Italia

Gli orrori del castello di Norimberga
di Mario Bava, 1972

Baron blood, come lo chiamano gli anglofoni, è un film che rappresenta il conflitto tra l’architettura irrazionale del gotico, che comprende la magia, la stregoneria, l’immortalità, e il mondo contemporaneo che crede di poter schiacciare tutto ciò con il gioco della scienza.

Nulla di particolarmente nuovo, insomma, e inutile cercare la magia de La maschera del diavolo. Le orribili musichette lounge di Stelvio Cipriani non aiutano a creare l’atmosfera, almeno nella prima parte. Però Bava si dimostra ancora un grande regista, preciso ed eccellente, capace di magie con la macchina da presa e di un approccio sincero e mai kitsch (anche se l’evocazione della strega lo sfiora).

E nella seconda parte, all’altezza del talento di Bava, ci sono davvero molti spaventi (grazie alla paurosità atavica del barone col cappellaccio nero), e tra le molte sequenze bellissime, almeno due straordinarie: quella dell’inseguimento al "gatto e topo" tra le vie illuminate da fasci di luce colorata, e l’incontro fiabesco nel bosco tra il "mostro" e la piccola Nicoletta Elmi.

Private
di Saverio Costanzo, 2004

Il 2005 del cinema italiano si apre con i migliori auspici: Private, Pardo d’oro all’ultimo Festival di Locarno, è un film importante, necessario, prezioso.

Una casa divisa tra i palestinesi che ci vivono e i militari israeliani che la occupano diventa metafora dell’intero conflitto mediorientale, ma anche rappresentazione organica delle reazioni all’occupazione: la reazione violenta, la disperazione, la curiosità, la non accettazione, la voglia di fuggire, la resistenza passiva. Lo sguardo in cui Costanzo si immedesima è quello del padre, il bravissimo Mohammad Bakri, che decide di rimanere nella casa ed affrontare passivamente. Per salvaguardare la propria casa, che è la propria dignità. Perché senza un luogo dove stare, senza la propria personalità, si smette di esistere.

Si è schierati, perché non si può non esserlo, contro l’occupazione: ma lo sguardo di Costanzo è pieno di rispetto e partecipazione per tutti i suoi personaggi, anche per i gesti più estremi, portati dalla paura: i due figli, rischiando la vita di chi amano, capiscono l’inutilità e il pericolo di una reazione violenta.

Attaccato ai loro volti e ai loro gesti, Costanzo ha anche la capacità di chiamarsi fuori lasciando la realtà venir fuori da sè, scaturire miracolosamente dai dialoghi e dai momenti pieni di tensione, dai rapporti familiari e da quello strano rapporto di non-comunicazione che forse permetterà a tutti di salvare le proprie vite e, ancora, la propria dignità.

Ma oltre a una metonimia, il film (come dice il titolo stesso) parla anche di un’intrusione nel privato, e se il taglio è documentaristico e apparentemente casuale, sono sfruttati molti meccanismi del cinema di finzione. Azzeccate quindi le semplci ma efficaci musiche degli Alter Ego, e la suspense (vista la veridicità estrema della vicenda) porta un impatto emotivo fortissimo ed estremo, che scuote e commuove con irruenza, irrompe nello stomaco e nel cuore, e non può non aiutare riflettere.

Private è un film di cui si sentiva la mancanza. Ora c’è, ed è italiano.

In sala, presenti tra gli altri il regista e l’attore principale. Costanzo è un ragazzo visibilmente sensibile e arguto, ma Bakri gli ha "rubato la scena": con fascino e ironia, e poche parole, ha mostrato una condizione, una via, un modo per sopravvivere e sperare. Con intelligenza: se ci capissimo, potremmo accettarci e smettere di avere paura l’uno dell’altro.

Nota importante: la versione che ho visto è quella originale. Nella versione distribuita in Italia l’arabo è sostituito dall’italiano. Il mio consiglio è: se possibile, guardate la versione originale (ce ne sono in giro alcune copie).

La maschera del demonio
di Mario Bava, 1960

Non sono (per ora!) riuscito ad acquistare il favoloso dvd della RHV, e quindi ho dovuto ripiegare su una VHS, tutto sommato dignitosa, piovutami come al solito in mano. Ma che meraviglia: lo compro lo stesso, mi sa.

Il primo film di Bava è forse storicamente il suo più importante, perché diede vita a un intero ciclo e ad un modo nuovo di fare cinema di genere, e fu adorato un po’ ovunque nel mondo. E secondo molti, resta il suo film migliore. Forse hanno ragione: l’archetipo del "gotico italiano" è davvero uno splendore, magico come un fiaba e terribile come un horror, e per nulla invecchiato.

Quello che strabilia davvero, oltre alla fotografia dello stesso Bava, tra i migliori bianco/nero di un ventennio di cinema, è la regia virtuosistica e creativa, che non bada troppo a viziosi stilemi, e regala pezzi di bravura che lasciano ancora senza fiato. I back travelling della bimba nel bosco, il "vortice" della mdp alla scoperta del volto del padre, alcuni piani lunghissimi e complessi, l’apparizione al ralenti del cocchio che attraversa le luci del bosco, la scena (che ho divorato più e più volte) della sala del pianoforte.

E poi l’horror, inquietante oggi, scioccante se si pensa all’anno e al contesto culturale. Forse per questo da noi è stato messo da parte: un film che inizia e finisce con la pelle che brucia, e che mostra molto (i trucchi efficacissimi dello stesso Bava) lasciando comunque al fuoricampo la parte più influente dell’angoscia che si respira.

Belle le musiche di Nicolosi. E si capisce perché la Steele grazie a questo film è diventata un simbolo e la "regina dell’horror": affascinante, terrificante, mai così bella. Anche pittoricamente: i "ritratti" che Bava fa all’inizio ai suoi due personaggi (il primo sul rogo, il secondo con i cani e la luce che le illumina gli occhi) sono di uno splendore indimenticabile.

Una meraviglia: capolavoro da recuperare (e conservare) a tutti i costi.

La mala ordina
di Fernando Di Leo, 1972

Dopo Milano calibro 9, un’altra storia di onore, di lealtà di tradimento e di vendetta. Il film non ha forse la grandezza del suo predecessore (uscito pochi mesi prima), ma la parabola del magnaccia dal cuore buono che compie un massacro di vendetta e autoconservazione convince appieno nel suo crescendo di violenza.

Magari è più rozzo e violento, meno raffinato e più diretto, ma forse lo scavo dei personaggi è persino più riuscito, perché concentra tutto sul protagonista, sul suo dolore e sulla sua rabbia di uomo tradito. Merito anche della grandissima intensità di uno splendido Mario Adorf: interprete troppo spesso dimenticato.

Magnetica la presenza di Henry Silva e Woody Stroode, soprattutto il primo (bella la scena in cui si fa assalire dalle prostitute). Ma, come mi era stato predetto, Adorf e un Adolfo Celi di rara cattiveria rubano la scena alle due "star" d’oltreoceano. Anche se non c’è Bacalov, ottima la colonna sonora di Trovajoli.

Lo stile di Di Leo è ancora personalissimo, come nella scena quasi sperimentale del pestaggio sulle note di "Un’ora sola ti vorrei". E folgorante: il lunghissimo inseguimento con un Adorf imbestialito sul cofano di una macchina che spacca il parabrezza a testate è un gioiello dell’azione all’italiana (e non solo).

Evilenko

di David Grieco, 2004

Evilenko, tratto da una terribile storia vera e diretto con mano sicura dall’esordiente David Grieco, è un serial-thriller che segue una doppia linea i cui percorsi si incrociano: la schizofrenia omicida e cannibale di un singolo uomo diviene metafora di un mondo e di un pensiero, quello comunista (gli omicidi sono datati 1984-1989), che crolla trascinando con sè la psiche degli uomini russi.

Non si condanna fino in fondo un uomo malato, e c’è anche tempo per una chiara riflessione sul tema nel finale, e il manicheismo politico è tenuto a debita distanza: i comunisti non sono tutti mangiatori di bambini. Il film al di là di questo, segue in modo inquietante e intelligente il cammino di un uomo malefico e ipnotico, che lo trasforma in una sorta di orco cattivo terribilmente affascinante: il tremendo incipit è quasi "fiabesco", in cui Evilenko è una sorta di babau, simile al mostro della "Moglie di Frankenstein".

Spesso la fotografia non è all’altezza di una regia composta e corretta, anche nell’esibizione della violenza: mostrata, sì, ma con coscienza di causa. E purtroppo la discreta sceneggiatura a volte tende a sottovalutare lo spettatore, dal momento che la metafora storico-politica (di cui sopra) ci viene spiegata a parole chiare da uno degli interpreti.

Ma, esauriti questi (e altri) difetti formali e sostanziali, rimane l’impressione di un film onesto e coraggioso rispetto agli standard del cinema italiano, capace di riflessioni storiche non banali, con uno sguardo pessimista al presente europeo nell’idea dell’omicidio seriale come virus nascente. Malcom MacDowell non è stato così bravo dai tempi di Arancia meccanica. Purtroppo il resto del cast è da galera.

Link: Ne ha parlato anche l’amico rattaccio.

Milano calibro 9

di Fernando di Leo, 1972

Sono sempre l’ultimo a sapere le cose. O meglio, a riscoprire gli autori già riscoperti già da tutti quanti (come con Bava, e c’è stato anche da discutere). Mea culpa: sono giovane e impreparato, e ho bisogno di consigli. Moda? Una moda sul cinema di genere italiano c’è, eccome: ma forse preferisco i consigli. Come quelli di chi, a Venezia, nella retrospettiva che io ho perso per intero, si è innamorato dei film di Fernando di Leo.

Milano calibro 9 è un film stupefacente per come tratteggia personaggi e racconta le sue storie senza bisogno di parole (l’unica pecca è infatti quando eccede in parole), a partire da un gesto o da uno sguardo. In questo senso è davvero magistrale la sequenza iniziale prima dei titoli, quasi muta, con lo scambio di pacchi tra le vie di Milano. Gran merito va anche agli attori: primo tra tutti Gastone Moschin, immenso, e un Mario Adorf perfettamente sopra le righe.

Ma il cardine del film è la regia di Fernando di Leo, che su una partitura musicale indimenticabile (di Luis Bacalov), e con un talento registico impressionante (per la gestione dell’inquadratura, del montaggio, per la direzione degli attori), riesce a costruire un film con un’incredibile statura morale (e politica, a suo modo), spietato e brutale ma di innegabile robustezza, che lavora in modo molto maturo e consapevole sui materiali ridondanti e marginali (le attese, i silenzi, l’innecessario).

E di Leo ci consegna una visione noir del mondo, fatta di amarezza, malinconia, disillusione e utopia, che non ha davvero molto da invidiare al noir francese o americano. Il finale, che ovviamente non racconto, è pura tragedia: davvero splendido.

"Tu, quando vedi uno come Ugo Piazza, il cappello ti devi levare!"

Natale a casa deejay

di Lorenzo Bassano, 2004

La celebre milanese Radio Deejay, non nuova a simili iniziative editoriali (come non dimenticare il cd-rom Radionauta?), quest’anno se n’è venuta fuori con un dvd distribuito (massicciamente e con packaging elegante) nelle edicole di tutta Italia. Ma, al contrario di quanto si può pensare, non di video si tratta, ma proprio di film: è un vero e proprio lungometraggio, sia ovviamente per la durata (un’ora e venti circa), sia per le professionalità coinvolte (una vera regia, una vera colonna sonora, eccetera).

Il giovane regista, Lorenzo Bassano, viene dalla pubblicità e si vede tantissimo, diciamo anche troppo, come nei titoli di testa ipertrofici. Ma la goliardia del progetto sminuisce saggiamente la sua ambizione, come quando Linus, dopo un’epica prima apparizione al ralenti, dice: "basta ralenti!".

In alcuni momenti c’è meno ironia di quanto potrebbe esserci, e si ha l’impressione di uno scherzo preso un po’ troppo sul serio. Però è una sensazione di passaggio, visto il divertimento che tutti i personaggi hanno messo nel progetto (spesso apparizioni amichevoli: spassosa quella di Morandi), e alla fine è piacevole e ha persino una certa cura fotografica, nei costumi, nelle scenografie e nelle ambientazioni (è stato girato nei dintorni di Varese).

Inutile discutere di prove attoriali, perché i deejay non sono attori, e non gli si richiede nemmeno di esserlo: su alcuni stendiamo un sereno velo di affettuosa pietà. Altri invece ce la mettono davvero tutta, e a volte senza mostrare sforzi (come il Trio Medusa), mentre la svolazzante Platinette nel ruolo del fantasma-del-natale-presente è un’idea dicretamente visionaria. Dovrebbe trovare un suo John Waters, sarebbe una Divine divina.

Si intenda: non è mica vero cinema. E non c’è nemmeno niente di nuovo sotto il sole: la storia è quella dickensiana del "Canto di Natale", pari pari, anche se più vicina alla versione Disneyana che a quella letteraria. Ma, visto il progetto, mi aspettavo decisamente meno. Pensa te.

Certo, è un prodotto "dedicato" agli ascoltatori appassionati, e quindi è altamente autoreferenziale: è difficile divertirsi (credo) se non si è degli habitué della radio, mentre è facile farsi parecchie risate in caso contrario: le ragazzine che impazziscono per Fabio Volo (che non c’è), Giuseppe che sbraita in tedesco, Savino che fa Galeazzi, Bagatta che fa il padre di Linus. L’idea stessa del malefico direttore che costringe i suoi deejay a lavorare il giorno di natale è da anni un leit-motiv della radio, così come lo sfottò generalizzato della sua passione per la maratona.

Se conoscete questa gente (che nonostante la programmazione musicale fa ancora dell’ottima radio, a sprazzi), e se avete un po’ tempo libero per farvi quattro ghignate, vista anche la presenza sulfurea e irresistibile degli Elio e le Storie Tese, potrei persino consigliarvelo.

La frusta e il corpo

di Mario Bava, 1963

Dopo questo film, mi è venuta una voglia di recuperare l’opera di un autore che purtroppo, come ho già detto, non conosco quasi per nulla ma che desta come pochi il mio interesse. Non è così facile, ma (casualmente dopo un commento-consiglio qualche giorno fa), mi trovo in mano proprio The whip and the body, copia di importazione de La Frusta e il corpo.

Mentre Sei donne era un thriller pop e archetipico di un intero genere, La frusta e il corpo segue i percorsi inquietanti del gotico italiano. Il risultato, come al solito, è un film piccolo e "di serie B" (ha davvero senso come definizione?), ma girato con un’impressionante maestria. Forse per qualcuno eccessiva e troppo "protagonista": non per me, io adoro i movimenti di macchina, quando sono portatori di senso.

Sicuramente con qualche breve momento di stanca ritmica, ma con un numero inelencabile di pezzi di bravura (l’incontro a frustate sulla spiaggia, Nevenka che cammina per la casa, il bellissimo finale), ed estremamente moderno nel tracciare un percorso narrativo basato sul rapporto tra ossessione amorosa e concezione del dolore, con scene sadomasochistiche impensabili per l’epoca, come Nevenka che, frustata, gode rumorosamente.

E poi, se non vi basta, una fotografia stupenda tutta giocata su accesissime varianti cromatiche che illuminano i volti e i luoghi, con quel mare nero che accompagna il cavallo al castello e che sembra l’unica cosa vera, e maliconicamente l’unica cosa finta. E una bellissima colonna sonora.

L’ho già detto, nessuno fa più film così in Italia, e quasi (ci ha provato Amenabar, riuscendoci) nel mondo. Un peccato.

Dracula cerca sangue di vergine… e morì di sete (Blood for Dracula – Andy Warhol’s Dracula)

di Paul Morrissey e Antonio Margheriti, 1974

Prodotto e girato in Italia dalla cricca warholiana con due lire e un cast davvero surreale, Blood for Dracula (titolo decisamente più sobrio di quello affibbiatogli in Italia) è un film che cerca di declinare il racconto stokeriano nell’ordine della riflessione storico-politica. Il film si svolge presumibilmente in un’italia prefascista, dove il puritanesimo cristiano nasconde altarini sessuali basati su consapevoli menzogne, e la cultura della verginità non è che una malata ipocrisia.

Ma la variante è soprattutto politica: infatti il vampiro viene scoperto (e annientato in un bel finale sanguinolento) da un bel contadino: colto, marxista, e gran scopatore. Che lo odia a morte non perché è un mostro succhiasangue, ma perché è un aristocratico rumeno. Al di là dell’ideologia, qui è davvero impossibile non fare il tifo per il vampiro, interpretato da un affascinante Udo Kier, piuttosto che per il solito Joe Dalessandro, aitante e antipatico.

Qualche bizzarria, come lo spassoso utilizzo di De Sica, qualche scena violenta ed eccessiva, come le due crisi di vomito, qualche guizzo visivo (il conte che si aggira in sedia a rotelle per la casa), e tutto sommato, girato benino.

Per il resto, tecnicamente è un semplice horror, perché purtroppo non esplode il livello parodico, e per essere solo un horror non fa paura e a tratti è persino un tantinello noiosetto. Però, se davvero si vuole, c’è da divertirsi.

[remainder(s)]

Come già ho fatto altre volte, segnalo un paio di uscite odierne (nelle sale italiane) di film da me già visti al Festival di Venezia. Stavolta sono due.

Il primo è Eros, il film a episodi diretto da Wong Kar-wai (sublime, ben oltre 2046), Soderberg (più che passabile) e Antonioni, quest’ultimo un vero e proprio disastro, il vero scult veneziano 2004.

A Bologna all’Odeon. Qui il mio breve commento

Come ho avuto più volte occasione di dire, Ferro 3 (Binjip) è tra i film migliori di uno dei miei più recenti registi-feticcio, Kim Ki-duk. Non fatevi intimorire dalla violenza di alcuni dei suoi bellissimi film precedenti e andatelo a vedere. Andate a vederlo prima possibile.

A Bologna al Rialto. Qui il mio breve commento

Un maledetto imbroglio

di Pietro Germi, 1959

L’adattamento germiano (con molte e significative varianti) del libro di Gadda sembra quasi un semplice e incasinatissimo giallo, ma sconfina in acutissima analisi di costume. "Come quando in campagna togli una pietra e ci trovi i vermi", dice il commissario.

Il film è un oggetto perlopiù dimenticato (rispetto alle ultime opere di Germi) ma estremamente interessante, sia nella filmografia del regista sia per il cinema italiano del periodo, soprattutto per il modo in cui vengono affrontati i meccanismi di genere (il giallo ma anche il poliziesco, l’ironia, le virate in commedia e in dramma). Non sarebbe però la stessa cosa se non fosse per la strepitosa performance d’attore dello stesso Pietro Germi: un cinico e malinconico commissario Ingravallo, che sacrifica la vita privata per fare giustizia in un mondo corrotto e "sgradevole".

Indimenticabili il serrato racconto a flashback del Banducci, e il finale, con la corsa della Cardinale nella polvere sollevata dall’auto della polizia, con la voce di Alida Chelli e lo sguardo disilluso (e il sigaro acceso) di Germi.

Sei donne per l’assassino

di Mario Bava, 1964

E’ difficile parlare di un film così seminale e archetipico senza rischiare di ripetere quanto già detto da altri. Da qui parte il thriller all’italiana, e qui nascono le ossessioni argentiane (e non poco quelle depalmiane, e non solo) dei decenni successivi: Suspiria è già tutto qui in nuce, anche se forse lo supera.

Sono state del tutto dimenticate le qualità passate e potenziali del cinema di genere nel nostro paese, e nessun produttore vuole scommetterci più un euro. Beh, ovvio, perché quando Argento ci mette mano fa solo disastri, Infascelli è troppo raffinato per piacere a tutti (e qui cerco la polemica), e non basta il quasi invisibile ultimo Puglielli (che non ho visto) a far tornare il discorso alla ribalta.

Comunque, Sei donne per l’assassino è un gran film. Thriller robusto e discretamente spaventevole*, dotato di una forza plastica che lascia esterrefatti, soprattutto nella gestione delle composizioni di colore, oltre a qualità registiche eccellenti (forse troppo), e non è nemmeno il miglior Bava. Pare: la mia filmografia baviana è molto molto ridotta, almeno in termini di raggiunta maturità. Da recuperare (ed è anche un autoavvertimento).

Non è difficile: io l’ho visto su un (eccellente) dvd inglese (casi della vita), ma c’è un dvd della Shendene, in circolazione nelle edicole e acquistabile via internet.

*licenza poetico-cinefila?

L’orribile segreto del Dr. Hichcock

di Riccardo Freda, 1962

Povera Cynthia: non solo suo marito non se la caga più di tanto, è ossessionato dal lavoro e dalla moglie morta, si ostina a vivere in una casa che spaventerebbe anche un boia, e cerca puntualmente di ucciderla. Suo marito, il dottor Hichcock (senza t, ma con tante citazioni), è anche un tantino necrofilo.

Un bel gotico italiano, girato (come si soleva) alla inglese, con più idee che denaro, una tecnica ammirevole, un buon florilegio di spaventi, e una Barbara Steele in gran forma. Anche se, diciamocelo, era più fascino che altro.

La paura nasce, in modo intelligente, da un oggetto o da un rumore, da qualcosa fuori posto (e spesso fuori campo). Si sgonfia poi immancabilmente (con un grido e uno svenimento della Steele o di chi per lei), per poi esplodere finalmente nel finale, in modo improvviso e comunque risoluto. Il risultato è angosciante ed estenuante per lo spettatore, costretto a interrompere il suo spavento, e alla negazione catartica. Una metologia che è andata un po’ a perdersi.

[remainder]

Oggi esce nei cinema "Nemmeno il destino", il nuovo film di Daniele Gaglianone, con Mauro Cordella, Fabrizio Nicastro, e Stefano Cassetti.

Volevo solo ricordare che ne ho già parlato brevemente da Venezia, e consigliarvelo caldamente. E’ davvero un bellissimo film.

Napoli violenta

di Umberto Lenzi, 1976

Eccessivo, esasperato, tagliato con l’accetta. E a tratti davvero troppo grezzo (gran parte della prima metà). Però il poliziottesco di Lenzi affrontava il genere di petto e con schiettezza e onestà. In più, c’è un inseguimento "parallelo" che Luc Besson se lo sogna di notte (con finale sulla funicolare), il solito Tomassi che montava come dio comanda (ma solo le scene d’azione), e una colonna sonora (di Franco Micalizzi) veramente da urlo.

Certo, forse non si giustifica il tale enorme cul——-questo post si interrompe improvvisamente, proprio come il finale mutilato mandato in onda da Italia1 l’altra notte. Grazie, Italia1.

Non si sevizia un paperino

di Lucio Fulci, 1973

Oggetto di culto paragenerazionale, il primo vero thriller di Fulci è teso e abilissimo, visivamente solare e terrigno, inquietante e malsano nelle situazioni (infanticidi, accenni di pedofilia, eccetera), che però nasconde (non troppo) una riflessione, lucida e non banale, sul ruolo fondativo dell’irrazionale nella società. E forse dice persino qualcosa sulla perdita dell’innocenza.

La Bouchet e Milian, incredibile a dirsi, erano davvero nella parte. Un colpo di genio (quello sì davvero cult, e celeberrimo) l’allegro massacro della Bolkan sulle note di Ornella Vanoni, e davvero sorprendente il finale.

Io la conoscevo bene

di Antonio Pietrangeli, 1965

Forse solo Nicola si ricorda di quanto io sia corso dietro a questo film durante quest’anno. Ne ho comunque parlato qui (altro film di Pietrangeli) e qui. Grazie al benedetto OffiCinema bolognese ieri sera l’ho finalmente visto. Nicola ha segnalato a sua volta questo film: seguitene i link.

Io la conoscevo bene è un affresco desolante e caustico di un universo (non solo maschile) regolato da rapporti sociali basati sulla perdita dell’identità, sull’umiliazione, sulla prostituzione dell’individuo. E uno straordinario ritratto di ragazza: qui la Sandrelli (sorta di corrispettivo italiano della nanà godardiana) era semplicemente divina, sempre capace, trauma dopo trauma, di rinnovare il suo sguardo e il suo spirito consapevolmente ottimista. Per non parlare del brevissimo Tognazzi: geniale e illuminante.

Antonio Pietrangeli, autore dai più dimenticato, era davvero un grandissimo regista. E’ la sua regia è il vero cuore del film, per il suo sguardo su Adriana e sul mondo che le sta intorno (le parole dello scrittore, suo alter ego, chiariscono poi il suo punto di vista con affetto e intelligenza). E per il modo, etico ed emozionale al tempo stesso, in cui utilizza l’inquadratura e il movimento di macchina.

Girato e montato con una libertà scioccante (l’interminabile viaggio in 500 verso la fine, gli sguardi in macchina, i flashback che arrivano all’improvviso e allo stesso modo si chiudono) ma senza alcun virtuosismo gratuito, bensì con un rigore eccellente e senza nessuna sbavatura, il film è costituito da una moltitudine di accadimenti, in cui si alternano commedia e dramma, idillio e trauma. La sensazione che se ne ricava è di sospensione e implosione, un senso di malessere crescente che viene poi liberato nel finale, che è (per quanto atteso) un pugno nello stomaco.

Tre tra le tante scene indimenticabili: la delirante lezione di dizione (in cui la macchina da presa entra in un cortocircuito fuoriuscente dai meccanismi della commedia), il ricordo della sorella (zucchero nella birra…) e la scena dell’incidente, che mette i brividi e getta il primo presagio di morte sul destino della giovane Adriana.

Splendido.

Per Gas (mio compagno di visione): visto quanto ne abbiamo parlato ieri notte, voglio un commento lungo. Poi tu sei uno scrittore della madonna, saprai sicuramente esprimerti meglio di me.

Come Harry divenne un albero (How Harry Became a Tree)

di Goran Paskaljevic, 2001

Una favola cinese trapiantata in Irlanda da un regista serbo. Un uomo si misura dai suoi nemici, e così il contadino vedovo Harry Maloney decide che George, uomo ricco e amato da tutti, sarà il suo.

Senz’altro quest’opera internazionale affonda le sue radici in profondità, mostrando il ritratto di un uomo che trova nell’odio la sua ragione di vita, e (con meno interesse) di suo figlio, schiacciato dall’assenza dell’amore, che è incapace ad esprimere.

Peccato che il risultato sia troppo impantanato nella sua natura allegorica e non possieda alcun ritmo, nonostante la bella fotografia di Milan Spasic, e l’interpretazione giogionesca (a voi decidere se sia un tratto positivo) di Colm Meaney. Forse troppo dramma e meno ironia del dovuto, chi lo sa. Comunque La polveriera era un’altra cosa.

Come inguaiammo il cinema italiano

di Daniele Ciprì
e Franco Maresco, 2004

"Vogliamo ridere! Adesso!"

Il film che i due genialoidi autori siciliani Daniele Ciprì e Franco Maresco dedicano alle figure storiche e discusse di Franchi e Ingrassia, è un documentario serio e professionale, ma inevitabilmente condito di un pizzico di follia. Filologico e meticoloso, perfettamente lineare nella costruzione dell’indagine, e estremamente sincero sulla distinzione tra valore artistico e culturale, non si risparmia quadretti "alla cinico tv" ("Gonni!" "Gorny!") e un diffuso sarcasmo, soprattutto nei confronti della critica ufficiale, che si presta autoronicamente. Fofi e Kezich in prima linea, per non parlare del "giovane critico" (e qui mi zittisco, meglio).

Quello che ne esce non è lo sdoganamento ufficiale del trash di cui tutti parlano (complice la retrospettiva veneziana), ma il ritratto di due artisti di strada divenuti fenomeno di massa, di due marionette (snodato l’uno, legnoso l’altro) spremute fino all’osso e poi dimenticate (per cosa, poi?), il malinconico accenno ad "un’occasione sprecata", forse per la troppa furia commerciale, forse per una carenza di talento, forse per un’innata tendenza a sopravvalutarsi. E infine la morte: che ci passa davanti ma che i due autori ci invitano ad ignorare. Con una grassa risata.

Inserito più decisamente nella linea documentaristica dei due registi (quella di Noi e il Duca, che non ho visto) che in quella finzionale (che preferisco), il film non è altro che un ottimo documentario. Ma basta e avanza. Per quanto riguarda il coinvolgimento emotivo, non mi sono mai vergognato a ridere come un imbecille con i loro film (per quanto siano in gran parte orribili). Ieri sera, stessa reazione: mi sono davvero spanciato.

[remainder]

Domani, tra le altre varie cose, esce nei cinema "Volevo solo dormirle addossso", il film di Eugenio Cappuccio con Giorgio Pasotti.

Volevo solo ricordare che ne ho già parlato brevemente (e ne ho parlato maluccio) da Venezia.