Italia

Per un pugno di dollari

di Sergio Leone, 1964

"Quando un uomo col fucile incontra un uomo con la pistola, l’uomo con la pistola è un uomo morto"

Ribadisco l’inutilità di parlare dei film di Leone in questa sede. L’avevo già fatto notare qui (dove mi limitai ad una citazione e a un ricordo) e qui (dove mi limitai ad un aggettivo). Sono ben accetti commenti affettivi, autorevoli, o dissacratori.

"Vedrai che starai come a casa tua"

"Spero di no. A casa mia stavo malissimo"

Agata e la tempesta

di Silvio Soldini, 2004

Agata e la tempesta non possiede quell’equilibrio alchemico che aveva lo splendido Pane e tulipani, sotterrato com’è dalla dimensione letteraria, e disperso un po’ nel respiro corale (anche lui…). Quando in realtà è proprio la storia di Agata, meno complessa e forse più banale (ma con la bella trovata dell’emozione elettrica), ad interessare di più, rispetto agli incroci di destini degli altri personaggi (i due fratelli divisi alla nascita).

Se racconta della nascita una nuova famiglia attraverso traumi, perdite e ricordi, Agata è però un film che ignora la vita vera, che aggira il dolore, e si pone su un livello di favola. Guarda alla vita come un dono, in tutte le sue manifestazioni. Consola il dolore di una vedova con un sincero sorriso. Può conquistare come può irritare, ma il suo ottimismo spudorato e favolistico lascia innegabilmente un buon sapore in bocca.

Certo, è un film leggero come le nubi, ma anche coloratissimo e sottilmente magico, che regala qualche momento di poesia e, senza morali e senza un vero senso, dà una piccola lezione, e mostra un modo, un modo come un altro, per affrontare la vita.

Comunque la si veda, Licia Maglietta è fantastica.

Una storia moderna – L’ape regina

di Marco Ferreri, 1963

L’essenziale Cineteca di Bologna, tra le tante cose, offre in questi giorni alcune proiezioni del primo Ferreri (all’Officinema, ex Lumiére). La parola magica è: pellicola. Per di più: restaurata. Che vuoi di più dalla vita?

Marco Ferreri è un’autore che ho sempre amato moltissimo, da quando lo scoprii per caso, anni fa. Il film era L’ultima donna, e non era nemmeno tra i migliori. La grande abbuffata è immenso e Non toccare la donna bianca uno dei miei cult-movie. La lista potrebbe proseguire, anche se me ne mancano molti (tra cui il periodo messicano). Questo primo film italiano di Ferreri, appunto, mi mancava.

L’ape regina è un apologo sull’istituzione familiare cattolica. Costruito (per autodefinizione) con un andamento cinicamente favolistico ed allegorico, il film utilizza alcuni cliché della commedia all’italiana (e quell’uomo monumentale che era Tognazzi, grandissimo) per sparare a zero sulla visione cattolica del matrimonio. Il tutto condito ovviamente da una misoginia (misantropia, in realtà) impressionante, ma senza perdere mai per strada il senso e gli obiettivi morali dell’opera. C’era già molto Ferreri già qui, dai temi dell’impotenza e della castrazione, all’annuncio visionario di una rivincita del matriarcato.

La censura non fu gentile con questo film, e i tagli sono ben visibili. Ma, tolto lo scandalo, resta prepotente la forza del messaggio. Ancora attuale.

Le conseguenze dell’amore

di Paolo Sorrentino, 2004

"Io non sono un uomo frivolo. L’unica cosa frivola che ho è il nome: Titta di Girolamo."

Titta è un uomo costretto a vivere in un luogo-non-luogo (un albergo, e per di più in una svizzera vuota e silenziosa come un cimitero abbandonato), in una condizione di sospensione del tempo che è già una morte ("sono 15 anni che non ti vedo"; "non sono cambiato molto"). Titta è un uomo grigio e metodico anche nella tossicodipendenza. Progetti per il futuro: non sottovalutare le conseguenze dell’amore. Perché l’amore ti restituisce la scintilla che il noir ti espelle dal corpo ("salire su questo bancone è la cosa più pericolosa che ho fatto nella mia vita"), perché il tuo metodo mortale va in pezzi, e non puoi far altro che vivere, anche solo per un attimo, e poi morire di nuovo.

Paolo Sorrentino, alla sua seconda fatica, abbandona la vena provinciale della sua apprezzabilissima opera prima, e trova miracolosamente una dimensione internazionale, e trova quello di cui il cinema italiano ha bisogno. In più uno stile virtuosistico e inaudito per il cinema italiano, e un tono profondamente metafisico. Ci sono persino echi del cinema dei Coen (anche qui la "banalità del male", anche qui un "uomo che non c’è").

Gli interpreti sono tutti bravissimi (autentica scoperta Olivia Magnani, bellissima e intensa), ma Toni Servillo è davvero un extraterrestre. Per quanto vi possano tessere le sue lodi, ricredetevi: è più bravo. Un mostro di talento capace di reggere tutto un film con il suo sguardo dolentee la sua voce baritonale e rassegnata. E Sorrentino lo mette anche alla prova, duramente.

Il film è girato con uno stile folgorante, matematico, ma al tempo stesso vibrante e straniato. Due scene, tra tutte: quella, quasi sperimentale, della "pera fuori regola", e quel piano-sequenza infinito (una camminata verso una sala dove Titta è atteso da un boss), in cui un’oggettiva diventa soggettiva e poi di nuovo oggettiva, e infine camera fissa. E’ una cosa "alla De Palma" (c’è un’idea simile all’inizio di Carlito’s way): l’Italia ha finalmente allevato un regista in grado di reggere il confronto con i maestri d’oltreoceano.

Ma non c’è solo la forma: quando sta per finire e si può pensare (lungi da me) che forse è stato troppo implosivo, troppo freddo e calcolato, poco "caldo", ecco il finale: con quelle immagini, quei flash visivi, e con la malinconia di essere ricordato, e di essere quindi qualcuno nel momento stesso del tuo annullamento.

Approssimativamente perfetto.

Vento di terra

di Vincenzo Marra, 2004

Alcune recensioni a questo film, accolto molto positivamente a Venezia Orizzonti, hanno segnalato come difetto di questo film la sua ripetitività. Ma se c’è una forza in questo film è proprio l’uso espressivo dei meccanismi di ripetizione.

Lo dimostra il fatto che tali visioni molteplici sono molto sistematiche (carrello in avanti e indietro sulla madre che cuce, carrello laterale negli uffici, le interminabili scene del motorino, eccetera), e ancora di più la circolarità del film, che inizia e finisce con la stessa identica panoramica sulla città di Napoli. Perché Vento di terra racconta del dramma (personale, anche se inserito nella Storia italiana recente) di una vita senza vie di fuga, senza speranze, una vita segnata del ripetersi degli eventi (e dei traumi) e condannata all’inevitabilità dell’infelicità.

Questo ovviamente rende il film estremamente deprimente: non dev’essere per forza un’accezione negativa. Lo è per me, soprattutto in alcuni passaggi, e nei confronti dei personaggi, a cui è dato un rispetto minimo all’interno di una totale visibilità. Questo però è tutto da vedere. Quello che è sotto gli occhi è invece una notevole assenza di personalità nello stile di Marra, ricercatamente neorealista, ma forse molto più secco. Anche se riesce a dotare di credibilità il volto dolente e volutamente inespressivo dell’esordiente Pacilli, e ha un certo talento nel ritrarre gli interni, dando un carattere spietato e squallido ai luoghi napoletani e milanesi.

La personalità viene fuori, però, in molti momenti: nei dialoghi di Vincenzo con la sorella, in alcune scene della lunga sequenza dell’addestramento (quella della marcia punitiva, bellissima, in testa), in quella della fuga per raggiungere la madre suicida, o in quello sguardo che Lorenzo, dal treno e dall’autobus (ancora una ripetizione), rivolge all’esterno, al verde della natura, conscio forse del destino avverso o semplicemente affascinato da un futuro che non arriverà mai a stringergli la mano e a sorridergli.

La ragazza con la valigia

di Valerio Zurlini, 1960

Il ritorno a Bologna è anche il ritorno in SalaBorsa, e l’occasione di recuperare le mie enormi falle cinefile… Era tanto che volevo vedere questo film di Zurlini (l’avevo già scritto), regista bolognese di cui avevo già parlato (su La ragazze di San Frediano). Autopermalink…

La ragazza con la valigia è la storia di un incontro, quello tra un ragazzo (Perrin, giovane e già bravissimo) e una ragazza (una splendida Claudia Cardinale). Aida e Lorenzo sono due persone sole, ma le loro due solitudini sono destinate a rimanere tali, a causa del moralismo provinciale, a causa dei pregiudizi della gente.

Zurlini aveva una gran mano: anche solo per la capacità di raccontare le relazioni tra le persone attraverso i rapporti che i personaggi instaurano nell’inquadratura. E l’uso della retorica cinematografica (i piani-sequenza, lunghissimi anche se privi di virtuosismi, o la camera fissa sullo sguardo attonito e deluso di Perrin) per esprimere i sentimenti dei protagonisti è quello di un grande maestro. Bello, bello davvero.

Molte le scene straordinarie, spesso anche grazie alle scelte sonore: l’inizio , con quella strana ironica tensione (e Fever in sottofondo), e quella valigia lasciata lì sul cemento, sola e abbandonata, come in un quadretto iperrealista. O la discesa dalla scala della Cardinale in accappatoio sulle note di Celeste Aida. Se una sequenza mi rimarrà in mente, però, è quella della spiaggia, con i due corpi accarezzati dalla sabbia e dalla voce di Mina, che si conclude con la rissa, in cui il dramma (e il melodramma) viene contrastato da Tintarella di luna nella colonna sonora: geniale.

Le chiavi di casa

di Gianni Amelio, 2004

Ebbene, mi sono pentito di aver dormito per metà film a Venezia e, come mi ero ripromesso, ho recuperato.

Questo film parla di un’iniziazione ad un culto. L’iniziazione è quella di Kim Rossi Stuart (davvero bravo, va detto, ma un po’ atono), guidato dalla mano di Charlotte Rampling, e il culto è quello dell’amore come sacrificio, come rinuncia. Ma Le chiavi di casa, oltre a questo livello (il più stimolante) è anche e più semplicemente il racconto di un viaggio pieno di buche, in cui due persone dovranno imparare a volersi bene. Dovranno, sì, perché si parla di responsabilità, di seconde occasioni, ma soprattutto di dovere. Il rapporto tra amore e necessità.

Il lavoro di Amelio è rischioso, in qualche modo coraggioso: è un film sul filo dell’errore, ed è vero, come alcuni dicono, che miracolosamente non cade nel baratro. Non per questo è un film miracoloso. Però è ammirevole come riesca a sfuggire alla pornografia del dolore (come con un abbraccio esausto), e al melodramma del dolore (come con un taglio su quello stesso abbraccio). Sono solo esempi.

Potrebbe essere pesante e indigesto, e a tratti lo è. Ma c’è questo straordinario e sfortunato folletto, Andrea Rossi, ed è lui che ci fa rilassare e sorridere. Potrebbe essere consolatorio e stucchevole, ma quel maliconico (astratto) finale di pianto (per assurdo, consolato) lo rende più umano e sincero.

Alcuni entusiasmi veneziani erano eccessivi (c’era di meglio), così come la condanna di chi plaudeva alla sconfitta (forse c’era di peggio). Qui si sta sul filo, ancora una volta. E ancora una volta si può dire: è buon cinema, italiano.

Styker

di Noam Gonick, Canada

Venezia Orizzonti

Ultimo giorno di festival, poco tempo da dedicare alla visione di film, una scelta a caso. Ma Stryker è un pessimo film, rovinato in primo luogo dalle interpretazioni degli attori, ma anche dalla terribile sceneggiatura (tra un fuck e l’altro, nemmeno un pensiero intelligente) e dalla regia di un piattume inumano. Tempo buttato via. Peccato, perché quello del giovanissimo (piromane e quindi anarchico) che guarda con distacco i reciproci razzismi di due bande rivali era un punto di vista interessante. Bleah.

Passaggi di tempo

di Gianfranco Cabiddu, Italia

Giornate degli autori

L’ultimo film visto in questo strano e incasinatissimo baraccone che è il Festival del Cinema di Venezia è un documentario. Non proprio un caso strano, vista l’attenzione ultimamente viene data a questo genere (ed è un documentario Darwin’s Nightmare, il vincitore delle Giornate degli Autori…).

Detto questo, il film di Cabiddu è proprio bello. E’ un documentario sul bellissimo progetto "Sonos e memoria" di Paolo Fresu, Elena Ledda e molti altri musicisti sardi (e non). Ma, da questo punto di partenza, monta e sale, fino a diventare un film sull’incontro tra uomini diversi per uno scopo comune, e infine nella seconda parte (bellissima) anche un ritratto della sardegna e delle sue tradizioni che tra vecchio e nuovo, filmati d’archivio e recenti mischiati insieme, vengono mostrate come elementi di una cultura affascinante e immutabile.

Nota: ieri sera, alla festa di chiusura del festival alla Villa degli Autori. Fresu e la Ledda ci hanno deliziato (splendidi, grandissimi, pelle d’oca). Lui era appollaiato a due metri d’altezza su una decina di cubi da arredamento. Io ero sotto di lui, a sperare che non mi cascasse addosso.

Un altro film ad episodi, un altro breve post dedicato (e l’unico film visto ieri).

Eros

di Wong Kar-Wai, Steven Soderbergh, Michelangelo Antonioni

Fuori concorso

Non ci voleva certo una conferma: Wong è un grandissimo regista, Doyle un grandissimo direttore della fotografia. E The hand è un affascinante, raffinato, bellissimo mediometraggio, capace di uscire dal semplice esercizio di stile e regalare grandissimi momenti di cinema, la scoperta del sesso e della morte, una magnifica ossessione amorosa, e uno sguardo finale pieno di dolore. Splen-di-do.

Equilibrium è una mezza sorpresa: l’episodio di Soderbergh, per non essere altro (dichiaratamente) che un cinefilo e tautologico divertissement sul sogno, è davvero spassoso: merito soprattutto di Arkin e Downey Jr, attori stupendi e troppo spesso dimenticati. Un piacevole relax dopo le grandi emozioni del capitolo hongkonghese, girata con rigore (chi se l’aspettava?) e fotografata con classe (dallo stesso regista).

L’episodio di Antonioni, The dangerous thread of things, è ridicolo, recitato da cani, scritto peggio (Tonino, Tonino…), con qualche notevole svolazzo del buon Marco Pontecorvo, ma nulla più. Senza timori reverenziali: seriamente imbarazzante.

Some gossip…

Ho conosciuto questa blogger e questa blogger. Ciao, ragazze.

Birth

di Jonathan Glazer, USA

Venezia 61 Concorso

Birth è un film che racconta una crisi altoborghese causata dall’avvento del soprannaturale e dell’inspiegabile. Raffinato, perché Glazer sceglie con intelligenza uno stile in qualche modo "autoriale", ovverosia lentissimo, catatonico, fatto di silenzi e spazi vuoti, concentrando l’attenzione sullo sguardo e sul corpo della Kidman, modellando le scelte su riferimenti a Rosemary’s baby e al cinema europeo. Problematico (e piaciuto davvero poco, forse solo a me e a Kezich) perché non si preoccupa per nulla della credibilità del plot o della costruzione dei personaggi, lasciati vagare un po’ insensatamente. La forma è comunque affascinante, e Nicole è straordinaria: quei minuti immobili sul suo volto che si muta in pianto sono impagabili, e bellissimo il finale marino, in cui la forma si sgretola come le certezza di una donna.

Nemmeno il destino

di Daniele Gaglianone, Italia

Giornate degli autori

Il film di Gaglianone ha due facce: la prima parte, con i tre (poi due) ragazzi, è davvero sorprendente, almeno per la posizione che questo piccolo film occupa nel panorama del cinema italiano: stile personalissimo, scelte registiche coraggiose, un montaggio libero e affascinante che pur modernissimo si distacca dallo stile videoclipparo molto in voga di recente. Ad un certo punto, il film cambia rotta, per esplicito volere del regista: e il film perde mordente, ritmo, interesse, per poi innalzarsi di nuovo nel bellissimo finale in bianco e nero, dolcissimo e pieno di speranza. Nonostante questo problema (non oggettivo), un bel film. Massimo merito degli attori non professionisti (tutti ragazzi simpaticissimi, posso dirlo senza false ipocrisie), tra cui spicca Fabrizio Nicastro: mostruosamente bravo nell’affrontare la difficoltà del suo personaggio e alcune "prove" affidategli da Gaglianone (come un doloroso monologo di fronte a un bicchiere).

Vital

di Tsukamoto Shinya, Giappone

Venezia Orizzonti

E’ incredibile la qualità dei film orientali presenti a Venezia (anche se non li ho visti tutti, sono troppi…). E non è una mia deformazione maniacale, questo fatto è sulla bocca di molti, se non di tutti. Ed è incredibile come sia cambiato lo stile di Tsukamoto dalle sue opere precedenti: se un più deciso apporto formare era già in A snake of june, ma con molti rimandi al suo cinema precedente (la mutazione, il bianco e nero), Vital comporta un un deciso cambio di rotta. Ed è un bene, perché Vital è il suo capolavoro: un film sul corpo, e sul suo rapporto con la mente e la memoria, con il cuore e il sentimento. Visivamente curatissimo ma molto eclettico, fotografato e montato in modo semplicemente geniale, con vette impensabili di poesia, e una malinconia diffusa e disperata. Che si scioglie però nel meraviglioso finale, un funerale e un ricordo: si gioca con il film di Kim Ki-Duk il premio per la "chiusa" più bella del Festival.

Some gossip…

Sarò telegrafico. Ho fatto una foto con Tsukamoto (ora mi mancherebbe Wong Kar-Wai…). Ho sbattuto letteralmente contro Raul Bova all’Excelsior (bell’uomo, barba incolta compresa). Nicole Kidman mi ha fatto ciao-con-la-manina (giuro giuro giuro). E ho fatto una mezza figuraccia con Guido Bagatta (ahah).

Nota

Mi scuso con tutti i fan di Amelio, ma non scrivo del suo film, perché ho dormito per almeno tre quarti d’ora nella seconda parte, svegliandomi sui titoli di coda. Non dipende da lui, il film era bello, ma ero stanco morto. Mi rifarò.

Ecco quello che sono riuscito a vedere tra ieri sera e stamattina. Come al solito, se passate dal Lido venite a cercarmi QUI!

Un silenzio particolare

di Stefano Rulli, Italia

Venezia Cinema Digitale

Un grandissimo sceneggiatore (e ora lo posso dire, grand’uomo), racconta con dolcezza e delicatezza infinite il rapporto con Matteo, suo figlio disabile. Nonostante il progetto, outing quasi necessario ma di un’intimità quasi al limite dell’imbarazzo (mai sfiorato), questo piccolo oggetto digitale (non lo definirei cinema) mi ha toccato, mi ha stretto il cuore, riempito di brividi. Un grande piacere stringere la mano a Rulli dopo la proiezione, davanti al casinò, e complimentarmi con lui.

Strings

di Anders Ronnow-Klarlund, Danimarca

Giornate degli autori

Da non crederci: un film di marionette. E, cosa ancora più incredibile: uno splendido film. Rivoluzionario, a suo modo. Una tragedia quasi-shakespeariana (con echi nordici) recitata da pezzi di legno intagliati, eppure commovente e trascinante, un grande dramma epico. Tematiche eccetera non ve le spiego nemmeno: se si parla di tragedia e di marionette, fate voi. Spero per tutti voi che non siete qui che lo distribuiscano in Italia. Ronnow-Klarlund è davvero un geniaccio, e una persona deliziosa: simpatico e gran figo. E ve lo dice un etero.

Tartarughe sul dorso

di Stefano Pasetto, Italia

Giornate degli autori

Sono combattuto tra il valore effettivo del film (piaciuto molto qui alle Giornate) e l’irritazione che mi ha portato un’impostazione che tende a trasferire il grigio di un luogo, Trieste, nel grigio dell’anima dei personaggi, pronti a qualsiasi cosa pur di soffrire. Non è costruttivo, non è il cinema che piace a me, ma senza dubbio ha un valore importante per il cinema italiano d’autore, e certa ironia e la diffusa maturità di Tartarughe sono ammirevoli per un’opera prima. La Bobulova (ormai presenza fissa da queste parti) e Rongione (ragazzo simpatico) sono comunque molto bravi, e Pasetto promette bene, o benino. Comunque la storia raccontata attraverso keyword lette su una tavola di Scarabeo durante una partita è davvero una signora idea: geniale.

Some gossip…

Ieri, soffiata di un amico: arriva Tarantino tra 10 minuti. Lo aspettiamo, arriva. Distanza: un metro. Gli sorrido, panico. Mamma mia. Che brutto uomo, che imbolsimento, crisco. E poi è sempre in giro con la Bouchet. Però che fascino, che genio. Tremavo. Per il resto, oltre a Rulli di cui ho raccontato qui sopra (era accanto a Nanni Moretti, che ho ignorato: non era cortese stringere la mano a entrambi), oltre alle delegazioni dei film della nostra sezione, ho avuto pochi incontri ravvicinati. Beh, Tommaso Crociera (Tom Cruise, insomma), ma solo da molto lontano: non me ne fregava più di tanto… Ieri sera dietro di me in sala c’era Emanuele Filiberto di Savoia con quel cesso di sua moglie: sai che figata…

Il tempo è quello che è. Lo stage mi porta via la maggior parte del tempo. E non ho tempo (né spazio) per postare granché. Ecco quello che sono riuscito a vedere ieri. Se passate dal Lido mi trovate QUI.

Volevo solo dormirle addosso

di Eugenio Cappuccio, Italia

Venezia Mezzanotte

Piccolo e onesto progetto, per parlare degli inquietanti cambiamenti nel mondo del lavoro e nelle relazioni formali tra gli individui. Il risultato è quello che è. Ci sono le due brutte bestie della commedia italiana: la regia televisiva e le macchiette. Per il resto, un Pasotti credibilissimo (avevamo visto bene) e almeno la capacità di tradire qualche aspettativa, giocando con il visetto da bravo ragazzo del protagonista, per poi chiudere con un finale cinico, che lascia anche un certo saporaccio in bocca. A voi decidere se sia un bene o meno.

Some gossip…

Ogni incontro è sorpassato dal volto soddisfatto di Quentin Tarantino a tre metri da me mentre si gusta La mala ordina di Di Leo accanto a Barbara Bouchet. Che momento. Tutto vero allora quello che dicono di lui… Batticuore, a mille. Segue per emozione il sederozzo di Scarlett Johansson e il faccione bolso di John Vincent Travolta Vega, sempre lì a due passi, nel Palazzone. Altri incontri ravvicinatissimi con Nichetti, Ghezzi, Serra, il trio Medusa (con cui ho fatto davvero il deficiente), e altri. Oggi ho pasteggiato con Barbora Bobulova (qui da noi ai Venice Days a presentare Tartatughe sul dorso). Gran donna. Baci a tutti dall’assolato lido veneziano.