Italia

[revisionismo]



"Questa è una domanda a cui non le voglio rispondere adesso.
No anzi credo che non le risponderò mai."

L’amico di famiglia
di Paolo Sorrentino, 2006

I detrattori del regista napoletano, con L’amico di famiglia avranno pane per i loro denti: accorrete, genti di tutte le età, ad accusare Sorrentino di manierismo, di spocchia, di formalismo, di presunzione. Perché in effetti il suo nuovo film è proprio così: estremamente presuntuoso, e irreparabilmente irrisolto nel suo tentativo di mantenere un registro narrativo coeso, passando senza troppa cognizione dall’epitome dell’inessenziale (nella prima parte) a una sintesi frettolosa e riassuntiva (nella parte finale). Ma diavolo, se i nostri registi fossero tutti così, che cinema, che avremmo.

Al di là della bellezza di molti singoli momenti, a partire dagli incredibili titoli di testa (che molti definiranno lynchani, e non a torto) dove la voce di Antony giganteggia e ammalia, e della ricerca spasmodica dell’inquadratura originale, in quello che è palesemente il suo film meno riuscito Sorrentino si conferma tuttavia e comunque un autore dalla poetica forte e coerente, disperata e misantropa, e non un mero metteur en scene, seppure di raro e innegabile talento. Perché se i nostri registi fossero tutti così, che cinema, che avremmo.

Anche se poi L’amico di famiglia, in fondo, se ridotto all’osso, non è che una variazione, complicata in qualche modo dalla moltiplicazione dei personaggi e con alcune banalizzazioni (come il Fabrizio Bentivoglio venetofono e countrymaniaco) del suo film precedente. Insomma, Geremia de’ Geremei è un altro uomo che sottovaluta le conseguenze dell’amore. Un amore che si trova dove meno te lo aspetti, tra le pieghe del disgusto e della iattura, tra il maleodore e la vecchiaia, un amore che ti restituisce il senso della vita anche solo per un attimo, ma che non potrà mai salvare un mondo in cui tutto diventa merce e bugia, un mondo ipocrita e malato.

Immerso nello sterco dell’uomo, l’amore che vi fiorisce per caso non potrà mai sbocciare.

N (Io e Napoleone)
di Paolo Virzì, 2006

Sulla carta, l’ultimo film del regista livornese era davvero interessante: mescolare la perizia della ricostruzione storica con la levità della commedia italiana (o della commedia all’italiana, fate voi), senza farsi mancare se possibile una velata e malcelata riflessione sul presente. Qui, più che sul (post)berlusconismo, come ci si poteva aspettare, si parla del "popolino che si esalta per ogni cosa che sia peggiore di lui". Poteva persino essere un progetto rischioso. E che meraviglia, il rischio.

Purtroppo Virzì fa l’errore di abdicare la sua indole più leggera, quella che aveva fatto sì che venissero alla luce film davvero rari come Ovosodo o Ferie d’Agosto, a questa nuova ambizione, concentrandosi troppo sulle ottime scenografie e sui costumi, ricordandosi a tratti la sua identità ma esprimendola senza un briciolo di equilibrio, e di conseguenza – addirittura – annoiando, e abbandonando un po’ a se stessi i personaggi. Brutto errore. Perché il cinema di Virzì non è certo esente dalle macchiette, ma non si può negare che Piero, Sandro, Caterina, persino Tanino, in fondo fossero dei bei personaggi. Il Martino di Elio Germano è poco più che un character. E come diceva Winston Wolf, "just because you are a character, doesn’t mean you have character".

Forse è colpa di Auteuil, che gli ruba la scena con il suo Napoleone fascinoso, forse meglio scritto che interpretato ma indubbiamente "attraente": ecco, questo riesce bene a Virzì e soci. Cioè, fare di noi spettatori ciò che Napoleone fa di Martino, di Emilia e della popolazione dell’Elba, ingannarci con la seduzione del potere e farci scoprire napoleonici per un paio di frasi fatte, una battuta, una "pacca sulla spalla", e un bicchiere di limonata col rutto, in attesa di salpare per la Francia. E gli riesce molto bene. Ma nel frattempo il resto del cast si sta agitando sullo sfondo con un lieve imbarazzo da recita scolastica, cercando in tutti i modi di parlare un toscano quantomeno credibile, alcuni facendosi perdonare (Monica Bellucci, che a quanto pare si è inventata un mischiotto di accenti tutto suo, è parecchio divertente e – come spesso accade, forse inconsciamente – autoironica), altri assolutamente no. Come Sabrina Impacciatore. Non vorrei aggiungere altro, se non che invece Massimo Ceccherini è di una bravura quasi miracolosa.

Ma questo Ceccherini straordinariamente moderato, quasi poetico (il suo incontro con Mirella fuori dall’uscio – "bisogna resistere" – giusto un attimo ma che lascia stupefatti), non basta certo a risollevare del tutto un film davvero deboluccio. Un film passabile se vogliamo. Forse anche piacevole, suvvia. Ma all’altezza di nessuna delle sue ambizioni. E poi, va da sè, in un’ottica ipersoggettivista, l’attualità e il postberlusconismo trovateveli pure voialtri. Per me è semplicemente e profondamente un film di Virzì, e sta al finale dimostrarlo fino in fondo. Insomma, gli ideali e le utopie, individuali politiche o collettive che siano, alla fine dei giochi sono schiacciati sempre dalla dolcezza delle cose quotidiane. Dalla semplicità e dalla bellezza del compromesso con se stessi. E che due palle.

Prima che qualcuno me lo chieda: le bocce della Inaudi non si vedono, quelle della Bellucci sì.

Nuovomondo (The golden door)
di Emanuele Crialese, 2006

Basterebbe citare una scena tra tante per poter dire che Nuovomondo è per ora il miglior film italiano del 2006, ne basterebbe una sola. E invece ce ne sono moltissime, tra distacchi silenziosi di barche e porti e di uomini e muli, tra carote giganti e piogge di zecchini, tra lo scoprire che sei italiano, che l’aglio puzza, che sei pronta a tutto pur di scappare, anche verso l’ignoto.

Verso quel nuovo mondo ostile, crudele e analitico, che il tuo mondo dentro non può e non vorrebbe capire, che il tuo sguardo non può che vedere da una finestrella e non può che sognare da un piccolo anfratto del cuore, che forse è meglio immaginare ancora come un lago di latte dove nuotare e amarsi.

Un viaggio storicamente ben definito eppure senza tempo, attuale ma senza meri polemicismi, iperrealista e surrealista eppure mai presuntuoso, poetico senza superficialità, silenzioso e soffocante per via dei campi cortissimi e dei corpi che si scrutano e che si annusano, ma di una cupezza che si può ancora superare con la forza dei sogni e della speranza.

E una storia d’amore sui generis che ti si infila nel cuore come uno spillo.

Piano 17
dei Manetti Bros

Ho talmente tanto aspettato a scrivere di questo film, che a questo punto potrei anche fare un post in cui scrivo di fiori, o di urbanistica, o di musica indie, oppure di che sensazione strana dia tornare a Bologna dopo due mesi e guardarla da fuori con gli occhi di uno straniero, tanto che ti verrebbe voglia di far finta di niente, non dire niente a nessuno e fermarti qui, di nuovo, altri 6 anni. Ecco, forse questo sarebbe più interessante, per qualcuno.

Anche perché di Piano 17 non c’è molto da dire: dopo 10 minuti iniziali e di digitale brutto-ma-brutto, con una passione evidente e gradevole, i Manetti trovano miracolosamente l’approccio giusto al genere puro, e realizzano un noir molto divertente, a tratti anche teso e appassionante, azzeccando soprattutto le parti che riguardano i gangstaer e meno quelle sui "civili" (che sono più caricaturali: c’è qualcosa di paradossale in tutto questo?), e utilizzando una struttura risaputa, complicatissima ma molto sciolta, ovviamente a flashback (non per niente nella cameretta della tipina darkettona c’è il poster di Fantasmi da Marte), usando il flashback-nel-flashback e giocandoci pure autoriflessivamente (il dialogo sui "sogni, che non sono lineari ").

Ovviamente il lavoro non è del tutto riuscito, perché le svaccate non mancano (il finale finale con quella canzone fino ai titoli di coda, dopo una colonna sonora così cool, no, non si può perdonare), alcuni personaggi e dialoghi sono sbagliati in modo imbarazzante, e non si raggiunge la compiutezza dei lavori recenti, per esempio, di Soavi e Placido. Ma per aver dimostrato di non aver bisogno di troppe parole (nonostante la tentazione forte del dialogo pulpfictioniano), e per quei venti minuti pazzeschi che portano dritti al finale sanguinario, gli si perdona tutto il resto. Con parsimonia, forse. Ma di certo non meritava l’indifferenza con cui è stato accolto nelle sale.

La stella che non c’è
di Gianni Amelio, 2006

Come già nel caso di Le chiavi di casa, non sarò io certo a riversare incenso profumato sul capo di Gianni Amelio, forse perché il suo cinema non mi sa conquistare (o non mi sa conquistare più?) in modo totale. Ma proprio come nel film di due anni fa, al regista calabrese è riuscito quello che è davvero un piccolo miracolo: là era raccontare una storia di disabilità senza cadere nel facile melodramma, qui era raccontare una storia ambientata in uno scontro-di-culture scegliendo un taglio intimista che ha fatto svanire ogni rischio di svaccata politica-sociale e – anche grazie al sempre ottimo Bigazzi – ogni possibilità di cinema-cartolina.

Ovvero: con pochissime armi e pochissimi mezzi, che possono essere quelli di uno sguardo, di un saluto o di una lacrima, Amelio preferisce raccontare, più che la banale storia dell’italiano stupito di fronte ad un paese come la Cina e alle sue contraddizioni (pur facendolo in parte, e in modo eccellente), la storia di un uomo di buona volontà, e di una convinzione utopica che coincide con un ultimo e ossessivo senso possibile della vita. E la storia della donna che viaggia al suo fianco. E di raccontare questo loro viaggio (da cui traspare, senza bisogno di descriverla, tutta la loro vita) con un garbo e con una leggerezza – soprattutto considerati l’attualità del discorso e dei temi messi in campo – che potrebbero essere davvero sconvolgenti per chi è abituato ai toni nefasti della televisione nostrana (altro che film per la tv), e che sanno davvero coinvolgere, al di là dell’aridità – spesso ricercata e funzionalissima – di molte scelte stilistiche.

Poi, che Castellitto sia un gigante lo sapevamo già, ma è Tai Ling, con quella semplicità, quell’immediatezza, quello sguardo impreciso e quelle pause sofferte, a bucare, a trapanare lo schermo. Davvero un peccato, negarle il premio Mastroianni.


"Un poema allo stesso tempo socialista e anarco individualista: per questo magico."
manu, Seconda Visione

La cura del gorilla
di Carlo Arturo Sigon, 2006

Il primo lungometraggio di Sigon, tratto dal romanzo di Sandrone Dazieri, è quello che mio padre definirebbe, con una locuzione da lui spesso utilizzata, un "vorrei ma non posso", traslata da me più frequentemente nel ben più divertente e ggiovane termine wannabe.

Insomma, La cura del gorilla è il wannabe di ciò che Arrivederci amore, ciao è la risoluzione, ovvero di un’applicazione dei meccanismi di genere presenti (anzi, eccedenti) nella buona letteratura contemporanea nel nostro paese, in autori come – appunto – Dazieri e Carlotto, ma anche Genna e Pinketts, alle formule del cinema italiano. La cura del gorilla è un wannabe cinema di genere, ma riesce ad essere a malapena cinema.

Non che non ce la metta tutta, anzi: ma cercando in tutti i modi di trasformare Claudio Bisio – attore teatricamente eccellente, Zelig permettendo – in una faccia da cinema, e non riuscendoci del tutto (anche a causa di una tremenda e interminabile voce off, evidentemente fasulla e forzata come spesso accade), a partire dal cast (ancora Catania sopra le righe?) e finendo ai dialoghi, lascia tutto intorno la brutta sensazione di un film ancora incollato alle pieghe più bieche del salvatoressismo d’accatto, dai rimandi visivi, alle ambizioni di Nirvana, alle tentazioni televisive, a Gigio Alberti eterno fattone che si fa le canne.

C’è sicuramente di peggio in Italia, e La cura del gorilla è più fastidiosetto che davvero brutto, perché almeno – lo si ripete – Sigon per primo ce la mette tutta, aggirando la sceneggiatura intricata e i pessimi dialoghi, e azzeccando a tratti qualche atmosfera, un buon incipit sanguinario, e poco altro. Appunto.

Straordinario però Bebo Storti nella parte del detective dalla scorza dura e dal cuore morbido, mentre Stefania Rocca è un’attrice da teatrino del liceo, (inascoltabile e) inguardabile. Una wannabe attrice.

Arrivederci amore, ciao
di Michele Soavi, 2006

Non si può dire che io sia un grandissimo ammiratore di Michele Soavi, regista cresciuto sotto l’egida di Dario Argento e responsabile di certe innominabili brutture, né che io lo conosca tanto bene da scrivere una frase simile: fatto sta che il suo ultimo film si è rivelato invece come il miglior film italiano di genere che potessimo chiedere in una stagione, anzi in un periodo, in cui tale simil-categoria viene quasi del tutto a mancare, e se ne sente la mancanza.

Arrivederci amore, ciao è un film che ha delle evidenti pecche, non si può negare: manca di compattezza, è talvolta inconcludente anche perché calca la mano in modo ingenuo sulle forme dell’adattamento letterario (la voce off, la tendenza all’episodico), alcuni personaggi vivono solo in funzione del protagonista, e via dicendo. Chi ha pregiudizi nei confronti del cinema italiano potrebbe paradossalmente nemmeno gradire il tentativo di allontanarcisi. Ciò nonostante, non si può negare che sia un film che porta a termine tutti i suoi scopi, e che colpisce duramente nel segno. Un gran bel film girato buttando sullo schermo il cuore, il fegato, e tutti gli organi interni.

Legato com’è a doppia corda – ovviamente – al cinema di genere degli anni 70, non ci si appoggia parassiticamente, cerca anzi di reinventarsi e di scavare in profondità nella psiche del suo protagonista (un Alessio Boni fieramente bergamasco e fieramente figlio di troia), parlando sì della morte degli ideali e del cinismo della contemporaneità, ma non esagerando con le riflessioni storico-politiche (ma il telegiornale che dice "I magistrati sono matti, ha dichiarato (…)" è una mezzo dichiarazione d’intenti), lasciate in secondo piano rispetto al piacere della visione.

Con grande talento, quindi, arriva a stupire per gestione del racconto, direzione degli attori (Placido at his best), cura scenografica, invenzione registica (uso e abuso di soggettive e grandangoloni), e regala emozioni forti e insospettabilmente crudeli, grazie anche alla colonna sonora facilotta (tutti pezzi storici, con Insieme a te non ci sto più della Caselli a fare da collante) ma irresistibile. E nonostante un certo calo di interesse nella seconda parte centrale (dopo l’arrivo di Giorgio nel nord-est), ha un incipit davvero geniale (la soggettiva di un coccodrillo morto, il doppio pollice, un’esecuzione vigliacca) e soprattutto un finale di una cupezza e di una cattiveria incredibili.

Un film deliziosamente imperfetto, ma preziosissimo per il cinema italiano. E’ un peccato che parte della critica e del pubblico, tra cui forse qualcuno che chiedeva a gran voce da tempo un film di genere del genere, abbia storto il naso scambiandolo per un prodotto televisivo, probabilmente consultando i credits e poi andando a mangiare un gelato. No signori, sui generis, ma questo è proprio cinema.

[il cinema ritrovato XX]

[Day One: 01/07/2006]

Omaggio a Vincente Minnelli
BRIGADOON (USA/1954)
R.: Vincente Minnelli. Int.: Gene Kelly, Cyd Charisse. D.: 108’. V. inglese.

Nell’ambito della solita rassegna del "cinema più grande della vita" (formati audio magnetici e cinemascope restituiti alla bellezza originale), quest’anno il Cinema Ritrovato propone una imperdibile selezione-omaggio al grande cinema di Vincente Minnelli. Difficile iniziare in modo migliore: Brigadoon, meno conosciuto di altri film del regista di Chicago, è un musical appassionante e romantico che oppone dicotomie elementari (sogno e realtà, tempo immobile e tempo della vita), ma lo fa con la solita splendida magniloquenza, con colorate fantasmagorie, e ovviamente la faccia da schiaffi e i piedi volanti di Gene Kelly, con i paesaggi della Scozia "belli proprio perché finti". Interessante la lettura proposta da Franco La Polla nella presenzazione (un po’ risaputa, ma queste cose La Polla le mastica, si sa) che vede nell’amore di Tommy verso il paese fantasma di Brigadoon una metafora della cinefilia, e de trionfo del sogno del cinema sul grigiore della realtà. Preziosissimo l’apporto, prima comico e poi drammatico, di Van Johnson.

Ritratto di un artista eclettico, Alberto Lattuada
LA NOSTRA GUERRA (Italia/1945)
R.: Alberto Lattuada. D.: 16’. V. italiana
IL BANDITO (Italia/1946)
R.: Alberto Lattuada. Int.: Anna Magnani, Amedeo Nazzari, Carla Del Poggio. D.: 87’. V. italiana
Presenta Tatti Sanguineti

L’omaggio al regista scomparso durante la scorsa edizione del Cinema Ritrovato inizia con la proiezione del suo terzo film, uscito subito dopo la seconda guerra mondiale. Il film è un melodramma postbellico ambientato in una Torino inquietante e distrutta dalle bombe, che si trasforma gradualmente in un vero gangster-movie. Soprattutto per chi conosce poco il primo Lattuada, come fu una sorpresa Giacomo l’idealista proiettato a Venezia, anche Il bandito lo è altrettanto, e ancora di più: pur fortemente influenzato dal neorealismo, è un vero film di genere, e durissimo, drammatico, violento, struggente. Stupefacente.
La nostra guerra è un breve documentario sulla storia militare dell’alleanza nei due anni successivi all’armistizio, interessante più per le immagini di repertorio che per altro. Ma è molto stimolante lo sguardo dell’incipit gettato sulla gente che accoglie da un altroparlante la notizia dell’armistizio.

Enzo, domani a Palermo!
di Daniele Ciprì e Franco Maresco, 1999

Nel nostro paese non possono esistere, o meglio, non possono sopravvivere due autori come Ciprì e Maresco. Perché sono troppo intelligenti, sagaci, crudeli. I loro film da sempre vengono osannati da chi li guarda e disprezzati da chi li evita. Come i contrasti forti del loro bianco e nero, non ci sono vie di mezzo. Gente così la puoi solo amare, o volerla morta. E come il cinema di Ciprì e Maresco è un dono prezioso, così è un cinema che un pubblico che basa la propria idea di informazione culturale sui servizi lampo dei TG nazionali non potrà mai apprezzare. Perché non potrà mai vederlo.

Enzo, domani a Palermo! non fa ovviamente eccezione. Un documentario inaudito e geniale, ribaltato nella forma e nelle intenzioni, sperimentale nel ritmo e nel montaggio, un film "cinico", in tutti i sensi, perché anche Enzo Castagna, pilastro di una sorta di film commission palermitana casalinga e probabilmente collusa con la mafia, è trasformato dai due registi – insieme all’incredibile collaboratore e "attore" Saverio D’Amico – in uno dei loro "mostri", sbeffeggiato e coccolato al tempo stesso, come tutto il mondo di sussurri e grida che monta il palco sotto il suo balcone e canta per lui.

Il film, sotto sotto (ma nemmeno troppo) non è certo uno scherzo. Attraverso lunghe sequenze in cui sono solo i volti e i gesti a parlare per sé, "raccontati" da un onnipresente Dean Martin di sottofondo e da una bellissima fotografia fatta di naturalezze distorte e focali cortissime, quasi dimenticando Enzo Castagna e quella città aliena che è Palermo e che gli gira intorno, analizza e disseziona i meccanismi di una cultura "di strada", ma senza nemmeno il bisogno – e qui scatta il genio – di commentarla.

Per tempi comici (inconsci) la sequenza interminabile in cui Enzo cerca inutilmente di pronunciare le parole Canterbury e Pasolini è tra le cose più divertenti che vi possa capitare di vedere.

Tra gli illustri estimatori di questo piccolo grande film, Diderot ("uno dei vertici del loro filmografia, forse il loro capolavoro e di conseguenza il miglior film italiano degli anni ’90.") e ovviamente dm di Escualotis ("capolavoro assoluto della cinematografia italiana"), la cui segnalazione della versione scaricabile di Guardabassi e le cui continue e graditissime insistenze, mi hanno permesso di vederlo. Grazie.

[biografilm festival 2006]

Incontro con Moira Orfei e proiezione del film
Moira Orfei. Amore e fiori (Italia/2005)
di Carlo Bevilacqua e Francesco Di Loreto (60′)

Vabbè, è chiaro che non mi aspettavo chissa cosa dal documentario-intervista alla moirona, però c’è un limite a tutto. Devo ammettere una cosa: che quando la moirona è in campo, non c’è più un cazzo che tenga, non ce n’è più per nessuno: questa donna avrà un miliardo di anni e le rughe tirate a metà schiena, ma ha uno charme ipnotico, rassicurante e inquietante al tempo stesso. Come se tutto d’un tratto la tua nonnina si fosse traformata in un personaggio di un film di John Waters. Grasse, grassissime risate: come fai a resistere a una che ti racconta che una volta sul set di un peplum rivoltò di schiaffi Jayne Mansfield perché faceva la sciantosa, aggiungendoci anche qualche uovo in testa? Grande, grandissima Moirona. Il film però è davvero indifendibile, prima di tutto per i tempi di lavorazione (tre anni per questa roba?) e poi perché è insopportabilmente autocompiacente, come se fosse un film su se stesso e non sulla meravigliosa moirona. Poi, per cosa, per quattro trovatelle gagliarde, tre animali in croca, e quattro tizi che saltano? Bello il circo, sì, ma che due palle.

Anche libero va bene
di Kim Rossi Stuart, 2006

Una delle cose più interessanti del primo film da regista di uno dei più dotati attori italiani è, paradossalmente, proprio la sua "assenza", interessato com’è, come autore, più alle dinamiche interne dei personaggi che non a farsi bello di fronte ai suoi spettatori. E così, nonostante dimostri in qualche occasione che dietro la macchina da presa ci sa fare davvero (Tommi che sogna il macabro stupro di sua madre, la soggettiva durante la gara di nuoto), Rossi Stuart si tiene più che altro in disparte e lascia che siano i suoi personaggi a parlare, attraverso i loro gli sguardi e le loro interazioni. Un film quindi che sconta un’evidente povertà dal punto di vista visivo, almeno rispetto alle – poche – cose migliori prodotte in Italia negli ultimi anni, ma è un difetto che seppur molto limitante si può mettere da parte se si guarda al piglio (neo?)realistico e maturo con cui, coraggiosamente, il 37enne attore romano ha deciso di raccontare la sua storia.

Una storia familiare ma non patetica, anche perché rifugge le scene-madri e i turning point, una storia "normale" di un figlio costretto a subire e a condividere precocemente le responsabilità dei genitori, costruita su pochissimi elementi eppure in grado di emozionare con facilità, che trova nel piccolo Alessandro Morace un attore spontaneo e miracolosamente talentuoso, capace di tenere in piedi il film da solo anche quando condivide il campo con i due bravissimi adulti, la Bobulova e il regista stesso. Difficile rilasciare il respiro durante quei pugni contro l’armadio, bestemmiando il cielo, e impossibile trattenere le lacrime in quell’abbraccio finale. Niente male davvero.

Questo film ha sollevato dentro me una sequela di rimandi inconsci e di identificazioni consce tale che mi è impossibile essere oggettivo e/o professionale nei suoi confronti, tanto che – suppongo – il film in sè è forse meno bello di come lo dipingo. Beh, meno male che non mi pagano.

H2Odio (Hate 2 O)
di Alex Infascelli, 2006

Del terzo film di Alex Infascelli si sta sentendo parlare tanto, in questi giorni. Cosa apparentemente bizzarra ma abbastanza consueta nel nostro paese, non se ne parla per la sua qualità ma solo per una curiosa caratteristica produttivo/distributiva: pur essendo diretto da un affermato – per quanto spesso criticato – regista "di sala", H2Odio non è uscito al cinema, ma direttamente in DVD. E tanto per far imbestialire i puristi, nemmeno nei circuiti delle videoteche ma in quelle delle edicole.

Sarebbero molti i discorsi da fare a riguardo, che meriterebbero però uno spazio più ampio e apposito: brevemente, non vedo nulla di strano nell’operazione, che artisticamente ben si appaia alle smanie artistoidi-videoclippiche del film, e che commercialmente va enormemente a vantaggio della produzione (il caso Natale a casa Deejay è un esempio lampante) rispetto a un mercato che non possiede le doti di domanda per avere spazio per un film del genere. Insomma, terminologia spicciola, in sala non se lo sarebbe "cagato" nessuno, quindi è del tutto comprensibile che si sia scelta una strada simile – che contiene al suo interno (esce con La Repubblica e L’epresso) la sua stessa promozione, peraltro imponente e senza prezzo. Senza contare il passaparola, e le critiche pregiudiziali. Dal momento che ho avuto l’occasione di vedere il film, preferisco però parlare, appunto, del film. Perché l’ho visto.

Parliamo del film, allora. Infascelli mette in scena una specie pentolone ossessivo in cui cuociono le ossessioni macabre di Hanging Rock, l’alone di cult forzato di Blair witch project, riferimenti atmosferici al cinema italiano di genere dei tempi che furono, e via andare. Il problema è che l’amalgama degli elementi, oltre a non essere molto riuscita, non è nemmeno particolarmente ricca: dopo 10 minuti si è capito il concetto, dopo 40 minuti lo svolgimento, quindi l’interesse finisce e ci si ritrova a darsi forti manate sulle ginocchia e sulla fronte, sperando che le cinque insopportabili protagoniste schiattino in fretta. Che s’aveva di meglio da fare, in serata. Grazie al cielo dura meno di un’ora e mezza.

Bruttarello quindi, quando non fastidioso, quando non disdicevole. La storia delle cinque ragazze che decidono di darsi all’idrofagia esclusiva per una settimana, senza le personalità "forti" (Lucarelli e Ammaniti) che rendevano parzialmente interessanti – soprattutto il secondo – i due modesti film precedenti di Infascelli, sfoggia qui dei dialoghi che sembrano usciti da un blog. Un brutto blog in vena di sentenze, come si addice alla smemo generation. Dialogo su Winnie Pooh mielomane compreso. Tra critica asciugatissima alla società dell’apparire, interminabili sequenze cripto-sperimentali con molteplici e fastidiosi effetti-nakata, e la misoginia più impietosa ma attecchita dal ridicolo patologismo del finale, di questi tempi H2O potrebbe persino davvero diventare un cult. Ma a questo punto – lo dico provocatoriamente – era meglio il film di Radio Deejay.

Aggiungono carne al fuoco una serie di elementi degni della miglior "Yeuch parade" di Ciak, a partire da Platinette, che svestiti i suoi pannoni femminili ci regala in un flashback un imbarazzante scult-cameo, passando per il bacio lesbo/incestuoso sotto una pioggia di sangue e per il dente tirato fuori dalla spalla con le forbicine e le dita, epitome della paranoia masturbatoria, per finire a Mandala Tayde che sbava e vomita ruzzolando nel bosco urlando "Fuck!". Poi, il film (chissà perché diavolo) è recitato in inglese, peraltro maluccio, ma è doppiato in italiano. Dalle stesse attrici. Nel modo più svogliato possibile.

Tra le poche soddisfazioni, quella di vedere le cinque tremebonde scendere all’inferno in una sorta di Cabin Fever de noantri, sempre più magre e smunte, imbruttite e tristi, con la faccia maciullata o con le labbra strappate a morsi, in un massacro quasi-gore (perché non si ha nemmeno il coraggio di essere sanamente sanguinolenti) che è secondo solo al massacro che il film stesso ha causato nei nervi dello spettatore. E nell’accezione peggiore del termine "nervi".

Se non siete riusciti ad arrivare alla fine, vi capisco. Se mi scrivete, vi racconto volentieri il finale. Tanto è una cazzata.

Il regista di matrimoni
di Marco Bellocchio, 2006

Proseguendo in modo preciso sui percorsi già intrapresi nel meraviglioso L’ora di religione, ma facendo tesoro anche dell’esperienza più onirista del bellissimo Buongiorno notte, Bellocchio sforna un’altra opera estremamente preziosa nel rinsecchito panorama del cinema italiano, che segna un ulteriore e coerente passo sulla strada recente del regista de I pugni in tasca. Mantenendo forse questa volta toni più leggeri, nonostante l’inquietudine generale, perché Il regista di matrimoni è alla fine anche uno scherzo, ovviamente ben congegnato, che si sporca le mani persino con meccanismi narrativi derivati dal giallo. Ciò nonostante, le tematiche hanno anche in questo caso una forte valenza politica.

I temi sono simili a quelli del film del 2002 (l’arte e la vita, la morte e il sacro) e vengono affrontati sia con le armi della metafora e del sogno, in una Cefalù sonnacchiosa ma piena di occhi – vero luogo della mente e allo stesso tempo personaggio attivo – sia attraverso urla che esplicitano perché non possono più rimanere in silenzio (il monologo da brividi di Smamma sulla spiaggia) la protesta di un artista sullo status quo dei rapporti di potere nel nostro paese (ma non solo). Il regista di matrimoni è infatti soprattutto un film sul potere, discorso che si intreccia abilmente con gli altri – più "metafisici", a modo loro – nel raccontare la storia di un artista doppiamente ingannato, e di un amore che è sovvertimento di tradizioni – l’Innominato che fugge con Lucia, nel sogno/desiderio di Bona – ma non solo. In nome di un’ultima speranza, quell’amore che secondo Smamma non esiste più o non è mai esistito? O forse solo il capriccio di un potente, la sua rivincita interessata su un’arte defunta per via della sua stessa ingenuità? In un mondo in cui i morti comandano, l’artista è l’ultimo degli sciocchi.

Un film che se non eccelle da un punto di vista figurativo quanto i precedenti, si rivela però straordinario nel modo in cui si immerge nel buio siciliano e nei contrasti con la luce, sempre pronto ad uscire dal velo della notte se stemperato dallo sguardo ironico di Castellitto – che non è mai così bravo come quando viene diretto da Bellocchio. Molto complesso invece da un punto di vista linguistico, per la ricchezza di debrayage e quindi di altrettanti "occhi vedenti" all’interno della narrazione, ma nonostante questa scelta Bellocchio non abdica mai a teorismi di sorta, regalando al contrario – una volta compresi i meccanismi, non semplicissimi – un’esperienza più gastrica che non cerebrale, più angosciante che non intellettuale, che se non è all’altezza degli ultimi due lavori del regista piacentino, è sicuramente – già per l’indole, ma anche per i risultati – un gradino sopra quasi tutto il cinema italiano degli ultim(issim)i tempi.

Contrasto dei contrasti, i titoli di coda sono assolutamente da fischiettare (Mariangela Melato, "Sola me ne vo per la città"), magari con impresso ancora in mente quella conclusione beffarda e bizzarra, e quel geniale "falso controcampo" finale. Quei due sorrisi che si incontrano. Così lontani e così vicini?


Update: se avete apprezzato la suddetta canzone nella versione della Melato, adorerete la versione di Nella Colombo (1945).
Cliccate qui, e alzate le casse.

Il caimano
di Nanni Moretti, 2006

Avvertimento: se Il caimano parla – ma davvero? – dell’impossibilità di fare un film su Berlusconi, allora questo post parla dell’impossibilità di fare un post su Il Caimano.

Perché dopo una settimana di tale invasione mediatica (che solitamente sarebbe ben accetta, ma non quando si mescolano stupidamente terreni incompatibili), è difficile dire qualcosa di nuovo o qualcosa di sensato toccando territori che non siano già stati arati in abbondanza. A volte da penne più capaci, a volte inette e non richieste. Perché esce Il caimano e diventano tutti critici cinematografici, e tra di loro – come sempre – sono molti a giudicare il film senza vederlo. Si spendono tutte queste parole, e a uno che arriva a scriverne una settimana dopo che ne hanno scritto tutto gli altri, cosa resta se non prendere una posizione? Niente. E possibilmente, chiara.

Ebbene, solo questo mi rimane da fare, aggiungermi al coro (un coretto, a dirla tutta) di quelli che hanno amato Il Caimano. Quelli che l’hanno trovato una summa irresistibilmente bizzarra e straordinariamente irrisolta delle tre anime (il privato, il pubblico, il cinema) del suo cinema, soprattutto dell’ultimo suo cinema. Quelli che l’hanno trovato un film forse di transizione – o di passaggio – ma quasi miracoloso nel suo equilibrio, ma quasi sperimentale nel suo squilibrio. Quelli che hanno riso come matti e poi si sono spaventati come matti. Quelli che hanno pensato che Damien Rice non è Brian Eno*, ma che va bene lo stesso. Quelli che hanno trovato piacevole sia la morettianità di certi passaggi (soprattutto della sceneggiatura) sia il distacco di una regia che incespica un po’ (forse è vero che in mezzo a tutto questo cinema manca un po’ il cinema), ma che porta avanti il film con le unghie. Graffiando e mordendo.

Piaccia o no, Il caimano è un film che non si dimentica, che richiede un occhio attento e avulso dai preconcetti. E’ un film fondamentalmente intimista, perché parla di un personaggio, e insieme un film profondamente politico perché parla della nostra società. Non della decadenza dei valori nell’era berlusconiana, come si legge sovente, ma di un posto-nel-mondo squallido contro cui la bontà e la semplicità di certe immagini e frasi, metafore cristalline, è forse l’unico antidoto. O forse, o forse anche, l’antidoto è riscoprire quella stessa valenza politica del cinema (nel cinema), in modo da contrastare con il proprio sguardo il dilagante e tristo opportunismo in cui annegano gli ideali. Gli ideali non sono mai passeggiate.

Ma in fondo Il caimano è la storia di un piccolo uomo, e non dimentichiamoci degli aspetti che tutti tralasciano, del film di Moretti. Un film di una complessità progettuale e scenica quasi imbarazzante. Un film interpretato splendidamente (la scena nel campo di calcetto: ve la sognavate più una Buy così?). Un film italiano che sa far riflettere e scioccare, ridere, vergognarsi, disperare. Un film con un finale – e non solo – terrificante, intenso, unico. Un film bellissimo.

[e il tutto girerà pure intorno all'uomo-rettile e alle sue quattro facce, ma brilla di luce propria, e assolutamente a prescindere da lui. Per fortuna]

*nota: a me Damien Rice piace molto. Ma non è Brian Eno.

E tu vivrai nel terrore – L’aldilà
di Lucio Fulci, 1981

Basta leggere un po’ in giro per il web (e non solo) per accorgersi che L’aldilà è probabilmente l’horror più amato dai fan di Fulci. E non solo. Perché è vero che, un quarto di secolo dopo, gli splendidi pupazzi di Germano Natali hanno fatto il loro tempo, così come la base narrativa e iconografica del film. Ma è vero anche che L’aldilà è un film che mostra una libertà espressiva e una spregiudicatezza rappresentativa che ai nostri tempi sarebbero impensabili.

Così il film non è solo capace di finezze visionarie come la splendida scena dell’autostrada deserta, o la fuga – e la morte – di Emily, o il finale mefitico e sospeso nella nebbia, che sono poi le cifre che si contano per elevare questo film sopra la media del suo genere. La sua forza è anche la visione della morte, che viene portata sempre un passo più in là di quanto sia usuale, o sopportabile. Artigiano dal talento sintomatico, Fulci trasporta sullo schermo un vero inferno di sangue, carne e liquidi corporei, inserito che sia nel biancore di una sala obituaria oppure nei sotterranei melmosi di un albergo in rovina. Ed è difficile non distogliere lo sguardo, in alcuni punti.

Il suo esempio, quando è stato seguito, è stato spesso banalizzato, creando molto brutto horror anni ’80. Qui era invece corrosivo e potente, come la lisciva che scioglie i corpi lasciando solo un rimasuglio quasi umano, pronto per l’eterno dolore. Un film che pur mostrando i suoi molti limiti (e non è questione d’età), lo fa con una sincerità e una schiettezza che manca al cinema di genere (non solo italiano, che non esiste quasi più) da troppi anni, e che provoca persino stupore.

Cinzia Monreale con gli occhi bianchi è una presenza orrorifica quasi fatata, ma il meglio lo danno i famelici ragni che si mangiano, non senza una discreta avidità, il faccione di Michele Mirabella.

Masters of horror, #1.04
Jenifer
di Dario Argento, 2005

Jenifer con-una-n-sola è una ragazza muta, dotata di un bel corpicino ma dal volto sfigurato, salvata dalla morte da un poliziotto che per difenderla dall’incomprensione della società baratterà la sua vita normale con i furiosi rapporti sessuali che Jenifer ama donargli per riconoscenza, non avvedendosi dei particolari gusti della ragazza in campo culinario. Finalmente arriva l’episodio del nostro Dario Argento, uno che continua curiosamente ad essere definito "il re dell’incubo" nonostante non azzecchi un film da vent’anni in pacca.

Il suo Jenifer merita una dovuta distinzione: se infatti il film non è eccezionale, è comunque meglio di quanto Argento ci propini da anni in patria. Il film riesce a non sollevare alcuno degli interessanti interrogativi che un plot del genere avrebbe stimolato, e la butta più che altro sulla carnazza e sulle budella. Però ha un inizio davvero bellissimo (la mosca in macchina, più che un presagio), e soprattutto quanto segue: 1 gatto sbudellato, 1 bimba asiatica divorata (dopo un incontro di apparente tenerezza nel giardino, ovvia citazione di Frankenstein), 1 povero adolescente che riceve un pompino cannibale, 1 viso orrendamente makeuppato sbattutaci di continuo in faccia.

Il problema è che sembra tutto vecchio di vent’anni. a partire dalla faccia fuori dal tempo di Steven Weber, spaesato nonostante abbia scritto la sceneggiatura, senza contare l’atmosfera, la fotografia becera, cose così. Deliziosamente simonettiane le musiche di Simonetti: il tema è perfetto per una suoneria del cellulare. Finale ovvio fin dal primo minuto, ma d’altronde come potrebbe finire? Bah.

[meanwhile]

I Pinguini e Melissa, Fargo-bis e Niccol-speriamo-bene, Herzog e Sokurov per i duri-e-puri: in mezzo a una montagna di roba, esce domani nelle nostre sale anche l’ultimo film del newyorkese Abel Ferrara, coprodotto con capitali italiani e francesi. Si intitola Mary.

Il film è passato a Venezia, dove ho avuto l’occasione di vederlo, e da dove si è portato a casina il Gran Premio della Giuria. Strano: Mary è un pastrocchio confuso e irritante, affascinante per alcuni versi, ma tutto sommato una delle opere più irrisolte di Ferrara. Ripensando a film come Ms.45, Fratelli o The addiction, e nonostante non si arrivi al baratro di New rose hotel o Blackout, non posso che sconsigliarvelo. Se proprio dovete, confido per voi nella soggettività dei miei gusti.

In ogni caso, il mio breve post è qui, su Lidobloggers.

[milestones]

La tigre e la neve
di Roberto Benigni, 2005

A scanso di equivoci: ve lo dice uno di quelli (metà del mondo) che ha adorato La vita è bella, e che nonostante l’orripilante Pinocchio ancora ci sperava. E invece l’ultimo film di Benigni è una costosetta fregatura, e una delusione ancora maggiore se si pensa che era un esercizio molto più alla portata dell’autore toscano, rispetto al film del 2002.

Non che La tigre e la neve non offra degli spunti interessanti, non che non ci siano sequenze riuscite (canguro e cammello; non mi viene in mente altro), non che non ci sia l’impressione che Benigni sappia cosa sta facendo: lo dimostra il ritorno a Roma del finale, che è davvero molto bello, con una gradita sorpresa, i pezzi che si rimettono a posto e una secca e bella inquadratura finale – in contrasto rispetto a certi eccessi visti nelle due – lunghissime – ore precedenti. Un finale che risolleva molto il film, non è da tutti ma non è abbastanza (la chiusa gli era venuta bene persino nel disastro collodiano).

Il problema è un altro, è che un filmetto così è inaccettabile, dopo i film che tutti conosciamo. Un filmetto, lo ribadisco, che non fa ridere e non commuove, realizzato con troppa passione e poca serietà, tiepidino e sostanzialmente inutile. Benigni poi non fa altro che strillare e protendere le mani in avanti, Jean Reno ha le battute migliori ma è imbarazza(nte)(to), e la Braschi recita come se leggesse gli Atti degli Apostoli a messa. Tutta la parte in cui Benigni sostiene in vita la sua amata comatosa nell’ospedale, in mezzo alle bombe che cadono è di una noia mortale.

Oltre che ambiguo: inganni la Croce Rossa per vedere la tua metà mezza morta? Rompi il cazzo ad un povero, povero, povero medico irakeno per salvare solo e solo lei (la beneficenza ovviamente arriva, ma sarà detraibile…)? Rubi le scarpe al souk perché ti si sono rotte le tue e sei senza un euro? Ma scherziamo? Ti barcameni per cercare le bombole da sub per comesichiama mentre la gente muore sotto le esplosioni? E di chi sono quelle bombe? Non saranno di quei ragazzi simpatici ma un po’ nervosi che ti fermano alla frontiera?

Con un egocentrismo che sfiora il delirio d’onnipotenza, il film si autodichiara inno alla poesia. Ma le ferite del presente cauterizzate da quattro sciocchi versi (due rime non fanno una quartina, mister Benigni) non sono argomenti che amiamo sentire da uno che un tempo ideava, graffiava, scioccava e proprio per questo era amato. Ora vive di rendita sul proprio talento assopito, ossessionato da una donna fragile ma poco interessante, e sembra si sia seriamente rincoglionito. Forse dobbiamo dare la colpa a lei?

E poi, chi gliele sceglie quello schifo di locandine?