invece, che sia un film così paurosamente ridicolo. Il problema nasce dal progetto: un musical senza il musical. Le canzoni del disco sono infatti in sottofondo, e cantate da Baglioni stesso – con un nuovo orripilante arrangiamento – dialogano con la storia. Perché? Perché proporre un musical al pubblico italiano è troppo rischioso, da un punto di vista commerciale: le persone che si mettono a cantare da un momento all’altro sono ridicole agli occhi della massa (chiedete in giro), e lo dimostra il fatto che spesso, quando esce un musical da noi, in fase di promozione si nasconde in parte o del tutto la sua natura musicale.

Quello che se ne ricava è una prima parte in cui i personaggi dicono delle cose, e poi stanno zitti guardandosi negli occhi – impossibile non pensare alla gag di Boris sull’espressione basita: qui c’è basita, spavalda, intensa, basta – mentre Baglioni ci canta sotto la canzone di turno. Per non parlare poi di sequenze assolutamente incredibili, in-cre-di-bi-li, come quella della manifestazione iniziale (su cui si potrebbe scrivere un intero trattatello, e invito a farlo al più presto chi fosse così coraggioso da affrontare il film), o la pazzesca sequenza onirica di Io ti prendo come mia sposa che vorrebbe emulare Across the Universe (anvedi), o il bacio sul Tevere dato su una pedana girevole coi ballerini intorno, o molte altre che comunque non renderebbero l’idea raccontate a parole, e che trasformano la prima parte in una specie di paradiso del LOL, buono più per divertirsi a deriderlo tra amici o a immaginare di ridoppiarlo (ne verrrebbe fuori qualcosa di più sensato, a priori) che per una coppia romantica a San Valentino.

Poi, nella seconda metà, passato quel momento, ci si rende conto di che razza di roba ci si pari davanti, e ci si comincia a stufare davvero. E sarà un’attesa lunga.

Ogni tanto Riccardo Donna, soprattutto all’inizio, butta lì qualche ideuzza: una controsoggettiva di lui che corre, una plongée sugli studenti che protestano, roba così. Tanto non ho niente da perdere, dice. Perché il resto è, come da copione, basso mestiere televisivo in cui il lavoro tecnico è reso meno insostenibile soltanto perché, primo, non ha paura del kitsch e, secondo, se messo accanto a una sceneggiatura agghiacciante (di Ivan Cotroneo, peraltro: perché?), che lavora appositamente sui fianchi e sugli stinchi dei luoghi comuni più beceri, con un cinismo nella ricerca ossessiva della banalità più stordente che definire fastidioso è una gentilezza che gli concedo vista la professionale pervicacia con cui ha cercato di ammazzare i miei neuroni.

Ex, Fausto Brizzi 2009

Ex
di Fausto Brizzi, 2009

Ho già espresso parzialmente la mia opinione ieri, brevemente, su Friday Prejudice. Quindi, nessuna sorpresa: cerco di entrare un po’ più nello specifico, così da togliermi il dente e il dolore, e da poter passare a cose più importanti.

Il nuovo film di Fausto Brizzi è prima di tutto un film. Non è un barzellettiere, non è un film di Neri Parenti, è un film. Con una sceneggiatura, con una struttura, con dei personaggi, con una regia. E come tale, come film a sé stante, andrebbe giudicato, scevro da giustificazioni di carattere commerciale. E le cose che non vanno in Ex sono innumerevoli, il ritmo televisivo (la sensazione diffusa di trovarsi in uno spot o in una fiction molto curata è più passeggero e meno presente del previsto), alcune interpretazioni, Tognazzi che dice "euri", la regia di Brizzi (che ha un’ossessione per i carrelli laterali che trovo sinceramente un po’ preoccupante), e soprattutto il fatto che ogni lampo di personalità (e di cattiveria, seppur lieve) venga appiattito da una susseguente dose di ruffianeria. Il problema è che in Ex, alla fine, non ci sono cattivi: ci sono solo persone sfortunate, sfigate, al massimo arroganti o stupide, nel nome di un amor vincit omnia francamente impresentabile.

Ma Ex è anche un film che è impossibile guardare senza tenere conto del fatto che è confezionato, esplicitamente e dichiaratamente, per raggiungere i gusti un pubblico ampio. Molto ampio. In tal senso, è altrettanto impossibile ignorare di cosa si compongano i gusti stessi del pubblico di massa nel nostro paese. Come si fa a raggiungere un pubblico simile? Semplicissimo: si accontenta tutti. Anche chi viene guardato con uno scherno apparentemente originale (come la coppia di insopportabili burini che vogliono liberarsi dei figli, o il prete che ha preso l’abito perché la Gerini l’ha mollato) ha sempre una seconda occasione, non esiste un meccanismo punitivo di nessun tipo, e più che taralluccio finale, inevitabile, dispiace che gli spunti con del potenziale vengano sciaquati nel nome di una marcata e universale condiscendenza.

Però, pur non essendo una giustificazione, all’interno di questo panorama decadente e di inspiegabile successo che è quello del cinema italiano per le masse (i film natalizi, i teen-movie, i film di Veronesi, eccetera), Ex rappresenta un piccolo passo in avanti. Avere una sceneggiatura che sta in piedi, qualche attore vero, e qualche momento azzeccato, per un film così è tutto grasso che cola, ve lo dico io. E di momenti azzeccati Ex ne ha, eccome: la parte rigurdante Claudio Bisio, per esempio, è tutto sommato onesta e toccante, nella sua banalità. Anzi, mi stupisce che Brizzi sembri più a suo agio con il dramma di un vedovo che non con gli stupidotti dilemmi postadolescenziali della Capotondi. Qualche tiepida risatina, la diatriba De Luigi vs Gassman la strappa. Lo so, è poco, pochissimo. Ma è qualcosa.

Ex è un film molto accessibile e (nazional)popolare e insieme estremamente ambizioso – e parte di questa ambizione sta proprio nel suo voler essere un altro dei tanti film di cassetta ma contenere al suo interno un inedito slancio autoriale. Che, spiace dirlo, non funziona per nulla. Ma è un vantaggio, e uno svantaggio: è proprio nel suo fallire miseramente come sua vera e propria "opera prima", come progetto autoriale, che Brizzi è riuscito a fare una commedia romantica italiana sostanzialmente sopportabile.

Aspettando il sole, Ago Panini 2008

Aspettando il sole
di Ago Panini, 2008

Un pochetto, dal fondo del cuore, mi dispiace dover scrivere una stroncatura di Aspettando il sole. E non solo perché ho paura che Ago Panini himself legga questo post e mi scriva coprendomi di insulti e/o proponendomi un duello all’arma bianca – e, di conseguenza, mi faccia un culo così. Cosa che avrebbe tutto il diritto di fare. Anzi, questo è uno di quei casi in cui mi sento particolarmente antipatico nel dire che il film in questione mi ha fatto schifo. Mi vedo da fuori e mi dico ma che antipatico ‘sto ragazzetto di merda. Non è una captatio benevolentiae – o almeno cough cough non solo: è che, ne sono certo, in Aspettando il sole c’è molta buona fede, passione, voglia di essere diversi dalla brutta brutta massa, forse persino del vero talento. Però mi trovo di fronte ad alcune questioni che per amor di onestà non posso esimermi dall’esprimere, e che per amor di sintesi esporrò in un breve elenco:

1. il pulp è roba vecchia. Basta. Bas.Ta. Potremmo anche chiuderla qui.
2. il pulp all’italiana non è solo roba vecchia, ma è roba che quando era tipo nuova già non funzionava più. Non ha mai funzionato.
2b. avevano anche cercato di convicerci che c’era una corrente letteraria, ve la ricordate? Einaudi, Tsk.
2b. che un film ti faccia venire una voglia matta di riprendere in mano e rivalutare in toto L’ultimo capodanno di Marco Risi, beh, non è un risultato da prendere sottogamba.
3. il film corale all’italiana, d’altro canto, è un’impresa fallimentare, quasi a priori. Perché quest’ossessione? Non ci è riuscito quasi nessuno. Tantomeno à la Magnolia. Perché l’ho capita, sai? Le termiti, le rane, inutile che fai lo gnorri.
3b. io non saprei mai e poi mai come diavolo dirigere un film, e infatti manco ci provo: quindi, tanto di cappello. Però se dovessi farlo, se dovessi proprio girare un’opera prima con una pistola puntata alla tempia e un anfibio allo scroto, probabilmente avrebbe due o tre, o che so, quattro personaggi al massimo.
3c. tantomeno il film verrebbe introdotto da un ominous voice over che spiega il concept del film e cosa succederà circa, e poi non si sente più.
4. l’accento che parla Cederna se l’è inventato lui.
4b. l’accento che parla Raul Bova, invece, cos’è, maceratese? Per cortesia.
4c. voglio fermarmi un attimo su questo punto, è importante: Worst. Raul Bova. Ever.
5. un gran bel risultato ottenuto dal film è che Thomas Trabacchi tira le cuoia in fretta.
5b. di riflesso, il migliore della cumpa è Alessandro Tiberi, eppure non si vede mai. In cambio, una tonnellata di Michele Venitucci con gli occhi da matto e Gabriel Garko con la zeppola. Ma che cazzo.
5c. Claudia Gerini è il culo di Claudia Gerini. Sono la stessa cosa. Sembra un paradosso, eppure. Eppure.
5d. Massimo De Lorenzo è divertente. E’ una macchietta ma fa sorridere. Questa ve la concedo.
6. Claudio Santamaria. Volevo che avesse un punto tutto suo.
7. altra concessione, tutta la parte del set porno non è poi così male: Bebo Storti è formidabile, e la coppia Vanessa Incontrada-Corrado Fortuna ha un’alchimia inspiegabile e pure un po’ inquietante. Siamo sul marginale, ma è qualcosa. Ok?
8. tutta la pippa delle unità aristoteliche, ho capito la manfrina, ma mi spiace, non attacca. Diciamo che non può tenere in piedi il film da sola. Una cosa così.
9. se c’hai Raiz tra le mani e fai fare la colonna sonora a Nicola Tescari, scusa, ma questo post te lo sei cercato.


Nei cinema dal 20 Febbraio 2009

La giusta distanza, Carlo Mazzacurati 2008

La giusta distanza
di Carlo Mazzacurati, 2008

Uscito ormai un anno fa nelle nostre sale, il dodicesimo film di Carlo Mazzacurati parla di diversità e adattamento, di inclusione ed esclusione all’interno di una piccola comunità nella pianura veneta ma, a differenza delle pieghe sociali che altri film italiani avrebbero potuto esaminare, e in curiosa concomitanza con il coevo La ragazza del lago di Molaioli, La giusta distanza viene "sporcato" (benevolmente) da una sorta di trama gialla – che interviene però oltre la metà film.

Un film che coccola non senza una certa scaltrezza il pubblico italiano, fornendo scenari riconoscibili quando non comunissimi, al confine con la macchietta: il commerciante arricchito e un po’ puttaniere, il bel ragazzo sempliciotto, l’unico immigrato che il paese ha accettato ma che guarda ancora con sospetto e pregiudizio. Ma nel raccontare questa terra solitaria e assurda, disperata e assorta, che ben conosce, il regista padovano mostra esplicitamente di voler seguire il procedimento che mette in bocca a Bentivoglio come "giusta distanza", che permetterà – oltre che al regista stesso di confezionare un film assolutamente riuscito – al giovane Giovanni di risolvere il caso

Ne deriva un taglio ancor più profondo e doloroso: Mazzacurati guarda alla periferia ora con l’affetto e l’empatia che sono necessarie a comprenderla, ora con lo spietato distacco che ha il rumore di una fuga e il sapore di una condanna – ancor più dolente, perché è la distanza giusta, ma una distanza che proviene da un abbraccio. Una condanna che riguarda tutti: colpevoli, ognuno del proprio delitto (foss’anche nei confronti di sé stessi), o innocenti. Una condanna scritta con l’infelicità ancor prima che con il sangue, e un’infelicità di fronte a cui l’unica soluzione è: scappare. Chi lascia la strada vecchia per la nuova, fa bene.

Il vento fa il suo giro, Giorgio Diritti 2005

Il vento fa il suo giro (E l’aura fai son vir)
di Giorgio Diritti, 2005

"Io non faccio vacanze, io faccio formaggi"

Tra le storie di film piccoli e indipendenti cresciuti grazie al passaparola, o ad altro, quella del film di Giorgio Diritti è indicata da tempo come una delle più paradigmatiche e riuscite. Tanto da far diventare spesso il film un caso a prescindere dalle sue doti. Ora che l’opera in questione è uscita finalmente in DVD, chiunque sia stato così pigro da non recarsi a nessuna delle numerosissime proiezioni che l’hanno vista protagonista negli ultimi 15 mesi non potrà più avere scusanti.

Del film si è tanto parlato che è quasi ridicolo dirsi sorpresi, ma tant’è: Il vento fa il suo giro è davvero il film straordinario che vi hanno dipinto. Ambientato tra le case di un paesino della Valle Maira, e recitato in un semi-inedito miscuglio di italiano e occitano, il film di Diritti è una vera opera di frontiera, che riflette in modo caustico e impietoso, ma senza lasciarsi trascinare da ondate di cinismo né abbandonandosi a mere suggestioni neorealiste (ma anzi con un forte senso della tensione narrativa oltre che morale), sulla morte del senso di comunità e sull’intrusione – un film quasi polanskiano, in cui la tragedia è sempre dietro l’angolo, sempre annunciata e rimandata. E lo sfogo finale è la perdonabilissima digressione di un film altrove dotato di una compattezza davvero rarissima.

Illuminata la direzione degli attori, perlopiù non professionisti ma spietatamente perfetti, e una direzione della fotografia che lascia senza parole, sia nell’appoggiarsi beatamente agli spettacolari campi lunghi che i paesaggi dell’Occitania regalano, che nell’osare con molto più coraggio – come l’uso della steady nella sublime sequenza del nascondino – rispetto alla maggior parte dei film considerati "maggiori" del cinema italiano recente.

Il divo, Paolo Sorrentino 2008

Il Divo
di Paolo Sorrentino, 2008

"Presidente, sta arrivando una brutta corrente"

In una delle prima sequenze de Il divo, tutti i più noti omicidi della storia repubblicana vengono riproposti con un montaggio serratissimo e da didascalie che si ribaltano, si specchiano, ruotano davanti e dietro ai personaggi: saranno così in tutto il film, rosse. In un’altra delle prime sequenze, la cosiddetta "corrente Andreottiana" arriva nel palazzo deserto il giorno della nascita del settimo governo Andreotti: si muovono al ralenti, e più che con parole si esprimono con suoni, versi, fischiettii. In un’altra delle prime sequenze, la festa per la nascita del settimo governo Andreotti è rappresentata con un piano lunghissimo e virtuosistico, quasi un piano-sequenza, che aleggia di stanza in stanza avvolgendo grottesche figure che si dimenano con una furia irreale e quasi indecente in un festino afro, mentre i coniugi Andreotti si alzano e vanno a dormire con la flemma che ben conosciamo. Che domani si va a Mosca.

Il divo, insomma, mette subito le cose in chiaro: Paolo Sorrentino sa che l’urgenza di un film, soprattutto se si tratta di un film come questo, deve sempre andare a braccetto con un’urgenza estetica, e con un’urgenza linguistica. Con un’idea di cinema. E il cinema del napoletano, non è cosa nuova, è così: egotista, "visibile", rabbioso, barocco, sfrontato, sfacciato, spudorato. Eppure mai come ne Il divo il suo sguardo è stato limato da sbavature: il film che narra, come recita il sottotitolo, "la spettacolare vita di Giulio Andreotti", non ha infatti solo una ricercatezza formale impressionante, che lascia senza parole (impossibile non citare la solita splendida fotografia di Luca Bigazzi, molto più che "il migliore su piazza"). Ma è un film che proprio non sbaglia un colpo. Il successo in un festival estero di un film del genere si spiega solo così: perché non è solo una rarità, un Autore capace di ridare un valore estremo ad ogni singola inquadratura, a tutti i movimenti di macchina, zoom improvvisi, carrelli, dolly, ma davvero, un regista così non ha prezzo – né tantomeno ci sono archi alpini in grado di contenere questa ribollente e strabordante ondata di stile.

Ha molte altre cose, poi, Il divo: ha prima di tutto un Toni Servillo gigantesco e gigante quanto lo schermo, che rimette in scena Giulio Andreotti e le sue parole con una maschera che è insieme letteraria e teatrale, intima e crudele – e che conosce nell’ormai nota scena della "confessione" la consistenza, quasi horror, della carne contorta e dello sputo di rabbia. Ha un esercito di caratteristi impensabile: lo Sbardella di Popolizio che fa il gesto della pistola e che saluta con la mano da basso mentre lo portano via, la malinconica Signora Enea di Piera Degli Esposti, che sfoga il pianto di mille segreti sul sedile di un autobus diretto verso un’amara cicoria, l’uber-mimetico Eugenio Scalfari di Giulio Bosetti (che fu già Paolo VI per Bellocchio, e se fossi Scalfari mi verrebbero i brividi) e soprattutto il pazzesco Paolo Cirino Pomicino di Carlo Buccirosso, ritratto come un eterno ragazzaccio cattivo che fa le scivolate urlando nei corridoi di montecitorio, che dice "Squalo? Squaletto! Affogherà", che urla e che si dimena. Assolutamente geniale. Strano – o forse no – che Sorrentino non ne suggerisca il curioso destino.

Ma al di là di tutto, Il divo è soprattutto e appunto un film di Paolo Sorrentino. Che è riuscito a realizzare un film impossibile – e che lo sia, risulta palese proprio durante la visione – infarcendolo della sua personalità eclettica e multiforme, che è riuscito a trovare un compromesso esaltante tra il gansterismo scorsesiano e il cinema di Elio Petri. Tra l’indeterminatezza surreale del sogno (o meglio dell’incubo) e la tangibilità delle parole, vere e immaginarie, che han fatto da fondamento e motore della vita di un intero paese. Insomma, se la gara per il miglior regista italiano è davvero aperta, Paolo Sorrentino è davvero il miglior metteur en scène che abbiamo. Anche perché in tutto questo non dimentica di confezionare un ritratto sfuggente e inquietante, sagace e ambiguo, di un glaciale statista la cui unica vera ossessione, e debolezza, ha la voce filtrata, perché chiusa in quattro strette mura, o forse da una coperta dentro un bagagliaio, di Aldo Moro.

Una delle prime cose a cui ho pensato fu una riflessione che feci, e molti fecero con me, all’uscita de Il Caimano di Nanni Moretti: che quel film nel film su Silvio Berlusconi girato da Bruno Bonomo, se esistesse davvero, forse sarebbe davvero un grande film. Il divo non riesce a non ricordarmelo, quel meta-Caimano, per molteplici e complesse ragioni – che hanno a che fare con il rapporto tra Storia e racconto, tra maschera e personaggio – e tant’è, che Il Divo è un grande, grandissimo film.

Il resto della notte, Francesco Munzi 2008

Il resto della notte
di Francesco Munzi, 2008

In un periodo così prodigioso per il cinema del nostro paese (gli ultimi film di Virzì, Zanasi, Garrone, e probabilmente Sorrentino) non starà certo a Francesco Munzi fare la parte del leone: presentato pochi giorni fa alla Quinzaine di Cannes, è – in linea con la sezione – un film molto più piccolo dei suoi chiacchieratissimi coevi. E forse molto più ancorato a quell’idea di piccolo cinema italiano indipendente che ancora non sa superare certi limiti autoindotti – gli stessi che poi si additano quando si cercano i responsabili del suo scarso appeal commerciale.

Più che altro, gli interrogativi che solleva un film come Il resto della notte, soprattutta vista l’onestà dell’opera e la persistenza di cui la stessa è capace nonostante barriere di ordine tecnico/economico, sono davvero molteplici, e riguardano in primo piano il cast: perché utilizzare un Aurélien Recoing doppiato malamente invece di un qualunque attore italiano? E perché utilizzare Sandra Ceccarelli in un ruolo talmente ceccarelliano da sembrare parodico eppure privo di una qualsiasi ironia? Dall’altra parte ci sono i rumeni Laura Vasiliu e Victor Cosma, che danno invece, entrambi, una prova d’attore davvero intensa.

Gli interrogativi si sposterebbero poi sulle scelte stilistiche e tecniche della secca regia di Munzi: lo farebbero in un mondo in cui sindacare su queste questioni abbia davvero un senso. Ma appare comunque evidente, come conseguenza, che il modo di girare di Munzi, asciugato degli orpelli, spesso basato su un linguaggio fatto di campi e controcampi, e con una patina fotografica volutamente impoverita e a volte persino – oserei dire – "sciatta", si adatti alla perfezione al mondo delle case popolari in cui si svolgono le vite di Marja, Victor e Jonuz, e trovi invece ostacoli invalicabili quando ci si mette a riprendere i luoghi e i riti dell’alta borghesia. Proprio come, da suggerimento di manu, se ci trovassimo a due film distinti – l’uno disperatamente coerente (e il discorso riguarda anche il "connettore" dei due mondi Stefano Cassetti), e l’altro che stenta a prendere il volo – o meglio, a sollevarsi in piedi.

Se, non senza ironia, non si può certo dire che Il resto della notte sia particolarmente spumeggiante, perché interessato più ai rapporti tra i personaggi che non alla gestione di un ritmo che infatti fatica a ingranare anche a un livello elementare, il film gioca comunque una carta davvero vincente nello sviluppo della conclusione del film (tanto da far ipotizzare, se in cattiva fede, una costruzione pretestuale dell’intero film intorno alla sequenza finale). Quando, insomma, le strade dei personaggi si incrociano definitivamente, nel segno della Tragedia. L’idea su sui è costruito il climax della lunga sequenza (che non anticipo) richiama alla mente quella di Nue propriété di Lafosse, su cui per un attimo sembra quasi ricalcata: ma la gestione narrativa (costruzione della suspence, e rilascio della tensione accumulata) e soprattutto figurativa (l’uso ossessivo del fuoricampo, seguito da campi che abbinano ai corpi morti uno stile che sembra quasi cauterizzato dal trauma) non hanno nulla da invidiare ai colleghi europei. Di fronte a una sequenza così, ci si rammarica di dover accusare le solite tendenze ombelicali, lo scarso interesse per la ricerca formale, cose che al solito limitano opere – come questa – dall’enorme potenziale.

Un paragrafo a parte lo merita il compaesano Stefano Cassetti: nonostante le urla, l’accento, l’idea ingenua di farlo guidare sempre come un pazzo, il volto destinato ormai irrimediabilmente a rappresentare sempre e comunque personaggi borderline, il suo Marco Rancalli è una performance memorabile, sgradevole nella migliore accezione del termine, e le sue fughe con il figlio, tentativi di riscatto che leggono nei propri occhi di ghiaccio l’impossibilità del riscatto stesso, sono le parti migliori, più autentiche e struggenti, del film.

Gomorra
di Matteo Garrone, 2008

Volti, passi, parole, centotrenta minuti appiccicati a loro, ai personaggi delle "storie" di Gomorra, dirette da uno sguardo tra i più maturi e sconcertanti del cinema europeo, che fa la scelta ammirevole e scioccante di rifuggire sia le sirene del genere che quelle, ancora più rumorose, del cosiddetto cinema sociale, forgiando un affresco di morte dominato dall’ineluttabile, ma non quello più consolante e tutto sommato consolatorio del destino e del fato, ma l’ineluttabile umano della causa e dell’effetto, quello insomma per cui una pistola raccolta in scena dovrà prima o poi sparare, facendone un eccezionale romanzo sulla perdita dell’innocenza di un’intera città, di un intero mondo, sul veleno e sui morti che concimano la terra su cui siamo cresciuti, ma soprattutto un vero gioiello di narrazione ondivaga, paziente nel ricostruire le sue cause alle sue conseguenze ma morbosamente teso fin dal suo mettere subito le cose in chiaro, ambientato in una realtà che è tanto dura e vera da risultare aliena e romanzesca, Gomorra è così, un ineluttabile romanzo di morte ambientato su un altro pianeta, il nostro, da cui non c’è fuga, chinati tra gli spari a vuoto e le canzoni d’amore, né riscatto tra i cuori che esplodono, quelli che implodono, e quelli che si spengono lentamente, né altro che una vaga speranza – che abbia però l’amaro retrogusto dell’immolazione, del sacrificio di sé, dove si è eroi già morti di un’epica della sconfitta urlata tra le chimere esplosive o di un levissimo prestigio conquistato con la paura e poi sussurrato in un’alba dolce e impalpabile, e infine sempre e comunque schiacciati, schiacciati dai grigi cupi degli ampi panorami, in un film preziosissimo ma non solo, unico ma non solo, davvero, un film italiano come non se ne vedevano da anni.

Non avevo nessuna voglia di scrivere di questo film – che va visto, vissuto, consumato avidamente. Questi sono solo i miei accennati venti centesimi, pallido specchio di un turbinio continuo di cose che non trovano la loro via d’uscita. Se volete invece leggere qualcuno che ha saputo scriverne davvero, ci sono UnoDiPassaggio e Chamberlain.

Tutta la vita davanti
di Paolo Virzì, 2008

C’è una cosa precisa che ho pensato, all’uscita dell’ultimo bellissimo lavoro di Paolo Virzì, ormai una settimana fa, mentre mi asciugavo le lacrime. Una cosa che sono stato lieto di riscontrare poi nei discorsi di molte altre persone che hanno gradito – o amato, come me – questo film, e che ho comunque voluto immediatamente condividere con qualcuno: Virzì è l’unico rimasto ad aver capito la commedia all’italiana. O meglio, è l’unico rimasto ad applicarla come si deve.

Inutile pretendere uno statuto di realismo storico da questo film: anzi, Tutta la vita davanti gioca volutamente con il grottesco, con la macchietta, e in ogni caso attraverso una spinta di assoluta addizione, perché sa che – se non è propriamente l’unico – è in questo caso e con questo linguaggio il modo più appropriato per farne scaturire la realtà, nei suoi aspetti più grigi e squallidi, così come nei barlumi di speranza veicolati dall’onestà e dall’intelligenza, soffocati comunque da una società ormai decaduta.

L’avevano capito i maestri a cui il film si rifà fortemente, con quel suo animo di fiaba amara, tutto sommato nera e disperata, e stavolta non è davvero fuori luogo richiamare autori come Dino Risi (come la scena dello sfogo di Elio Germano, da brividi) Ettore Scola (al di là della citazione diretta) o addirittura Antonio Pietrangeli: difficile non pensare al regista romano nella pazzesca, straziante sequenza del licenziamento di Micaela Ramazzotti, che strilla "nessuno è gentile!" nel parcheggio.

Ma la sostanza del mio giudizio non può non fermarsi, ad un certo punto: ed è già molto che io sia arrivato fino a qui. E il punto è quello in cui il regista e il suo fidato sceneggiatore Francesco Bruni, in modo mai così preciso e feroce, smettono di raccontare una storia qualunque. E cominciano a raccontare la mia.

Mai sufficiente il plauso a Isabella Ragonese, ed eccezionali tutti gli altri. Vi piaccia o meno, uno dei film italiani più belli e più importanti degli ultimi anni.

Non pensarci
di Gianni Zanasi, 2007

C’è una lezione importantissima per il cinema italiano, che Non pensarci insegna: per fare dell’ottimo cinema indipendente, anche nel nostro paese, non è necessario scrivere sopra ogni fotogramma che lo si sta facendo. Basta mettersi a dire la propria storia, e farlo fino in fondo. Così, senza spiattellarcelo in faccia, il risultato è questo: uno dei film italiani più indipendenti (orgogliosamente, fieramente) degli ultimi anni nasconde la sua libertà all’interno di meccanismi assai consoni al cinema del nostro paese, nonché del cast e del suo autore, quali sono quelli del contrasto tra città e provincia (qui tra i brevi accenni di una Roma punk e una Rimini addormentata, eclettica ma saggiamente de-regionalizzata), e quali sono quelli della commedia familiare italica, divisa tra toni intimi, divertiti e amari.

Per il resto, Non pensarci è attraversato da un vento di leggerezza di cui si sentiva davvero la mancanza, dalle nostre parti: incanalati in logiche economiche, prospettive ombelicali, e tutte quelle cose di cui si taccia il nostro cinema (spesso a ragione), ci siamo dimenticati di una cosa che in questo film pulsa, e che non ci stancheremo di lodare: il bisogno, bruciante, di raccontare. E di farlo davvero bene: non è da tutti far uscire tutto un mondo da un accendino caduto, da uno stage-diving, da centinaia di vasetti di ciliege in frantumi, dalla corrente che se ne va in tutto il paese, lasciandoci senza luce. "E io come faccio senza Matrix?". Tutto il resto, poi, viene da sé: la scrittura è freschissima, agile, acuta. La regia modesta e attenta. Le scene madri, assolutamente inusuali nel loro essere sussurrate, sono silenziose, contenute: come l’impressionante confessione della madre nello stanzino, o il dialogo tra Stefano e Michela, sulla collina. "Sei tornato perché hai bisogno di noi".

Essenziale il contributo di una colonna sonora bella e intelligente, tra i Clap Your Hands Say Yeah e il commovente Ivan Graziani di Agnese dolce Agnese, ma mai quanto il cast: Valerio Mastandrea trova il suo ruolo migliore, e il più adatto ai suoi toni e al suo incredibile talento, dai tempi di Tutti giù per terra: e da quel film ritrova anche Anita Caprioli, che là esordì. Qui è sua sorella, rifugiata amorosa in un delfinario, bellissima, pallida, malinconica: impossibile non innamorarsene, perdutamente.

Caos calmo
di Antonello Grimaldi, 2007

Quando ci si affeziona ad un libro, se si escludono scelte di conduzione palesemente imbarazzanti, si è sempre contenti di vederlo tradotto sullo schermo. Ci si può confrontare tra l’immaginazione soggettiva e "libera" creata nella propria mente durante la lettura, e un’immaginazione "istituzionalizzata" qual è quella dell’adattamento cinematografico. E in questa sede, questo è quanto di più si vuole scrivere sull’argomento: Caos Calmo è un film estremamente fedele al libro da cui è tratto.

Non tanto per il fatto che le situazioni del libro vengono riproposte in modo attento e quasi del tutto compiuto (con i limiti posti dalle due ore della proiezione), quanto per l’indole che contraddistingue la narrazione: Caos Calmo è un film che racconta il suo percorso di elaborazione del lutto con una varietà di toni davvero inusuali per il contesto un po’ mortificante del cinema "leggero", in cui il film si inserisce con evidente volontà. Toni che vanno da un’ironia attenuata e coivolgente a una capacità di raccontare il dolore della perdita senza insistere sui soliti dettagli ombelicali, mantenendo sempre un ritmo eccellente, e molto adeguato alla durata del film. Non limitandosi a una replica del testo, però (evitando per esempio di accasciarsi pigramente sulla voce over: era un rischio su cui temevo scivolassero col culo a terra), e osando qualcosa di più.

Osando nel raccontare il conflitto tra il dolore e la sua presentazione sociale, prima di tutto, e nel rappresentare – a prescindere dagli strascichetti polemici del caso – la riscoperta del desiderio, e del suo rapporto con complicità, intimità e senso di colpa – con crudezza e sincerità davvero inedite. Oltre ad essere un film dignitosissimo sotto l’aspetto semplice ma insidioso qual è il gusto della visione, quindi, Caos Calmo cerca anche di fare qualche passetto in più all’interno della psiche del suo protagonista. E lo fa, paradossalmente, abbassando molto le ambizioni del libro, e portandolo ad un livello più medio, rifacendosi anche a precedenti noti quali l’ultimo Moretti (lui stesso fa "suo" il personaggio di Paladini, inserendo anche il suo stile nella sceneggiatura, anche se con umiltà e spesso a schizzi improvvisi) e colpendo per la limpidezza e la semplicità con cui la buona sceneggiatura e l’ottimo cast – tra cui una bambina brava e non insopportabile, e un Roman Polanski che è puro carisma – riescono a conquistare lo schermo.

Invece, se qualche – neppure troppo piccolo – dispiacere c’è, lo si riscontra dal punto di vista estetico e plastico: insomma, Caos Calmo non si divincola da un’insoddisfacente piattezza che tradisce le abitudini distrettesche di Grimaldi, e in cui l’esperienza di Alessandro Pesci alla fotografia (altrove molto bravo) non si riesce a smarcare dai soliti movimenti ondulati della macchina da presa nel campo/controcampo, e soprattutto da una patina bruttarella e imprecisa che fa pensare solamente alle immagini che siamo abituati, nostro malgrado, a vedere sul piccolo schermo.

Ma sono osservazioni limitate, e non troppo limitanti, perché Caos Calmo è davvero un bel film, rischioso e delicato allo stesso tempo, che infila in colonna sonora Stars, Rufus e Radiohead come fossero acqua fresca, che riesce perfettamente nel suo intento, e visti i tempi che corrono non possiamo che esserne entusiasti.

Piano, solo
di Riccardo Milani, 2007

A differenza di ciò che qualcuno potrebbe pensare, le memorie che danno il titolo a questo blog sono proprio, letteralmente, memoria. Tentativi di recupare estratti di ricordo per strapparli alla fugacità del tempo. Sono centinaia, migliaia, le cose, i dettagli del passato, che ricordo proprio grazie a questo blog. Ma è una cosa pessima, davvero, la mia memoria: tanto che a volte guardo un film e me ne scordo. Non è la prima volta, anche se il blog dovrebbe aiutare. Si direbbe che se ci si dimentica è colpa, o può esserla, del film, ma in questo caso è un peccato, perché non lo è.

Recuperato diversi giorni fa grazie alla segnalazione nelle classifiche dell’anno passato da parte di qualche blog (che ringrazio e invito a palesarsi eventualmente nei commenti), tratto dal romanzo di Walter Veltroni sulla vita di Luca Flores, pianista morto suicida nel 1995 a meno di 40 anni, il film è il racconto di un’ossessione vividamente sonora e della sua sublimazione musicale, dove le dita che corrono sui tasti non sono che la fuga da un qualcosa che è sempre dietro l’angolo, e soffia sul collo. E lo sguardo triste del solito eccellente Kim Rossi Stuart non fa che trasmettere la rassegnazione, da principio, di fronte a questa ineluttabilità. Dal canto mio, Piano, solo è stata un’esperienza difficile, toccante per alcuni versi, ma immagino di poter dire con tutta tranquillità che l’impressione sia assolutamente positiva a prescindere da questioni del tutto personali.

Se alcuni dei caratteri del cinema italiano che generalmente snobbiamo rimangono incastrati nella rete, per esempio sul piano della direzione d’attori (e in questo senso la prova d’attrice di Jasmine Trinca stona assai con quella sorprendente di Paola Cortellesi), è davvero ammirevole il tentativo di Milani di rifuggirli con le armi della sintesi e dell’asciuttezza, relegando il melodramma nei visi dei suoi personaggi e trasformando Piano, solo in un film di rara compattezza, che rimane miracolosamente in bilico, ma dal lato giusto, sul rischioso filo teso dalla rappresentazione della malattia sullo schermo. E regalando, nella scena perforante del flashback "rivelatore", uno dei momenti più intensi del cinema italiano degli ultimi tempi.

La ragazza del lago
di Andrea Molaioli, 2007

Sono pochi i film italiani che quest’anno hanno attirato davvero la mia attenzione, e fa piacere poter dire anche a posteriori che La ragazza del lago è davvero una bella eccezione.

L’esordio di Molaioli, per anni assistente alla regia di Nanni Moretti, tratto da un romanzo della "regina norvegese del crimine" Karin Fossum, si è rivelato un gran bel film, un quieto noir di provincia, malinconico e dolente, e senza troppe facili speranze.

Molaioli dimostra già di avere un suo stile, glaciale e sommesso, e la sua bravura si vede non solo nella perizia tecnica e l’intelligenza con cui struttura le singole scene senza cadere (troppo) nei tranelli della fiction televisiva, ma anche nell’umiltà con cui non ce lo sbatte in faccia.

Completa il quadro l’algida, bellissima colonna sonora di Teho Teardo.

The deaths of Ian Stone
di Dario Piana, 2007

A molti il nome di Dario Piana, come a me fino a qualche tempo fa, può dire poco. E la classica occhiatina all’IMDB serve a poco: una regia sola, vent’anni fa, per il pessimo sequel di Sotto il vestito niente 2, e qualche teleplay per altrettanto discutibili prodotti televisivi. Ma Dario Piana è in realtà uno dei più noti registi di spot del nostro paese, con un passato di illustratore pubblicitario nella Milano degli anni ’70 e un curriculum impressionante di centinaia di spot, tra cui molti famosi, spesso – soprattutto negli ultimi tempi – basati su un uso "spinto" degli effetti speciali.

The deaths of Ian Stone
è parte del progetto Horrorfest, sorta di "festival itinerante" che porta negli Stati Uniti "8 films to die for", 8 horror ispirati (o meno) all’età doro della serie B: sapere come Piana sia finito nel malefico ottetto è difficile a dirsi. Ma anche da principio, trovarsi di fronte all’horror di un regista italiano nel 2007, quando i tentativi in campo nel nostro paese, per quanto ben accetti, vanno poco oltre gli ultimi boccheggiamenti di Dario Argento, lascia un po’ di sasso. Più che altro, lascia di sasso che nessuno ce lo sia venuto a raccontare. Anche perché, sorpresa, Ian Stone non è affatto male.

Ian Stone è un giovane americano a Londra che viene ucciso di continuo da misteriose entità, e che ogni volta si risveglia, dimentico di quanto successo, in una vita e in "panni" diversi: ma i "mondi" sono accomunati dalla presenza di una ragazza bionda. Ma oltre alla trama, aggrovigliata quanto basta e assolutamente seducente (sembra uscita da una delirante graphic novel), ad incuriosirmi è stata soprattutto la presenza come produttore di Stan Winston, curatore degli effetti speciali delle saghe di Terminator e Jurassic Park (e non solo), che escludeva in partenza che si trattasse di una robaccia cheap: e infatti non lo è.

E se anche qualche volta Piana cede alla tentazione di applicare pure qui la sintesi pubblicitaria – il film è estremamente breve, poco più di un’ora, e quindi va da sé che le cose succedano tutte un po’ in fretta – e modi da post-matrix (certi imperdonabili cappotti), lo si perdona volentieri, perché il film è un innegabile
divertimento, è girato come si deve, Mike Vogel ha la faccia giusta e non sembra appoggiato lì perché belloccio come spesso accade in questi casi, e la storia non ha paura di prendere pieghe inquietanti (la sequenza dell’eroinomane) o rischiose (il "design" delle armi delle suddette entità). Forse è un po’ mordi-e-fuggi, ma poco importa: è anni luce da qualunque cosa simile io abbia visto tirar fuori in tempi recenti dalle manine di registi italiani.

Le potenzialità ci sono tutte, e non ci sono più scusanti. Che non sei mica più un ragazzino: adesso, Dario Piana, torni qui a Milano e ci fai vedere, ma davvero, di cosa sei capace. Sai che goduria.


Scopro solo ora che il film uscirà nelle nostre sale il prossimo anno, distribuito da Medusa: la data per ora è fissata al 13 Giugno 2008.

[addio]

E’ morta Eleonora Rossi Drago.

Mio fratello è figlio unico
di Daniele Luchetti, 2007

Pur apprezzando molto il cinema di Luchetti, tutto il tempo atteso dall’uscita di questo suo ultimo film, tratto da "Il fasciocomunista" di Antonio Pennacchi, mi aveva convinto, in qualche modo, di non essermi perso niente di che. L’ho recuperato quindi pigramente, senza troppa curiosità e senza troppo entusiasmo.

Invece ho trovato un film che, pur con qualche limite (dovuto, per fare un esempio, all’accostamento del solito eccellente Elio Germano alla decorosa legnosità di Scamarcio), racconta una storia italiana in cui la politica e gli ideali vengono svuotati della loro aurea mi(s)tica, ritratti più come un pretesto per sopravvivere, per sfuggire al grigiume della povertà e della provincia, per trovare un posto nel mondo. E che ha il coraggio di costruire la figura di Accio mescolando antipatia ed empatia, con una malinconia che diventa, nel sommesso e bellissimo finale, sottile disperazione.

Qualunquista e disilluso? Semplicistico? "Rossi e neri son tutti uguali"? "Ve lo meritate Alberto Sordi"? Forse. Ma quello che ci ho visto io, o che ci ho voluto vedere, è stato soprattutto il recupero di un gusto e di una piacevolezza del racconto (anche grazie alla scorrevole sceneggiatura scritta da Luchetti insieme a Rulli e Petraglia, che a sessant’anni sanno scrivere script di una freschezza che la maggior parte dei conterranei si sogna) che non riscontravo da tempo nel nostro cinema.

[apollineo vs dionisiaco - 1]
 

Io, l’altro
di Mohsen Melliti, 2007

[spirito dionisiaco]

C’è Raul Bova che fa il pescatore e parla siciliano. C’è Raul Bova che guarda una profuga morta in mare e dice "poverini, cercano la speranza e trovano la morte". C’è la svolta thriller. Scult tra gli scult, c’è una specie di morphing tra il ritratto di Bin Laden e quello di Padre Pio. Era l’unica ragione per andarlo a vedere, e ve l’ho rovinata. Bin Laden! Padre Pio! Bin Laden! Padre Pio! Bleah.

[spirito apollineo]

La mia recensione su Cinema4Stelle.

nota: questa stupida rubrichetta si propone, almeno per oggi, di mettere un po’ di ordine nella mia recente schizofrenia privata e professionale. Trovo comunque che l’immagine sia deliziosa: potrebbe diventare un’abitudine.

Fascisti su Marte – Una vittoria negata
di Corrado Guzzanti e Igor Skofic, 2006

Mettiamo subito in chiaro una cosa: chi scrive considera Corrado Guzzanti uno dei più grandi uomini di spettacolo dei nostri tempi, e la mia ammirazione per lui ha rasentato in passato (quando era più presente, come con quell’assoluto Capolavoro della TV italiana che fu Il Caso Scafroglia) forme persino ossessive. Detto questo, e messo quindi alla luce dei fatti che non ho un briciolo di oggettività di fronte a tutto ciò, è chiaro anche che non pretendevo che il film di Fascisti su Marte fosse anche un bel film. Soprattutto per una ragione: conoscevo la tiritera.

Se ci si approccia al film conoscendone i contenuti, il gioco non può che durare poco. Il film è infatti troppo lungo, troppo lento, troppo ripetitivo, troppo risaputo, almeno per chi conosce già la materia di cui è fatto. Ciò nonostante, Una vittoria negata, anche in questa prospettiva, è un film migliore di quanto ci si aspettasse: la struttura a sketch rimane quasi intatta, ma sotto a questo progetto assurdo, insieme amatoriale e sperimentale, c’è una struttura portante ben più radicata, che viene fuori con molta chiarezza e che possiede la forza risanatrice della Vera Satira – sempre a costo di prescindere dalle troppe tentazioni all’eccesso di Guzzanti & C.

Poi mi sono immaginato un approccio "vergine" al film, senza insomma aver avuto l’esperienza della versione "seriale" di Fascisti su Marte andata in onda sulla RAI. In tal caso, vi sfido a trovare nel cinema recente del nostro paese qualcosa di così spudorato, libero, svincolato da ogni legame con i linguaggi e gli stili dominanti, e soprattutto così spaventosamente divertente, così innegabilmente geniale.

Ecco, Geniale è un’altra di quelle parole che mi tengo ben stretta e che non sputtaneggio in giro. Questa è un’eccezione.

La cena per farli conoscere
di Pupi Avati, 2007

Il nuovo film di Pupi Avati si svolge su due piani differenti. Il primo è una storia, abbastanza risaputa, del superamento di una sindrome di Peter Pan, della scoperta dell’essere adulti (e padri, con tutte le conseguenze e responsabilità del caso) appena prima che sia troppo tardi. Il secondo è una storia di ricongiungimento familiare "orizzontale", ottenuto però, al contrario del solito, tramite meccanismi di negazione: come esplicita Avati nell’incontro con la stampa, ad unire le tre sorelle quasi sconosciute sono prima l’odio nei confronti di un uomo che le ha rese inesorabilmente infelici, e successivamente la sua stessa assenza.

Sotto a tutto questo però c’è anche l’ennesima presa di coscienza di un regista che è nato e cresciuto con il cinema di serie B. E quindi, oltre ad omaggiare in modo naif ma sincero Corbucci e Germi, Avati inserisce la sua storia – un po’ fuori tempo, e con un meccanismo simile a quello svolto da Moretti, anche se qui siamo esattamente gli antipodi, trattandosi di un cinema assolutamente apolitico – nel contesto di un omaggio a "quel cinema là". Abatantuono è infatti non a caso un attore che, finita l’era degli italian kings of the b’s, si ritrova a girare brutte soap, quando non (im)probabili reality show. E quando sui titoli di coda scorre la sua (im)probabile filmografia come fosse un necrologio, è evidente, questo è molto più che un semplice tratto marginale del film. Che rimane comunque prima di tutto, come da sottitolo di testa, una "commedia sentimentale".

Ma Il grosso dispiacere di La cena per farli conoscere, oltre al titolo (ma si sa che in quello gli Avati non vanno mai per il sottile), è l’enorme scarto esistente tra la dimensione progettuale del film, che è molto ordinata, consapevole, onesta e chiara quanto i suoi progetti narrativi, e la realizzazione, che è molto al di sotto della media del cinema europeo, e pure di quello italiano. Per esempio, non serve un orecchio attento per accorgersi dei problemi in fase di missaggio audio, con il doppiaggio che si sovrappone alla presa diretta all’interno della stessa scena (con un fastidioso effetto straniante per cui i rumori di fondo vanno e vengono: e vi assicuro che non si tratta di minuzie tecniche), e non serve un occhio attento per rendersi conto della piattezza della fotografia, che a volte si trasforma persino in indelicata imprecisione.

Ciò nonostante, con tutti i problemi che ne minano la visione, comprese le scelte per cui il pericolo televisivo è più che presente (come la tipica struttura soap: panorama + esterno + interno) e quel senso di ingenuità diffuso che a volte rende difficile divertirsi o commuoversi davvero fino in fondo, ci è davvero difficile disprezzare questo piccolo film da camera. Prima di tutto, perché l’allontanamento dal cinema più recente di Avati, quello malinconico che guardava al passato senza saper uscire dal pericoloso vortice della nostalgia provinciale, giova molto al regista, che si confronta stavolta con qualcosa di più universale. Poi per l’eccezionale talento sintetico dell’incipit con le "immagini" delle tre sorelle nelle tre città lontane, le prove d’attori gradevolmente sotto tono (tranne una brava Francesca Neri che irrompe nella scena ubriaca fradicia e delira per 10 minuti), e il gustoso personaggio del marito feticista interpretato da Fabio "Chicco Lazzaretti" Ferrari. E infine, la schiettezza con cui Avati si approccia alla scivolosa materia della "commedia all’italiana", con un misto inconsulto di ambizione e di umiltà, da cui esce tutto sommato vincente.

Ma soprattutto, perché La cena per farli conoscere, dimenticando volutamente ciò che Avati ha detto alla conferenza stampa (ovvero che "è un film a lieto fine", ma si sa che ci possiamo fare noialtri con l’intenzione dell’autore), è un film funebre e tendenzialmente pessimista. Un film che si apre con un funerale e si chiude con un funerale, in cui è la morte la risposta, e nel cui finale, a parte il ricongiungimento di sguardi e l’emblematica redenzione di gruppo (e la mancanza del graffio di Regalo di Natale di sente eccome), il protagonista non raggiungerà mai il suo sogno e le tre sorelle, diciamola tutta, rimarranno comunque e sempre inesorabilmente infelici.

Nelle sale dal 2 Febbraio 2007