Masters Of Horror

[masters of horror, season 2]

Seconda Parte


S02E04 – Sounds like
di Brad Anderson

Il regista che si è imposto all’attenzione internazionale grazie, oltre che alla sua avvenenza, a due interessanti variazioni thriller (Session 9 e L’uomo senza sonno), si discosta notevolmente dalle pieghe più gore di altri colleghi della serie, e gira un altro horror psicologico, questa volta improntato sul tema (tradizionalissimo nel genere, anche sotto il profilo teorico) dell’udito. Ma il film non porta molto in là il suo discorso, non fa nulla per rifuggire la notevole piattezza dell’impianto visivo, e – soprattutto – esaurisce le idee nel giro di una mezz’ora. Tuttavia, si apprezzano lo sforzo e la notevole presenza scenica di Chris Bauer.


S02E05 – Pro-Life
di John Carpenter

Di fronte all’autentica meraviglia che fu Cigarette Burns la scorsa stagione, Pro-Life non fa proprio una bella figura: Carpenter adatta un altro script di Moriarty (editor furbacchione di Ain’t it cool news – pensate se in Italia succedesse una cosa simile), che si dimostra autore intelligente e cinico ma che stavolta fa l’errore di spingere il suo sacrosanto anatema contro i fanatismi antiabortisti ad un livello troppo esplicito e urlato, fino ad arrivare a un’isterosuzione anale (sic) da far rizzare i capelli. E soprattutto Carpenter sceglie di sbattere il mostro in primo piano: peccato che quest’ultimo sia davvero vergognosamente cheap. Non vorrei vivere in un mondo in cui "ridicolo" e "Carpenter" possano convivere nella stessa frase, ma in questo caso, alla fine, faccio buon viso a cattivo gioco. Per dire: preso come lunghissimo e tesissimo assedio, Pro-Life è più carpenteriano che mai. Musiche comprese. Fossi in voi mi accontenterei pure io.


S02E06 – Pelts
di Dario Argento

C’è un sacco di gente che si suicida imitando le fasi di produzione delle pellicce, condizionata da procioni morti i cui esemplari viventi fanno allegramente capolino dalle finestre di una vecchia matta? Ma dico, non suona un briciolo idiota anche a voi? Pensate, ci hanno fatto un film, con quest’idea. Ed è Pelts. Pelts è uno di quegli episodi di MOH che ti fanno seriamente chiedere per quale maledetto motivo stai ancora seguendo tutta la serie. Perché non selezioni un minimo gli episodi. Perché invece di saltare decine di secondi a botta con il comando "skip" di Bsplayer non chiudi il file e te ne vai a mangiare qualcosa. Perché fanno fare episodi a Dario Argento. Ecco, questa è la chiave. Perché Pelts è persino più brutto di Jenifer. Lo so che può sembrare assurdo, ma Pelts è persino più brutto di Jenifer. C’è Meat Loaf che strabuzza gli occhi e urla "After Cirio, sky is the limit! Sky is the limit!", period. John Saxon è invecchiatissimo e ciucco, e fa vomitare. Infine, c’è una lapdancer strappona che sta nuda per metà film e ha il suo momento di apoteosi recitativa quando si aciuga con il dorso della mano le secrezioni vaginali della sua godereccia partner. Vi prego, fate fare a Dario Argento dei soft-core, ma basta con il cinema. Basta!

[masters of horror, season 2]

Prima parte
*ipotizzando che la qualità sia inferiore di quella – già altalenante – della stagione precedente, quest’anno i post sulla serie creata da Mick Garris per Showtime saranno pubblicati a gruppi di tre, piano piano.


S02E01 – The damned thing
di Tobe Hooper

Dance of the dead, nonostante la luciferina presenza di Robert Englund, era stato una notevole delusione. Questa volta sembra andare un briciolo meglio, ma solo in apparenza: il regista texano infatti, ispirandosi a un apocalittico racconto ottocentesco cripto-ambientalista di Ambrose Pierce, riadattato senza troppi giri di parole dal figlio del mitico Richard Matheson, azzecca un inizio tesissimo, con una scena familiare in cui irrompe la follia e un inseguimento shininghiano nei campi di granoturco. Ma poi sbaglia praticamente tutto il resto, dal tremendo cast al mostro grosso di fango. Unico vero brivido, il tizio che si massacra la faccia a martellate: una pacchia, per noi che ci garbano i martelli. Incredibile che sui DVD delle ultime inaffrontabili opere di Hooper campeggino ancora titoli come Poltergeist e Non aprite quella porta: quanto ci metteranno a capirlo tutti che ce lo siamo giocato?


S02E02 – Family
di John Landis

L’episodio di uno dei registi più cari alla mia generazione, quella cresciuta guardando in tv i grandissimi film da lui girati tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80, riconferma la piacevole sensazione provata con lo spassosissimo Deer Woman. E cioè, che non tutto è perduto, e che Landis ha ancora talento da vendere. Scritto dallo sceneggiatore dell’interessante Frailty e dominato dall’interpretazione di George Wendt (storico attore di Cheers), il film di Landis è un’operetta ironica e caustica su un uomo che reagisce alla solitudine costruendosi una famiglia "su misura", nascondendo anche una riflessione sagace e pessimista sull’impossibile serenità del nido familiare. Un gran bel divertimento, e per una volta un gran bel twist finale. Magari con qualche calo di ritmo: ma è sempre un piacere riaverti a casa, zio John.


S02E03 – The V word
di Ernest Dickerson

Pochissime parole sul bruttissimo capitolo diretto dal direttore della fotografia di tutto lo Spike Lee del primo periodo, passato di recente a dirigere episodi random di una quantità impressionante di (pur ottime) serie televisive. Un film di vampiri con tutti i crismi del caso, con l’unica differenza che invece di due buchetti questi vampiri si strappano via la pelle dal collo e poi bevono. Uffa. Michael Ironside è bollitissimo, e non farebbe paura nemmeno a una mosca timida e schiva. D’altro canto, i due ragazzetti protagonisti sono nel pieno della loro gavetta televisiva (sono apparsi anche loro un po’ ovunque), e hanno lo stesso carisma di un termosifone. Quello nero muore per primo.

Tutti i post sui Masters of Horror

Masters of horror, #1.11
Pick me up
di Larry Cohen, 2006

Le strade della provincia americana sono luoghi pericolosi, lo sappiamo bene. Ma di solito di maniaco omicida ce n’è uno solo: cosa succede dunque se ben due maniaci (un camionista e un autostoppista) si incontrano su una strada fatta di boscaglie e serpenti? Si potranno alleare o si combatteranno?

Su questa semplice iperbole (e su poco altro) si basa il segmento di Cohen, che parte da premesse simili a quelle dell’episodio di Coscarelli ma senza eguagliarne l’esito. Questo perché il senso che prevale è quello di uno scherzone, di un giochetto massacrante, interessante e teorico e ironico e benfatto quanto volete, ma che si mangia un po’ la coda come un serpente ubriaco (rischiando spesso di rimanere schiacciato come il povero rettile dei titoli).

E’ vero che l’inizio simbolico e il solito finale-beffa colgono nel segno, ma a metà strada si sente un po’ di fatica, forse a causa della recitazione dei due villain, Michael Moriarty ai limiti della parodia e Warren "wannabe Matt Damon" Cole. Di Fairuza Balk invece mi innamorai quando a 11 anni ripercorreva zoppicando i passi della Garland, e ribadii il mio affetto quando a 21 anni fattucchierava ai danni di Robin Tunney e che Neve Campbell, schiacciate entrambe dal suo fascino sporchino e sbagliatuccio. Adesso di anni ne ha 31, e li porta pure maluccio.

Masters of horror, #1.10
Sick girl
di Lucky McKee, 2006

Non è il primo della lista dei Masters of Horror, ma anche Lucky McKee è un nome che non ci dice molto: May, il suo unico lungometraggio, ha un certo seguito ed è da qualche parte un piccolo cult, ma è assolutamente inedito in Italia. Ma ora si è molto curiosi di vederlo. Perché se Sick girl dimostra qualcosa, non è forse una perfetta esplicitazione di un teorema, ma sono di certo le curiose doti di abile miscelatore del suo regista.

Che di fronte ad un plot (co-scritto da lui stesso) che mescola ossessioni cronenberghiane a tematiche gender e una sorta di bizzarro lesbo-fly a non sottilissime metafore sociali, decide di condire il tutto con un sugo ironico e grottesco. L’addizione è uguale alla somma degli addendi, niente di più: ma tanto basta a rendere Sick girl il film più gradevole che si possa immaginare da una storia così bizzarra e sbilanciata. Parte tutto in modo così scherzoso e stupidotto, con l’insettologa lesbica e i consigli "male-oriented" del suo collega: chi si immaginerebbe enormi donne-insetto, litri di sangue, gravidanze tanto tenere quanto mostruose?

Le due attrici, recitando sopra le righe come in un fumetto, contribuiscono in grande percentuale alla gustosa graphicità del film: che è vero, slitta un poco in curva, ma azzecca alcuni momenti impagabili e soprattutto riesce a dire una cosetta o due, seppure con una semplicità un po’ naif o forse senza troppa voglia di prendersi sul serio, sull’intimità e sulla diversità. Clap clap.

Masters of horror, #9
The fair-haired child
di William Malone, 2005

Bill Malone è un regista di film dell’orrore, sì. Ma come, non avete visto Il mistero della casa sulla collina o Paura.com? Beh, nemmeno io. Il primo mi scappò dalle mani mentre cercavo di evitarlo. Ma c’è chi ne parla bene. Il secondo aveva due buone ragioni per essere accantonato: il titolo, e Stephen Dorff. Ma c’è chi ne parla bene. Per me è invece un nome nuovo, e mi avvicino all’episodio con la fanciullesca contentezza di chi scopre nuovi e freschi territori.

Invece Malone fa un episodio mediocre, tra i meno riusciti della serie fino ad oggi. Più che altro, un film dimenticabile e irrilevante, nonostante sia ben confezionato, difetto ben peggiore di qualsiasi idiozia che Malone possa propinarci durante il film stesso. E ce ne propina: l’incidente iniziale che scopiazza Neil Marshall, i bruttissimi flashback in bianco e nero tipo con i nuvoloni, il "mostro" degno di master of ridiculous, il finale tanto bello da vedere quanto prevedibile e insipido, e soprattutto le faccette e le mossette di Lori Petty e William Samples in versione maniac.

Ottima colonna sonora, qualche colpo ben assestato, ma pochissimi spaventi se non nessuno. Molto alta comunque la posizione della vestitissima Linsday Pulsipher nel topa-rank della serie.

Alcune interessanti news sui "Masters Of Horror" lette su Fangoria, nessuna delle quali esaltante, che riassumo per i non-anglofoni e per i pigri.

Prima di tutto, come già anticipato nei commenti da ladystardust qualche giorno fa, l’episodio di Takashi Miike "Imprint" non esiste più come tale: è stato rifiutato dalla rete Showtime a pochi giorni dalla trasmissione perché troppo impressionante (e/o disgustoso, a seconda delle fonti). A questo punto, a meno di una miracolosa zampata di McNaughton, per quanto mi riguarda M.O.H. non ha più molto interesse. Qui. La pessima notizia è bilanciata da quella dell’uscita (prima o poi, chissà quando) del dvd di "Imprint". Siamo nelle mani della Anchor Bay: evviva? Bah. Qui. Altra notizia interessante è l’uscita dei dvd di alcuni episodi, a fine Marzo. I primi saranno Carpenter e Gordon. Ricchi i contenuti speciali, ma confidiamo in un Easter Egg tipo "making of the big fat mouseman". Qui. Infine, prepariamoci a una seconda stagione senza troppe novità: per ora l’unica certa è Brad Anderson. E vabbè, uffa. Si confida che le speranze su Guillermo del Toro e Rob Zombie non siano campate in aria. Qui.

  Masters of horror, #1.08
Cigarette burns
di John Carpenter, 2005

Quello di Carpenter, assente dagli schermi da troppi anni, era forse l’episodio di Masters of horror più atteso tra queste quattro fredde mura. Non solo lo zio John ha rispettato le aspettative rivolte in passate preghiere a quest’operetta, ma le ha in qualche modo superate.

Ambientato nel mondo degli archivi filmici e dei "cacciatori di film", con gran divertimento di chi queste cose le ha studiate e/o masticate, e con un movimento che ribadisce parte delle premesse – anche narrative, forse a posteriori – del mai troppo ricordato Il seme della follia, Cigarette Burns è un film straordinario, intelligente e terrificante, che riesce a bilanciare (chissà come) l’anima più cinicamente "nerd" della sceneggiatura (roba da blogger, insomma) con una resa orrorifica eccellente.

Perché non è solo il più "pauroso" tra gli episodi visti finora (e fa a botte con Joe Dante per la palma di miglior episodio, ai posteri l’ardua sentenza), ma è anche in sè tra le cose più inquietanti e insinuanti viste sullo schermo negli ultimi tempi. Dopotutto questi sono i tempi di Saw 2, e dopotutto è sempre Carpenter, ma chi scrive ha letteralmente tremato sotto le lenzuola, e alla fine di questi 55 minuti acuti e allucinati ha acceso la luce.

Norman "uomo-filmetto" Reedus e Udo "kino e intestino" Kier hanno due gran facce da bimùvi. A modo loro, perfetti.

Masters of horror #1.07
Deer woman
di John Landis, 2005

Vista la ghiotta occasione di ritornare a fare un film con una certa libertà, Landis decide di fare un passo indietro e, scrivendo la sceneggiatura insieme al figlio ventenne, riguarda a Un lupo mannaro americano a Londra. Deer woman infatti non è solamente un film nel cui universo (nel cui "mondo possibile", direbbe Eco, almeno credo) i fatti di Londra sono noti fatti di cronaca – di cui si parla (per i fan è una pacchia) – ma è anche un film che rispetta (o cerca di rispettare) quello stesso spirito mai replicato, quel misto di horror, commedia, e realismo, che era l’anima del film dell’81.

Spostando magari il baricentro di più sul lato comico che su quello orrorifico, che nel celebre film si amalgamavano miracolosamente senza scadere mai nella parodia. Ma il risultato non è mai fastidioso: il respiro televisivo si senta quanto negli altri episodi, ma è girato molto bene; spaventa abbastanza, nonostante le pretese horror siano ribassate; gioca bene sugli stereotipi, coma la coppia di poliziotti black & white, e sul sadismo; mette in scena una donna-cervo dalle sembianze di Cinthia Moura, che scalza la Lowndes di Hooper dalla vetta di "più topa della serie"; e soprattutto fa ridere di brutto.

La sequenza in cui il protagonista, sdraiato sul letto, immagina come siano potuti andare gli eventi e scarta le ipotesi più demenziali, non solo è da mal di pancia, per i tempi comici incredibili e inusuali, ma mostra chiaramente che Landis non si è del tutto rincoglionito come credevamo. Continuiamo a volergli bene, anche perché Deer woman fa venir voglia di una seconda visione praticamente già dopo mezz’oretta.

Masters of horror, #1.06
Homecoming
di Joe Dante, 2005

Masters of horror sforna, quasi a metà stagione, quella che è e probabilmente resterà, la sua vetta. Il breve episodio di Joe Dante è infatti un film acuto, commovente, splendido, che da reminiscenze horror ormai classiche (gli zombi di Romero in prima linea) impartisce una lezione di cinema e di politica (e di politica al cinema) con le armi, a lui ben note, del sarcasmo e della satira.

Ferocemente eversivo e tremendamente divertente, Homecoming è un film sul presente e sull’orrore del presente, agghiacciante e sorridente al tempo stesso, un caustico pamphlet mascherato da cinema di genere, capace di dire cose giuste quanto elementari, pure con uno stile che usa il modo e il contesto (televisivo) in cui è inserito per per un attacco alla stessa forza conservatrice dei mass media, alla televisione e ai suoi linguaggi, alla blanda retorica che invade ormai la classe politica (e chi sta dietro – e chi sta davanti – agli schermi).

Dante si conferma ancora una volta come uno degli autori più intelligenti e innovativi tra i registi "postmoderni", capace di miscelare una visione ghignante e corrosiva della società americana con il dramma profondo dei sopravvissuti e dei caduti, provocando con intelligenza e toccando il cuore con sensibilità: lacrime a fiotti per la scena dello zombie accolto da una coperta e dall’amore paterno, mentre tutto intorno a loro c’è l’incomprensione e l’ignoranza, la paura e il cinismo dei politicanti, le tattiche elettorali, i campi di raccoglimento.

Un piccolo capolavoro di cui sentivamo il bisogno.

Masters of horror #1.05
Chocolate
di Mick Garris, 2005

Diciamocelo: Mick Garris ha creato Masters of horror per potercisi infilare in mezzo, lui che "master" proprio non è. E’ la pecora nera, si capisce. Quando mai una serie ha 13 episodi, a parte la numerologia horror? Poi, autodefinirsi "master" dopo schifezzuole come Critters 2 o bestemmie quali il tv-Shining autorizzato è davvero un po’ eccessivo. E’ talmente furbo che quasi ci sta simpatico. Se non fosse che se la racconta e se la ride, tutto da solo: Chocolate è tratto da un suo racconto. Pazzesco.

L’episodio di Garris, che Violetta ha definito "una versione maiala di Strange Days", non è nemmeno da condannare: non un filmaccio orribile, solo una sciocchezza ininfluente. Non sarebbe nemmeno male come idea l’amore nato da una condivisione sensoriale – e quello che ne è poi – ma tra cioccolatini proustiani e soggettive a distanza, botte ormonali e varie efferatezze – quel tizio però lo avremmo ucciso anche noi, e in quel modo: i suoi quadri fanno schifo – si rischia di toccare il fondo, e lo si sfiora. Aggiungasi piattume sconcertante.

O forse è solo Henry Thomas che mi fa impressione.

Masters of horror, #1.04
Jenifer
di Dario Argento, 2005

Jenifer con-una-n-sola è una ragazza muta, dotata di un bel corpicino ma dal volto sfigurato, salvata dalla morte da un poliziotto che per difenderla dall’incomprensione della società baratterà la sua vita normale con i furiosi rapporti sessuali che Jenifer ama donargli per riconoscenza, non avvedendosi dei particolari gusti della ragazza in campo culinario. Finalmente arriva l’episodio del nostro Dario Argento, uno che continua curiosamente ad essere definito "il re dell’incubo" nonostante non azzecchi un film da vent’anni in pacca.

Il suo Jenifer merita una dovuta distinzione: se infatti il film non è eccezionale, è comunque meglio di quanto Argento ci propini da anni in patria. Il film riesce a non sollevare alcuno degli interessanti interrogativi che un plot del genere avrebbe stimolato, e la butta più che altro sulla carnazza e sulle budella. Però ha un inizio davvero bellissimo (la mosca in macchina, più che un presagio), e soprattutto quanto segue: 1 gatto sbudellato, 1 bimba asiatica divorata (dopo un incontro di apparente tenerezza nel giardino, ovvia citazione di Frankenstein), 1 povero adolescente che riceve un pompino cannibale, 1 viso orrendamente makeuppato sbattutaci di continuo in faccia.

Il problema è che sembra tutto vecchio di vent’anni. a partire dalla faccia fuori dal tempo di Steven Weber, spaesato nonostante abbia scritto la sceneggiatura, senza contare l’atmosfera, la fotografia becera, cose così. Deliziosamente simonettiane le musiche di Simonetti: il tema è perfetto per una suoneria del cellulare. Finale ovvio fin dal primo minuto, ma d’altronde come potrebbe finire? Bah.

Masters of horror, #1.03
Dance of the dead
di Tobe Hooper, 2005

Il terzo episodio della serie di Mick Garris è il primo diretto da un vero "mostro sacro", ovvero da Tobe "Texas Chainsaw Massacre" Hooper. Visto il trend degli ultimi anni, che principalmente dai suoi primi film prende mossa e che ad essi rimanda di continuo, era lecito aspettarsi un horror fortemente anni ’70, magari con adolescenti inseguiti da mostri (meglio se rurali), spaventi a dismisura, un bel po’ di sangue.

Invece no, il buon vecchio Hooper adatta un (bel) racconto di Matheson che più mathesoniano non si può, con i suoi riferimenti socio-familiari, la sua bella post-apocalisse e i suoi bei sopravvissuti eccetera. Stilisticamente, fa una scelta precisa: il caos del dopo-bomba (o del dopo-chi-per-lei) rappresentato con effettacci di montaggio che altri amano definire "videoclippari", termine che in questo caso calza a pennello, vista anche l’importanza che riveste la – bruttissima – colonna sonora del riesumato Billy Corgan.

Insomma, c’è uno splendido Robert Englund che fa l’mc viscido e infernale di un locale viscido infernale facendosi fare fellatio da non-morte, ci sono pelli di bambini disciolte da piogge acide, ci sono conflitti familiari e almeno una bella zampata nel finale, ma tutto questo non basta a salvare un filmetto che si arrampica sugli specchi per arrivare all’ora di durata, e che, peggio ancora, non spaventa affatto e non fa nemmeno schifo. La sequenza del viaggio in auto? Difficile pensare a qualcosa di così malriuscito.

La diciassettenne Jessica Lowndes illumina il film ogni volta che è in campo (cioè quasi sempre), ma nemmeno questo serve. E’ più hooperiano Rob Zombie che Hooper stesso: un peccato.

Masters of horror, #1.02
H.P.Lovercraft’s Dreams in the witch house
di Stuart Gordon, 2005

Maestri dell’orrore (lo chiameranno così? arriverà mai sull’etere italiano?) passo secondo. Dopo il colpo di fulmine iniziale iniziale di Coscarelli, un passo indietro. Senza scomodare però le tragedie greche, perché se il film del regista chicaghese non rende giustizia al Lovercraft da cui è notoriamente ossessionato, è almeno diverso da come sarebbe potuto essere – in una parola: insopportabilmente trasho – confermando la sorpresa per quella cosetta strana vista a Venezia, Edmond.

Gordon sta forse crescendo, in una nuova maturità che rivive proprio nella misura del tempo breve, in cui forse non ha tempo di tirare fuori le sue pacchianate. Qui dirige, e dirige bene – nonostante un cast pietoso, quello sì, da serieB – un horror semplice semplice, condito di streghe e malefici, sacrifici umani e paradossi spaziotemporali, topi con la faccia umana e vecchie streghe nude, un bell’infanticidio e – solo verso la fine – una bella sciaquata di liquido rosso.

Cerca in tutti i modi l’angoscia di Polanski (qui esplicito nume tutelare), non riuscendoci del tutto (colpevoli alcune cadute come la citazione di Shining), spaventando molto meno del possibile, ma tirandone fuori un filmetto abbastanza sciocco e ingenuo da farsi voler bene. Si rimpiange un po’ il genio anarchico d(e)i Re-Animator, ma ci sta tutto.

Masters of horror, #1.01
Incident on and off a mountain road
di Don Coscarelli, 2005

Una ragazza viaggia su una strada di montagna, una canzone in sottofondo. Passa il tempo, ci facciamo le domande classiche: dove sta andando, da dove viene? La canzone è alla radio, lei cambia stazione, si distrae: incidente. Buio. Luce. La ragazza è al primo appuntamento con un tizio. Lui dice cose strane, a dirla tutta. Ma poco conta, perché a lei piace tanto. Vanno a casa di lui, si baciano sotto la pioggia, fanno l’amore. Buio. La ragazza si sveglia, sanguinante sul volante, e l’altra macchina è vuota. Ci dimentichiamo delle domande, perché l’incubo è appena iniziato.

L’antologia seriale creata da Mick Garris per la rete Showtime inizia col botto, e con i migliori auspici per i 12 capitoli successivi. L’autore di Bubba Ho-tep infatti, adattando (ancora) un racconto di Joe Lansdale, costruisce un film che, se da una parte – quella del presente – è purissimo horror, piacevolmente gore dal gusto seventies aggiornato ai tempi di Rob Zombie e Neil Marshall, dall’altra – quella del flashback – getta qualche provocazione originale, e soprattutto politica.

Per poi concludersi con lo sberleffo, con niente più che un gimmick stiloso: quando scopriamo la risposta alle nostre domande sull’inizio. Ma oltre al divertimento – è la dote principale, ed è massiccio – c’è anche una riflessione, sconcertante se la si vuole leggere, sul fascismo familiare come reazione alle minacce endogene, e sulla – tutta americana – misantropia paranoide. Coscarelli però le butta lì senza darci troppo peso, e si riconferma soprattutto un signor regista, con un film che – oltre a tutto ciò – trasuda passione per il genere, lo onora e lo ringrazia, e già che c’è, ci mette strizza. Bravo.