Messico

Hellboy II – The golden army, Guillermo del Toro 2008

Hellboy II – The golden army
di Guillermo del Toro, 2008

Ci interessa solo fino a un certo punto che nei quattro anni che sono passati da un film assai divertente ma riuscito a metà come Hellboy, grazie al successo dell’enorme Labirinto del Fauno, Del Toro abbia acquisito un maggior "potere contrattuale", per potersene uscire con un film davvero bello e sorprendente come questo Hellboy II. Quello che ci interessa di più è invece vedere come ormai le forme del cinema di Del Toro si siano cristallizzate e siano estremamente riconoscibili, deformando le tavole di Mignola fino a renderle, in toto, deltoriane. L’interminabile, favolosa sequenza hensoniana del Mercato dei Troll nascosto sotto il ponte di Brooklyn credo che parli da sé.

A questo punto il compito di ciascuno è decidere se questo stile piaccia o meno, se a ciascuno vada di ritenerlo già maniera o, appunto, una firma forte, e ferma. Va da sé, che qui s’è della seconda banda: Hellboy II è un film formidabile e formidabilmente migliore del precedente, proprio per il suo vivere separato dal suo contesto, divenuto (non se n’abbiano a male i fan di Mignola) quasi pretestuale. Per un’autonomia intellettuale e artistica che è tutta farina del sacco del regista messicano, e che si esprime peraltro con una libertà divertita e leggiadra che rende Hellboy II il vero "outsider" del cinema-fumetto all’interno di una stagione già felice per il "genere". Ma non si pensi che il regista si pieghi ai suoi stessi vezzi: come i più grandi registi di intrattenimento sanno fare, dove la priorità è sempre lo spettacolo, la personalità dell’autore e le regole (anche schematiche e a volte frettolose, perché no) del cinema-fumetto si sanno mescolare alla perfezione, senza fare a pugni.

Le scene entro le quali questa amalgama si esprime sono effettivamente quelle che vengono citate più spesso: e al di là dell’ottima realizzazione delle scene d’azione (come il combattimento contro la divinità elementale con il neonato in braccio, semi-citazione di Hard boiled), a colpire sono soprattutto alcune derive tipiche del regista. Che siano grottesche (quella del bambino-tumore è la quote dell’anno, senza alcun rivale) o poetiche (la strada di Manhattan che diventa un giardino) o assolutamente inaspettate come la scena, meravigliosae ormai celebre, in cui i due eroi si soffermano sdraiati sugli scalini, parlando di delusioni d’amore, ubriacandosi, canticchiando un canzone di Barry Manilow che poi esci e non ti togli più dalla testa.

Can’t smile without you.

[nel cinema sopra il quale si svolge la lunga sequenza del dio elementale proiettano See you next wednesday. Chi conosce e ama il cinema di John Landis l’avrà già sicuramente notato, ma non potevo esimermi dal segnalarlo]

La zona
di Rodrigo Plá, 2007

Quante volte si enumera tra le qualità di un film "la capacità di far scaturire una riflessione sul conflitto sociale tramite meccanismi di genere"? Sarà una banalità, ma La zona sembra fatto apposta per farmela scrivere: e se contiamo che il film del quarantenne Rodrigo Plá è un esordio nel lungometraggio, l’acclamazione generale che lo ha accolto non sorprende affatto.

La zona è infatti un gran bel film di impressionante cupezza, che sa passare dallo stato di generale inquietudine che è proprio del contesto (un quartiere residenziale benestante, rinchiuso e protetto, al di fuori del quale, pochi centimetri fuori, c’è il Messico vero) alla più nera delle prospettive. Quella fortemente politica e altrettanto disillusa per cui le differenze di classe, tracciate da muri ben definiti – e talvolta concretissimi – di incomprensione, e di ghettizzazione socialmente accettata, non siano abbattibili dalla forza del caso, né tantomeno – quando sopravviene una sorta di violenta sopravvivenza xenofoba che ha qualcosa di tribale – dal trauma, e forse nemmeno dalla coscienza sovversiva delle pavide nuove generazioni.

Un cast di belle facce dure (come la coppia di spagnoli Daniel Giménez Cacho e Maribel Verdú, o l’eccellente Carlos Bardem), una regia tesa, ritmica ed emozionale, che non dimentica che sempre di una caccia all’uomo si tratta e si comporta di conseguenza, e una bellissima fotografia livida che trasmette perfettamente il senso di angoscia dei personaggi – e della loro piccola società decadente.

Babel
di Alejandro González Iñárritu, 2006


[13 cose che ho pensato e/o detto di
Babel negli ultimi due giorni.]

1. caro Alejandro, i tuoi film sono tutti uguali. Passi uno, passino due. Basta.

(potrei pure fermarmi qui)

2. nei film di Iñárritu, non solo va (o sembra andare) tutto a puttane: la cosa più inquietante di questa personale variante sadico/goliardica della Legge Di Murphy (con riserve: vedi punto 3) è che Iñárritu si diverte come un pazzo. E non solo a far star male i suoi personaggi. Ma a farli star male piano. A farli star male di più. Se Iñárritu uccidesse persone, non sparerebbe loro. Le farebbe soffrire il più possibile, poi le segherebbe in tanti piccoli pezzetti, che metterebbe tutti insieme su un pavimento bianco a riformare il corpo originario, e solo allora infierirebbe sul loro corpo morto svuotando un caricatore sui pezzetti stessi. Il tutto, ridendo a crepapelle. E inviterebbe gli amici ad assistere. Dai, tira un colpo anche tu. E non è nemmeno detto che non lo faccia.

3. che poi c’è la speranza, eh. Più speranza per tutti. Ma il signoreiddio che gioca a dadi era cosa vecchia e noiosa già prima.
3a. gesù, quale intrigante tendenza a far piovere sul bagnato.
3b. una cosa è il Caso, una cosa è il Culo.

4. già all’inizio pensi che Cate Blanchett sia un motivo valido per vedere il film fino alla fine, ma poi quella stronza passa tutto il film a lamentarsi.

5. il messaggio di Babel è: non viaggiate. Non andate da nessuna parte. Non uscite di casa.

6. i feticci di Babel fanno sorridere. Per dire, il fucile. Ma se davvero volevi fare anche un discorso politico, allora no, ecco, ridateci i feticci.

7. ci ho messo tre sessioni a vederlo. Nel giro di due giorni. Che due palle. Babel mi ha fatto venire voglia di vedere Happy feet.

8. lo ammetto, anche se è evidentemente appiccicata lì perché fa figo, la parte giapponese non è poi così male. Forse per quei silenzi insistiti, forse per la scena della discoteca, forse per Yakusho Kôji, o forse perchè c’è una giovane giapponese con il pelo all’aria per tutto il tempo.

9. caro Gustavo Santaolalla, che bellissimo nome. Ma pure tu eh, che due palle.

10. Gael baffuto, sempre piaciuto.

11. film come barzellette vecchie. Ecco.

12. salve, sono Il Finale Inguardabile. Vi ricorderete di me per film come il secondo film di Marco Ponti.

13. ho davvero voglia di scrivere un post serio su questo film?

[Cannes a Milano]

Pan’s Labyrinth (El laberinto del fauno)
di Guillermo del Toro, 2006

Nelle ultime settimane, recuperando gran parte delle sue opere (edite e inedite), mi sono affezionato molto al regista messicano: dopo la visione di questo film, salta agli occhi il percorso nettamente ascendente fatto da Del Toro in tutti questi anni (prendendo in considerazione solo le sue opere ispanofone): dall’interessante Cronos, al commovente El espinazo del diablo  – in uscita a breve in Italia – fino a questo nuovo film. Che è probabilmente – per ora – il suo capolavoro.

El laberinto del fauno è un film talmente riuscito, bello e magico, completo e affascinante, anche al livello più superficiale ma soprattutto scavando al di sotto delle mille suggestioni prese dalla storia e dalla cultura popolare, che basterebbe dire questo. Insomma, un consiglio spassionato, o meglio appassionato, di fronte a cui ogni critica – succede anche nelle migliori famiglie – risulta fragile e pressoché inspiegabile. Ma a questo punto è il caso di dire qualche parola in più, perché se ne merita.

Una fiaba colta e citazionista (Goya da una parte, Fleming dall’altra): ma non ci si deve aspettare un film giocoso e puerile, né l’esplosione di buoni sentimenti che pure ben si appaierebbe con il tono sognante del film. Come si è visto nei suoi precedenti, nei film di Del Toro la gente muore. E se torna nel mondo è solo per compiere una vendetta. Nel suo universo non c’è troppo spazio per la speranza, e il lieto fine, quando c’è, è stemperato dalla disperazione del sacrificio e da un pianto ininterrotto quanto coinvolgente, e qui, in particolare, l’interesse morbosamente realista dimostrato dal regista nella rappresentazione della violenza rende l’opera tutt’altro che un racconto per ragazzi (anzi, è decisamente cruento) e conferma Del Toro come maestro di un cinema pessimista, nerissimo e disilluso.

Riprendendo l’ambientazione bellica spagnola degli anni ’40 e costruendo quindi una sorta di "complementare narrativo" di El espinazo del diablo (qui siamo nel covo dei franchisti, là in un rifugio di dissidenti), Del Toro vi inserisce però anche la sua vena più spettacolare, quella delle scenografie barocche e dei mostri grossi, con un enorme rospo affamato di blatte, una tenera mandragola emofaga, e un terribile saturno manovedente, realizzando un nuovo e meraviglioso affresco della "fantasia al potere" in un mondo in cui l’unica speranza può sopravvivere – al dolore, alla perdita, alla morte – soltanto nei sogni di una creatura innocente. Ci vuole del fegato, a fare dei finali così.
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Certo, è "un film dove i tedeschi sono cattivi e i partigiani bellissimi e intelligentissimi", ma in una storia simile non si pretende certo che il male sia troppo sfaccettato. Anzi, è proprio la personificazione del male assoluto (favolistica anch’essa) che viene messa in scena attraverso la figura del Capitano Vidal – puro odio anche nei confronti di se stesso – a colpire al cuore più di tutto il resto. Oltre alla cura tecnica dei soliti collaboratori di Del Toro (gli splendidi quadri visivi di Guillermo Navarro e le musiche perfette di Javier Navarrete), e ovviamente alla prova decisiva della piccola Ivana Baquero.

Mostruosamente bello.


Giocano con noi Andrea, Astor, Ninja di Dio, Ohdaesu, Stranestorie, Violetta. Che cumpa.

Cronos
di Guillermo del Toro, 1993

L’esordio messicano di Guillermo Del Toro è un horror originale e inusuale che coniuga alcuni degli oggetti con cui il suo cinema avrà successivamente a che fare (come gli insetti, o i morti-viventi) con uno stile inedito e folgorante, fatto di silenzi e lentezze, di colpi di scena inaspettati, di svolte liriche commoventi. Un "film di vampiri", a tutti gli effetti, ma realizzato con un realismo che guarda alla malinconia quotidiana e che – pur mostrando la carne e il sangue in modo palese e a volte impressionante – tiene lontane gratuite o ridicole efferatezze, mescolato ad una cura visiva che si rifà al cinema (e ai fumetti) d’autore, esemplare sia nella composizione delle immagini (che poi raffinerà ne El espinazo del diablo, da basi simili e con lo stesso direttore della fotografia: Guillermo Navarro) sia nella costruzione narrativa. E se anche il film potrebbe risultare a tratti un po’ zoppicante (Del Toro era pur sempre un esordiente, anche se di enorme talento) riesce a far risaltare la bellezza delle interpretazioni (sopra tutti il favoloso Federico Luppi), e alla fine la storia dell’anziano antiquario alle prese con un marchingegno rinascimentale che regala la vita eterna (e quindi la resurrezione: non a caso il protagonista si chiama Jesús Gris, esplicitando le profonde radici cristiane di questo vampirismo) e poi con il potere e con la vendetta, è davvero toccante.

Invisibile nel nostro paese, ma da recuperare ad ogni costo.

Su play.com a 15 euro, edizione speciale. Devo dirlo?

The devil’s backbone (El espinazo del diablo)
di Guillermo del Toro, 2001

¿Qué es un fantasma?
Un evento terrible condenado a repetirse una y otra vez,
un instante de dolor,
quizá algo muerto que parece por momentos vivo aún,
un sentimiento, suspendido en el tiempo,
como una fotografía borrosa,
como un insecto atrapado en ámbar.

Dotato di un acuto occhio commerciale, il regista messicano ha fatto la sua fortuna con alcuni film girati per le major americane negli Stati Uniti (nell’ordine: Mimic, Blade II, Hellboy), alternando ad essi opere più personali e prodotte tra il suo paese d’origine e la Spagna. Dal suo esordio con Cronos fino ad arrivare al Laberinto del Fauno presentato in questi giorni a Cannes, Del Toro ha raccolto intorno a sè un nutrito numero di fan accaniti, entusiasti anche di quel cinema mainstream che Del Toro arricchisce con un "tocco" più personale (in effetti non era da tutti rivitalizzare Blade), ma il cinema ispanofono dovrebbe essere a rigor di logica quello dove il suo talento si presenta nel modo migliore. Si dice "dovrebbe" perché per i soliti (in)spiegabili meccanismi della distribuzione italiana un film di cinque anni fa come El espinazo del diablo deve ancora trovare il suo posto in sala.

Ed è davvero un peccato, perché questo film, coproduzione ispano-messicana prodotta dai fratelli Almodóvar, è davvero fuori dall’ordinario: ghost-story dai rimandi storici, tanto ben congegnati quanto effettivamente pretestuali (sembra che l’interesse di Del Toro sia individuale più che collettivo, nonostante la sceneggiatura abbia più di un rimando metaforico alla condizione mortifera del popolo spagnolo – e europeo  – post-bellico), si allontana decisamente dalle baracconate di Balagueró e si avvicina semmai al contemporaneo The others, con cui condivide più di un’atmosfera e di una suggestione, ma non le grandi-sorprese-narrative, preferendo una struttura che, rifacendosi a quella a flash-back (qui flash-forward), tende a portare il racconto verso una risoluzione dell’enigma legato alle immagini ellittiche presentate nel meraviglioso incipit ("que es un fantasma?").

Ma il film di Del Toro non soffre in ogni caso il confronto con il coevo e ben più celebre film di Amenabar, e offre a suo modo sia un horror magistrale, che trattiene gli spaventi (che comunque sono presenti) e gioca più che altro con elementi classici e contemporanei del genere – lo sguardo del bambino da una parte, la prevalenza simbolica dell’acqua dall’altro – e sulla tensione emotiva, sia allo stesso tempo una storia drammatica dove il punto di vista di un ragazzino abbandonato in una specie di orfanotrofio durante la guerra civile spagnola, grazie ad un continuo e abilissimo spostamento baricentrale, diventa quello di un gruppo di personaggi – "buoni e cattivi" – accomunati dai temi della perdita dell’infanzia.

In un film che non ha nulla da invidiare ai colleghi nipponici il cui trend stava per esplodere in quello stesso periodo, né a quelli americani da cui si riprende un certo livellamento dell’apparato filmico, molto benvoluto in questo caso perché rinuncia ad una possibile autorialità di nicchia (forse inadatta ad un simile racconto) in cambio della totale piacevolezza del racconto, Del Toro mostra però di essere anche un regista attento e maturo, capace sia di usare la splendida fotografia del sempre ottimo Navarro per restituire un coltissimo immaginario iconografico della Spagna di quegli anni, sia di lavorare con gusto con gli effetti speciali (presenti ma "nascosti" con intelligenza) e con i movimenti di macchina.

Ma la cosa che conta di più, e che finora ho perlopiù omesso, è che El espinazo del diablo non è un semplice horror, ma è un film bellissimo, vibrante, commovente. Ma per spiegare questo avrei dovuto raccontare più del dovuto: dovrete scoprirlo da soli.

Battaglia nel cielo (Batalla en el cielo)
di Carlos Reygadas, 2005

Ci sono casi in cui è piacevole sentirsi presi per il culo, al cinema: a volte dimostra l’intelligenza o la sensibilità superiore del regista, e il fascino della manifestazione estetica di una *ipotetica* superiorità intellettuale è qualcosa a cui è difficile resistere. A dirla tutta, càpita anche piuttosto spesso, di essere presi per i fondelli al cinema, e altrettanto spesso càpita di gradire la cosa con un sorriso tirato a metà della faccia. Arguzie.

Ma questo non è decisamente il caso, perché Batalla en el cielo, promosso da una campagna pubblicitaria che faceva presa sulle scene di sesso – effettivamente molto esplicite – è un film sostanzialmente inutile, un pacco d’aria fritta e tragicamente noioso ma travestito – e travestito molto bene – da cinema "art house". Ma davvero basta una provocazione davvero forte (come la fellatio che apre è chiude il film) ad innalzarlo sopra la media dei tentativi andati a buca, o è solo – appunto – una vacua e programmatica provocazione, insomma, un mero pompino?

L’impressione è che Reygadas abbia delle cose da dire, e a volte le dica piuttosto benino, con l’aiuto della bella fotografia di Vignatti (che però gioca quasi solo sulle focali corte, e la tattichetta mostra la corda dopo una mezz’oretta) e alle scenografie spoglie, ma anche che queste cose siano decisamente poche. C’è materiale per una ventina di minuti: per il resto, il regista di Japòn si arrabatta a tappare i buchi con lunghissime e inutili panoramiche, che tornano sempre al punto di partenza come se volesse dirci qualcosa o come se volesse dire qualcosa – ma che stanno dove stanno solo per arrivare ai 90 minuti secchi.

Forse per uno spettatore *italiano* è difficile cogliere i mille riferimenti al presente messicano, ma altrettanto difficile è arrivare alla fine del film senza perdere la pazienza. Però almeno una promessa è mantenuta: Anapola Mushkadiz.

Santa sangre
di Alejandro Jodorowsky, 1989



Sotto "consiglio" di un blogger, e avendolo sotto mano grazie ad un altro blogger, ho deciso di buttarmi sul (finora) penultimo film di Jodorowsky. Le premesse non erano allettanti, vista la recente mezza delusione di El Topo. E invece Santa Sangre è, dei tre film che ho visto del regista cileno, quello che ho più gradito.



Pur non raggiungendo forse i momenti più alti della prima parte della Montagna Sacra, nel complesso Santa sangre è un film migliore: perché sa unire il gusto simbolista (e quindi composito, accumulativo, surrealista) dell’autore a un minimo di coesione narrativa. In più, non si sente la puzza di ambizione irraggiunta dietro ogni scelta, c’è più ironia e meno sarcasmo (la sequenza del pianoforte è, passatemi il termine, molto divertente) e la regia è più che buona (a volte ottima, come nel volo iniziale, o nella scena dell’omicidio della spogliarellista, o in quella impagabile dello spettacolo teatrale, o nel "bacio volante", e basta così). E molto bella anche la colonna sonora.



C’è la mano della Argento Factory, e si vede: il film, almeno nella seconda parte, è uno slasher edipico. Da qui si discosta invece la prima parte, lunghissimo flashback del racconto di un’infanzia perduta e di una maturità tracciata con il sangue, ancora sanguinolento ma più suggestivo e mistico. Molti hanno scomodato Fellini, ed in effetti c’è qualcosa vero (e il paragone rende tutto più interessante), a differenza, che so, di Big Fish. E’ in questa lunga e bella sequenza che ritroviamo lo Jodorowsky puro, così come nelle tre splendide parentesi oniriche (morire come un elefante, una pioggia di galline, gli zombie del senso di colpa).



Il finale psychico è molto bello, e, al di là dell’ottima trovata (che non racconto, e un po’ mi spiace perché ci sarebbero tonnellate di cose da dire), ha una dose di poesia e di tragicità che a quel punto non mi aspettavo.

Amores Perros
di Alejandro González Iñárritu, 2000

Intorno a un fatto-trauma, Iñárritu e lo sceneggiatore Guillermo Arriaga costruiscono tre storie ad incastro, accomunate dalla presenza di cani (spesso morti o moribondi), e da poco altro: solitudine e dolore, riscatti e seconde possibilità (previste, mancate o immeritate che siano).

Se il modello è evidentemente quello tarantiniano (l’inizio ricorda una delle prime scene delle Iene, e la struttura "a capitoli" richiama Pulp Fiction), Iñárritu si prende un pochino più sul serio, e il grottesco è molto limitato. Comunque, quello che interessa in fondo all’autore è solo il gioco del caso, l’incrocio dei destini, la confluenza degli eventi intorno allo shock.

Le tre storie sono interessanti, e se l’idea più originale è quel cagnolino sotterrato nel parquet insieme ai topi, trovata un po’ da serial-tv dell’orrore (o da B-movie) che mostra lucidamente l’idea che Arriaga ha della middle-class, forse la scena migliore è nel terzo episodio, quella in cui Emilio Echevarría si taglia la barba: ha una personalità che ruba la scena ai ragazzi violenti e incapaci di amare della prima parte. Peccato per l’assenza di emozioni (anche nella terza parte, più melodrammatica), perché il film è davvero ben congegnato e in alcuni momenti lascia senza fiato.

Può piacere o non piacere lo stile mobilissimo e nervoso di Iñárritu, e il suo interesse per la complicazione dei piani narrativi piuttosto che per un’incisività caratteriale. Forse si è gridato troppo presto al miracolo (perché 21 grammi è minore, soprattutto con il senno di questo), ma non gli si può negare un incredibile talento nel raccontare le sue storie: Iñárritu si dimostra qui un narratore intelligente e vitale, sanguigno ed eccellente.

El topo

di Alejandro Jodorowski, 1970

El topo è un film bizzarro e "unico", che prende un sottogenere ai tempi già abbastanza cristallizato, lo spaghetti-western, e lo mescola con una vena che unisce la tradizione ebraico-cristiana (il sacrificio cristologico, l’Eva tentatrice) a una matrice più propriamente mistico-buddhista (il monachismo ascetico, l’annullamento del sé).

Il risultato è interessante, e ammirevole la libertà simbolista che ancora tocca la mente e lo stomaco, e talvolta il cuore (come l’incipit, celeberrimo). Ma, come ne La montagna sacra, anche qui Jodorowski tende a ripartire il discorso e a dividerlo, con il risultato di ottenere qualcosa che funziona in un tutto che non convince affatto.

Funzionano il bagno di sangue iniziale, e soprattutto la cruda ultima parte, con la volgarità sodomita degli westerners e quel finale browninghiano e insostenibile. Non convince invece tutta la prima parte, ripetitiva e stonatamente sospesa nel tempo e nello spazio, con scelte narrative che si vogliono distaccare a tutti i costi dal genere leoniano, ma che portano a incompatibilità incolmabili. E che purtroppo, e soprattutto, annoiano.

Infine, se La montagna sacra allargava il suo afflato surrealista all’assurdità del presente, alla guerra e alla protesta giovanile, El topo si diverte più che altro a giocare con la sua idea di metacinema, accatastando e collezionando simboli. Che, alcune (troppe) volte, non portano da nessuna parte.

"Iberamericana ’04" – Volume 3

La canciòn del pulque

di Everardi Gonzalez, 2003

Documentario sul pulque, bevanda di origine vegetale, la cui pianta d’origine è in via di estinzione, con cui gli indios messicani su ubriacano da centinaia di anni. Vorrebbe essere un ritratto malinconico di una tradizione, quella della pulqueria, che se ne va a morire. Rischia di apparire come un gruppo di simpatici guappi sbronzi che cantano, urlano e declamano d’amore e morte. A momenti spassosetto e spesso semplicemente decadente. Tutto sommato interessante, ma trascurabile.