Amabili resti (The lovely bones)
di Peter Jackson, 2009
Se il nuovo film di Peter Jackson non funziona a dovere, a parer mio, la colpa può essere data, più che alla frammentazione dei suoi elementi visivi e narrativi, alla difficoltà nell’amalgamarli. Nonostante molte critiche si concentrino su aspetti più superficiali, legati magari a scelte specifiche del regista o a inconciliabili differenze nel gusto estetico, il problema più spiccato di Amabili resti sembra risiedere semmai nell’accettabilità e nella fluidità dei suoi contrasti – anche se, dopotutto, non stiamo parlando di un regista leggiadro ma anzi di un autore che ha sempre avuto la "gravità" tra le caratteristiche portanti della sua personalità.
Questo per dire anche che le scelte fatte da Jackson per raccontare la sua storia sono tutt’altro che scorciatoie: Amabili resti è anzi senza dubbio uno dei suoi film più adulti, forse il più programmaticamente duro e inquietante, a dispetto dell’impressione che la colorata visionarietà delle sequenze post-mortem e il messaggio di incontrovertibile e quasi religiosa speranza possono suscitare. Ma forse il regista neozelandese ha alzato persino troppo il tiro, e questo suo film strano e facilissimo da detestare perde per strada, soprattutto nella seconda parte, tutto l’impossibile equilibrio che si era voluto creare, quello tra la dolcezza e lo splendore visivo dell’immaginazione infantile e una storia cupissima, violenta e terrena, crudele e beffarda (la punizione del male da parte del fato, o di chi per lui, vale ugualmente come riscossa se non se ne è a conoscenza?) sulla perdita dell’innocenza – peraltro anche più ambiziosa di quel che sembri, perché non è solo quella di una ragazza e della sua famiglia, ma anche di un immaginario infantile tutto occidentale: "non erano ancora gli anni dei volti sui cartoni del latte", si dice nei primissimi minuti.
In questa opera sbilanciata e per molti versi "sbagliata", resta comunque molto di cui essere soddisfatti. Tra cui una prima parte sostanzialmente perfetta e la gestione magistrale dei meccanismi del thriller. Quando però interviene la parte ultraterrena, il film comincia a zoppicare: non che ci sia niente di condannabile di per sé nella vertiginosa immaginazione con cui sono composte le sequenze del post-mortem, derise a destra e a manca perché troppo sgargianti e kitsch (e non a torto) ma costruite su un uso liberissimo e sfrontato della rielaborazione onirica, soltanto questa parte così importante e sentita del film finisce per annacquare le cose migliori, che stanno tutte sulla Terra, come le sequenze tesissime e disperate che portano alla morte di Susie Salmon, annunciata fin dalle prime righe della sceneggiatura, rese ancora più angoscianti dalla regia di Jackson (tra cui l’uso saltuario del grandangolo, un vezzo che Jackson non ha mai abbandonato fin dagli esordi) e dall’interpretazione di Stanley Tucci. Come si è già detto: questione di equilibri sballati. Con una conseguenza positiva, però: che dopo un po’ si riporta il baricentro del film su quello che conta davvero, sul dolore e sulla rabbia di chi resta – permettendoci di chiudere un occhio (o due) sulla faciloneria con cui a tratti è guardata la strada di chi va.
Interessante vedere in questi giorni come si sottolinei spesso la distanza, anche qualitativa, dal romanzo (che purtroppo il sottoscritto non ha letto), senza accorgersi che questo è prima di tutto un film profondamente jacksoniano, e senza bisogno di scrivere "terra di mezzo": il regista ha fatto ancora completamente suo un libro molto amato, riuscendo anche stavolta a fare trasalire i fan del testo d’origine, e inserendo direttamente l’opera sul percorso iniziato da Creature del cielo – ma soprattutto da Sospesi del tempo, un film (bellissimo e purtroppo poco visto e conosciuto) in cui il regista aveva già espresso tutto il suo interesse nei confronti dell’esistenza dopo la morte.