Regno Unito

Skyfall, Sam Mendes 2012

Skyfall
di Sam Mendes, 2012

Uno degli argomenti più discussi dall’uscita di Skyfall, titolo numero 23 del franchise “ufficiale” di 007, è l’influenza sul film portata dalla trilogia del Cavaliere Oscuro diretta da Christopher Nolan. Uno degli articoli più divertenti sul tema, con tanto di esempi, è apparso per esempio su Underwire, ma l’impressione al di là del confronto specifico (che fa sorridere, ma lascia il tempo che trova) è che si tratti più che altro di una tendenza generale. Della risposta a una domanda che, finalmente, qualcuno ha cominciato a farsi anche ai piani alti: cosa succede a un marchio consolidato, abitualmente affidato a onesti professionisti disposti a nascondersi nella sua ombra, se viene dato in mano (sintetizziamo per amor di brevità) a un “autore”? L’idea di mettere Sam Mendes alla regia con uno script di questo tipo va in realtà a braccetto con la ricorrenza del 50° anniversario di Licenza di uccidere: più che un film di Bond in linea con la tradizione, Skyfall sembra più una riflessione sul suo stesso mito, sulla sua fondazione e rifondazione (non a caso si parte dall’ennesima morte/risurrezione di Bond), una pausa alla ricerca di una mappa tematica in un mondo in cui le regole (e la posta in gioco) sono radicalmente mutate, senza paura di scardinare qualche certezza divenuta forse un po’ rigida per il mercato odierno – si osa addirittura un accenno a una “origin story” – mettendo in scena un Bond più umano e fragile, che comincia a sentire il peso dei 44 anni dell’attore che lo interpreta. Per fortuna, però, Mendes non affronta il compito da primo della classe ma da vero fan: il film è pieno di ammiccamenti e citazioni, è costruito a “blocchi” che si muovono con lo spostamento da una location all’altra, e anche affrontato come un “normale” film di 007, mettendo da parte la dimensione autoriflessiva, Skyfall ne esce a testa altissima, come uno dei migliori esemplari della saga da molti anni a questa parte – forse meno sorprendente, brutale e tragico di Casino Royale ma infinitamente più compiuto e divertente. Oltre che splendido a vedersi: Mendes ritaglia per sé qualche momento di gloria (la clamorosa entrata in scena di Bardem) e lascia a briglia sciolta Roger Deakins, un grande direttore della fotografia, che se la spassa come un matto, soprattutto nell’isola giapponese e nel gran finale esplosivo in Scozia. L’intelligenza del cast (e la sua direzione) fa il resto del lavoro: se la M di Judi Dench acquista finalmente una tridimensionalità e una centralità narrativa degne della sua interprete e il nuovo Q di Ben Whishaw è un nerd appropriatamente irrispettoso, a colpire sono soprattutto la francese Bérénice Marlohe (avercene, di “bond girl” così) e, ovviamente, Javier Bardem: al di là di discussioni spiritose sull’efficacia del suo piano diabolico, è un villain immediatamente memorabile e diventerà un classico da antologia. Qualcosa di cui, negli ultimi film di 007, si sentiva davvero la mancanza.

Stupendi i titoli di testa firmati da Daniel Kleinman, accompagnati dalla voce di Adele.

The Woman in Black, James Watkins 2012

The Woman in Black
di James Watkins, 2012

Un horror inglese prodotto dalla Hammer, una volta abituatisi alla melodia della frase, sembra davvero un caso di condizioni produttive che influenzano artisticamente un’opera. Dopotutto, per sua stessa natura il film di James Watkins, alla sua seconda prova come regista dopo Eden Lake, sembra presentarsi come erede ufficiale di una lunga tradizione, quella di uno dei marchi per eccellenza del cinema di genere. Un horror d’altri tempi, insomma, volutamente desueto e “analogico”, in cui il montaggio sonoro e il make-up, le silhouette e la nebbia sono ben più funzionali degli effetti speciali odierni per provocare emozioni e spaventi. Il film non fa nulla per allontanare questa impressione: tratto da un libro di Susan Hill di una trentina d’anni fa e ambientato nella provincia inglese all’inizio del secolo scorso, è un ricettario, compiuto e piuttosto godibile, della ghost-story britannica che trae il massimo vantaggio da una sceneggiatura (di Jane Goldman, collaboratrice di Matthew Vaughn fin da Stardust) semplice e anch’essa volutamente inattuale e da una fotografia (di Tim Maurice-Jones, ex sodale di Guy Ritchie) che utilizza in modo intelligente la peculiare ambientazione storica e geografica. Curiosamente, il film non ha il suo culmine nella parte finale ma in una tesa e lunghissima sequenza centrale (quella in cui Arthur passa la notte nella casa stregata), perfetta antologia di trucchi e stilemi del genere, dalle apparizioni improvvise ai classici minacciosi scricchiolii. Verso la fine il film finisce per prendersi un po’ troppo sul serio, rinuncia a un po’ della sua gradevolissima obsolescenza (talvolta sembra persino strizzare l’occhio al j-horror) e chiude in modo poco convincente; ma rimane un suggestivo esercizio di stile, che peraltro permette al bravo Daniel Radcliffe il primo passo di una – probabilmente ardua – fuga dalla maledizione del typecasting.

Sherlock Holmes – Gioco di ombre, Guy Ritchie 2011

Sherlock Holmes – Gioco di ombre (Sherlock Holmes: A Game of Shadows)
di Guy Ritchie, 2011

Il primo Sherlock Holmes diretto da Guy Ritchie era stato, oltre che un enorme successo commerciale, una bella sorpresa: il regista inglese dopo qualche intoppo era tornato in piena forma, ripensando in modo personale uno dei personaggi più rappresentati della storia del cinema e della tv senza tradirne lo spirito originario, giocando con gli spettatori senza prendersi mai troppo sul serio e inaugurando una moda o forse, chissà, addirittura un filone. Il “secondo capitolo” non cambia molto le carte in gioco, bilanciando con l’arrivo di Mycroft (interpretato dal grande Stephen Fry, ovviamente spassoso) e della classica nemesi incarnata da Moriarty (un Jared Harris perfettamente in ruolo, lo sa bene chi segue Fringe) l’assenza di carisma di Noomi Rapace (che sostituisce la Irene Adler di Rachel McAdams) anche se, dopotutto, il rapporto di amicizia tra Holmes e Watson è diventato così allusivo e romantico da rendere quasi accessoria una qualsivoglia controparte femminile. Chiunque abbia una minima conoscenza delle storie di Holmes sa bene fin da principio dove andrà a parare lo scontro tra il detective e il professore, ma il problema della trama non sta certo nella sua prevedibilità quanto, al contrario, nell’eccesso di sceneggiatura: firmato dai coniugi Mulroney, lo script confuso e caotico, intricato senza vere giustificazioni. In generale, A Game of Shadows non aggiunge granché ai punti forti del primo capitolo (l’alchimia tra i due protagonisti, il fascino dell’ambientazione curatissima,  il contrasto con la messa in scena ipercinetica, l’idea del talento deduttivo di Holmes come sorta di “macchina del tempo”), ma questo non impedisce certo il divertimento in sé: Downey Jr e Law sono sempre irresistibili, gli scambi screwball tra i due sono ancora i momenti più divertenti, la confezione è sfavillante, e c’è almeno una sequenza d’azione memorabile (la sparatoria nel bosco) in cui Ritchie ha finalmente la possibilità di sfogarsi fino in fondo replicando, ma qui anche potenziando, le idee del primo film.

Hysteria, Tanya Wexler 2011

Hysteria
di Tanya Wexler, 2011

In occasione della sua uscita italiana, Hysteria è stato sottotitolato nei poster “l’eccitante invenzione del vibratore”, con qualche ammiccante puntino di sospensione. Le motivazioni promozionali sono palesi (una manna dal cielo per le divagazioni editoriali sul tema) ma nel film l’invenzione in sé diventa quasi marginale rispetto a tutto il legame tra il superamento della diagnosi di isteria e lo sviluppo delle istanze femminili in una società sessista e retrograda: un apparato tematico e narrativo che forse è meno curioso e “vendibile”, ma è decisamente più interessante – lo sa bene la Wexler, che ha studiato psicologia a Yale e voleva raccontare soprattutto quella storia, dimenticata dai più. Anche se alla fine Hysteria è una commedia romantica in costume dall’impianto piuttosto tradizionale, apertamente “britannica” nonostante la regista sia americana, con il protagonista nei panni dell’impacciato, candido e inadeguato dottore sballottato sentimentalmente tra due donne antitetiche con un contorno di comic relief e di cliché del caso (la prostituta dal cuore d’oro vale come esempio perfetto di entrambi) e una produzione adeguata nonostante qualche ostacolo. Un film grazioso e intelligente, storicamente ammirevole, sostanzialmente inoffensivo. Forse senza la presenza di Maggie Gyllenhaal, qui luminosa e bravissima, sarebbe stato molto meno convincente.

My Week with Marilyn, Simon Curtis 2011

My Week with Marilyn
di Simon Curtis, 2011

Era facile intuirlo, ma il film di Simon Curtis (al suo esordio al cinema dopo una lunga carriera televisiva), uscito dopo un’interminabile gestazione, riesce a stare in piedi o forse persino a farsi sopportare quasi esclusivamente grazie all’interpretazione di Marilyn Monroe fatta da un’incredibile Michelle Williams. Non era un’impresa da poco, vestire i panni di una delle più grandi e ingombranti icone del novecento senza cadere nell’imitazione fine a se stessa: lo dimostra la prova, piuttosto forzata e sempre a un passo dalla macchietta, di Kenneth Branagh in quelli di Laurence Olivier. Un compito svolto dall’attrice con una bravura davvero straordinaria, non solo o non tanto per l’impressionante fotocopia di Marilyn in cui è riuscita a trasformarsi, ma per la sua naturalezza e per la sua spontaneità; il resto del film, al contrario, è di un’ordinarietà abbastanza sconfortante: nonostante i tentativi di una regia piatta, senza idee e di una sceneggiatura che sceglie comunque e sempre tutte le strade più facili affidando unicamente al cast (impegnato in una tiepidissima gara di somiglianze) il compito di stupire il pubblico, il film soffre dello stesso comprensibile incanto nei confronti del mito di cui è vittima il personaggio di Colin, e in definitiva racconta l’incontro con una specie di distacco che la trasforma, di nuovo, in una figurina fascinosa ma bidimensionale: un vero spreco. Provoca quindi un fastidio ancora maggiore quella spiccata presunzione del film, forse ereditata dai testi d’origine, di aver trovato una chiave del mistero di Marilyn; meno male che la Williams, tutta da sola in barba alla mediocrità del film, riesce con una punta di ironia a suggerirci che anche quello di Colin, e per estensione del film, è l’ennesimo tentativo fallito di svelare il suo segreto.

La Talpa, Tomas Alfredson 2011

La Talpa (Tinker Tailor Soldier Spy)
di Tomas Alfredson, 2011

Sembra fin troppo facile dire che Tomas Alfredson, al suo esordio in lingua inglese, fresco del successo del meraviglioso Let The Right One In, porta nel cinema britannico la sommessa freddezza del cinema svedese – ma è una banalità non così lontana dal vero: La Talpa è sì un film d’atmosfera, costruito anche su una malinconica magia scenografica di insistito perfezionismo, ma impone al racconto un ritmo e una prospettiva del tutto originale, che restituisce al cinema di spionaggio un passo decadente e grave che sembra davvero appartenere alle corde del regista. Meno cerebrale di quanto possa sembrare e meno intricato di come ve lo raccontano, il film di Alfredson è una spy story inusuale ma a suo modo entusiasmante, in cui la vera differenza è data, in definitiva, dal modo in cui riesce ad aprire squarci sulle singole vite dei suoi personaggi – ciascuno con il suo spazio d’azione, la sua storia necessaria, la sua pulsione, la sua motivazione e – per gli attori – la possibilità di mettere alla prova la propria abilità (in particolare, Benedict Cumberbatch e Tom Hardy sono due splendide conferme). Ma pur essendo popolato da un fenomenale cast di attori inglesi, La Talpa è letteralmente dominato dall’interpretazione gigantesca eppure priva di giogionerie, sempre volutamente sottotono eppure di impressionante, di Gary Oldman: già uno dei ruoli più memorabili della sua carriera.

Submarine, Richard Ayoade 2010

Submarine
di Richard Ayoade, 2010

Ambientato in Galles nella metà degli anni ’80, Submarine è l’opera prima di un apprezzato regista televisivo e musicale, noto però ai più per aver interpretato il ruolo di Maurice nella splendida sit-com The IT Crowd. Ma nel raccontare la storia di Oliver Tate, quindicenne che cerca di sfuggire alla quotidiana mediocrità dell’adolescenza (l’emarginazione sociale, il bullismo, il primo amore, la prima volta, la separazione tra i genitori, la paura della morte) trasformando la sua vita interiore in un intenso racconto cinematografico, Richard Ayoade è riuscito ad andare ben oltre ogni possibile aspettativa, realizzando un piccolo miracolo – un romanzo di formazione sentimentale incredibilmente coinvolgente e di strabiliante intelligenza, uno dei film britannici più belli e coinvolgenti degli ultimi anni. L’ha fatto sfruttando al massimo la bravura dei suoi due protagonisti Craig Roberts e Yasmin Paige (ma anche gli “adulti”, tra cui spicca Paddy Considine, sono memorabili) e inventandosi uno stile personale, spesso roboante e grafico, tra fumetto e cinefilia, ma basato su uno storyboard di grande precisione, e giocando sempre sul limite tra immaginazione, alienazione e una tangibile, sorridente malinconia. Un autentico gioiello, impreziosito dalle bellissime (di per sé, ma anche per come sanno dialogare con le immagini e con la storia) canzoni di Alex Turner degli Arctic Monkeys, un film semplice ed emozionante che ci chiede senza troppi pudori di innamorarci di lui – e a cui, francamente, non sapremmo come o perché dire di no.

Il film è stato presentato e acclamato a Toronto, al Sundance e a Berlino, per poi uscire nel Regno Unito lo scorso marzo; grazie alla co-produzione di Ben Stiller ha trovato anche una distribuzione negli Stati Uniti, riscontrando il medesimo unanime successo di critica.

Al momento non mi risulta che sia prevista un’uscita italiana.

Potete già acquistare le edizioni britanniche in dvd e blu-ray. E vi consiglio di farlo.

Jane Eyre, Cary Joji Fukunaga 2011

Jane Eyre
di Cary Joji Fukunaga, 2011

L’ennesimo adattamento (una trentina dai tempi del muto a oggi) del più celebre libro di Charlotte Brontë esaurisce di fatto quasi tutti i suoi sforzi inventivi nella prima metà: da principio con un’intelligente struttura a flashback che punta a reinventare la narrazione del testo originale; inoltre, con una regia (e un montaggio) che tendono a enfatizzare palesemente i caratteri più gotici e dark del racconto, avvicinando a volte Jane Eyre a un horror (burtoniano?) più che a un dramma romantico in costume. Da un certo punto in poi però il film, avviato con sicurezza da Fukunaga, va avanti da solo, tra uno spiccato paesaggismo (a dire il vero per nulla disprezzabile: sarà una banalità ma la fotografia di Adriano Goldman è la cosa migliore del film, per come riesce anche a dialogare con i sentimenti dei suoi personaggi) e un racconto che si dipana senza troppi scossoni verso l’inevitabile conclusione – seppure tronca rispetto al libro. Gran parte della forza espressiva del film è in verità buttata sui moltissimi e insistiti primi e primissimi piani, naturalmente fotogenici, di Mia Wasikowska: la sua è una Jane Eyre di straordinario e immediato impatto, capace di esprimere con una recitazione misurata la lotta interiore tra la passione e l’indole più indipendente del suo personaggio. Di fronte a lei il resto del cast, Michael Fassbender incluso, passa inevitabilmente in secondo piano.

Nelle sale dal 7 ottobre 2011

Attack the Block, Joe Cornish 2011

Attack the Block
di Joe Cornish, 2011

E’ curioso che due film, in realtà non così simili, come Super 8 e Attack the Block abbiano visto la luce nello stesso periodo, entrambi figli di una passione per il cinema fantascientifico coltivata nel medesimo terreno. Ma l’opera prima di Joe Cornish, che fa sfoggio dell’altisonante beneplacito produttivo di Edgar Wright, non è una riproposizione filologica come quella di Abrams, bensì una deviazione dal tema, che fa tesoro soprattutto della lezione della tv inglese degli ultimi anni, di serie come Skins o Misfits, ma più in generale della qualità dei prodotti seriali britannici. E i ragazzini del “block” non sono timidi e introversi, sono sbandati e sfacciati furfantelli di South London che giocano a fare i gangster e che, come da copione, si scontrano con un’invasione aliena. Ma al di là dell’apparente prevedibilità, il film di Joe Cornish – che non a caso è finito a scrivere Tin Tin per Spielberg e Ant-Man per lo stesso Wright – è davvero una delle più belle sorprese dell’anno. Persino più divertente di come ve lo aspettate, oltre che più horror e crudo di come si presenta: il regista ha un talento visivo notevole, il giovane cast accompagnato dal veterano Nick Frost è maledettamente incredibile (i migliori: John Boyega e Alex Esmail), il ritmo è implacabile con effetti spesso esilaranti, la sceneggiatura è un frullato irresistibile di citazioni pop e cultura urbana ma ha la capacità, ereditata proprio da autori come Wright, di diventare all’occorrenza “una cosa seria”, di modulare alla perfezione l’ironia sagace e l’intensità melodrammatica, e di trattare i suoi personaggi come meritano, con rispetto e passione. E per una volta, last but not least,  anche i mostri sono davvero stupendi.

Hanna, Joe Wright 2011

Hanna
di Joe Wright, 2011

Dopo Espiazione, Joe Wright si è fatto la fama di uno a cui piace sfoggiare la sua tecnica (nessuno scorda l’interminabile carrello sulla spiaggia di Dunkirk) e anche in Hanna non se lo fa certo dire due volte. Non c’è nulla di così sfacciato, ma il piano-sequenza alla stazione (che si conclude con un combattimento) e tutte le fughe della protagonista (come la prima nei sotterranei e, soprattutto, quella tra i container) sono senza dubbio dei gran pezzi di bravura che contribuiscono a impreziosire il film e a controbilanciare in qualche modo le sue debolezze. Hanna non è infatti tutto appassionante come i suoi momenti migliori (oltre ai già citati inseguimenti, c’è un incipit davvero fulminante), è più interessante nei suoi singoli elementi che nello sviluppo narrativo, conosce qualche momento di stanca e qualche personaggio fuori tiro (l’adolescente logorroica di Jessica Barden, il personaggio di Martin Wuttke) e verso la fine Wright, cede alla tentazione di parlare e di spiegare un po’ troppo. Ma al di là della confezione eccellente (ottima la fotografia di Alwin Kuchler) le sue virtù superano di gran lunga i suoi problemi – e in cima tra tutte ci sono la strabiliante Marissa Weigler di Cate Blanchett (Tom Hollander, che si sforza un po’ troppo per tirare fuori un tipico villain da cult movie, rimane nella sua ombra) e la colonna sonora dei Chemical Brothers, uno score capace di diventare, soprattutto nelle sequenze più concitate, molto più di un mero accompagnamento alle immagini. Infine, tra le altre cose, la conferma della bravura e del talento di Saoirse Ronan: sembra sempre nata per quel ruolo, qualunque ruolo interpreti.

Harry Potter e i doni della morte – Parte 2, David Yates 2011

Harry Potter e i doni della morte – Parte 2 (Harry Potter and the Deathly Hallows: Part 2)
di David Yates, 2011

Il capitolo finale della saga cinematografica tratta dai libri di J.K. Rowling, una delle più lunghe e produttivamente impegnative di sempre, oltre che tra le più radicali nel contesto del cinema cosiddetto mainstream, è a tutti gli effetti una “seconda parte” – ma è talmente riuscito da far brillare di riflesso anche l’altra metà: così come il film precedente si soffermava per l’ultima volta sulle relazioni tra i personaggi, prendendo tempo e dilatandolo in un’attesa snervante e ricca di dettagli indirizzati soprattutto agli iniziati, in questo film – come ci si poteva aspettare – viene rilasciata l’anima più spettacolare della serie. Deathly Hallows si rivela così, nella sua interezza, la chiusa ideale di un ciclo segnato prima di tutto da un percorso di avvicinamento alla morte che non ha molto a che fare con le impressioni date dai primi due episodi, circa un decennio fa, né con l’iconografia generale del racconto per ragazzi, in cui la simbologia del legame tra Harry e Voldemort, dello scontro inesorabile e infinitamente rimandato tra i due, trova ineccepibili giustificazioni narrative e una sua – altrettanto inevitabile – conclusione. Un finale che, tra i suoi meriti, ha quello di rimettere il personaggio di Potter al centro dell’azione, in una rivisitazione matura e dark del romanzo di formazione in cui il rito di iniziazione definitivo non è più la scoperta della mortalità ma l’accettazione della morte stessa, del proprio ruolo sacrificale tatuato sulla fronte fin dalla prima pagina o dalla prima inquadratura; ma anche quello di dare finalmente il lustro che merita a un personaggio ambiguo e affascinante come quello di Severus Piton/Snape, protagonista di un flashback/backstory autenticamente commovente. Harry Potter è stato in tutti questi anni un esempio di cinema per ragazzi avvincente e intelligente, capace di reinventare se stesso sulle sue pur solidissime basi, di crescere di film in film insieme ai suoi spettatori come un solo, amatissimo quanto ingombrante, progetto: e le quasi cinque ore che compongono la doppietta finale sono probabilmente il punto più alto di questo difficile equilibrio. Forse questo ottavo film è il più diretto, addirittura il meno complicato dal punto di vista dell’adattamento, ma è anche il più appassionante, il più spaventoso, il più intenso, il più trasparente e cristallino, oltre che quello produttivamente più compiuto e meglio realizzato. Abbiamo aspettato, spesso e volentieri ce la siamo goduta, a volte ci siamo lamentati, ma ne è valsa la pena: non a caso questo è uno dei pochi film a potersi permettere il lusso di includere la nostalgia di se stesso.

Bronson, Nicolas Winding Refn 2008

Bronson
di Nicolas Winding Refn, 2008

Mentre la stampa di tutto il mondo esalta le doti di Drive, suo ultimo film presentato a Cannes, Nicolas Winding Refn arriva nelle sale italiane in grande ritardo con il film che ha sancito da tempo il suo ruolo di beniamino dei cinefili europei: un biopic tratto da una storia vera, ma tra più inusuali mai visti sullo schermo, che nel raccontare la storia del “prigioniero più famoso del Regno Unito” sceglie strade antinaturalistiche, spesso anche antinarrative e sperimentali, passando con dimestichezza e un tocco di furbizia dall’avanguardia al pulp. Non a caso Bronson è stato paragonato da più parti ad Arancia Meccanica, con cui condivide in modo deciso alcune suggestioni e idee nell’uso dello spazio, nel contrasto tra le immagini e la colonna sonora, e più sottilmente un senso di inquietudine capace di parlare di coercizione sociale, con necessaria e dolorosa violenza stemperata da un umorismo feroce. Quello che colpisce di più in Bronson, oltre ovviamente alla performance sinceramente impressionante, sotto ogni aspetto, di Tom Hardy, è lo stile fiammeggiante e insieme rigorosissimo del regista: non sempre all’altezza del suo stesso talento, perché il racconto subisce dopo la metà una sonora ma riscattabile frenata (per quanto abilissimo a sfruttare il canovaccio del “mostro innamorato” ), Winding Refn non si limita a grandi intuizioni plastiche e ad acute provocazioni narrative, ma mantiene all’interno dell’estenuante ricercatezza delle inquadrature, persino degli stacchi di montaggio, quello che appare come un autentico studio morale. Ma affrontato, e qui viene il bello, con lo stesso pugno duro del suo protagonista: Bronson dopotutto è una forza che sembra provenire dalle viscere della Terra, e di fronte alla cui furia il sistema, paralizzato e inerte, non ha soluzioni, né mezzi, né risposta alcuna. Un super-uomo rinchiuso nella buia cella che chiama casa.

Il film è uscito in Italia lo scorso 10 giugno. Se non lo trovate più nelle sale o preferite vederlo in lingua originale, il dvd inglese è facilmente reperibile e molto economico.

Ladri di cadaveri – Burke & Hare, John Landis 2010

Ladri di cadaveri – Burke & Hare
di John Landis, 2010

Tra il 1977 e il 1985 John Landis, ai tempi all’incirca trentenne o poco più, ha realizzato un pugno di film amatissimi e che hanno condizionato il cinema americano in modi che intere filmografie di colleghi più fortunati di lui non hanno saputo fare; e a parte opere seminali e imprescindibili come The Blues Brothers e Animal House, o la commedia perfetta e chirurgica di Una Poltrona Per Due, alcuni di quei film erano di fatto autenticamente sperimentali: basti pensare al modo in cui commedia e horror si incontravano in Un lupo mannaro americano a Londra e senza cui forse non avremmo la horcom contemporanea; oppure ai cambi di registro di Tutto in una notte, quasi coeniani ante litteram; al sodalizio epocale con gli ZAZ in Ridere per Ridere che è stata la radice di tutto il cinema demenziale successivo; a quella vetta della storia del videoclip che fu Thriller nel 1983. Il lascito di quegli anni così lontani, a un quarto di secolo da Spie come noi, è ancora enorme e pesantissimo, e nonostante la decadenza implacabile degli anni ’90 e la dozzina d’anni di pausa dall’ultimo lungometraggio, Landis è davvero uno dei cineasti della nostra vita. Si attendeva da tempo un ritorno del regista di Chicago, come già quello di altri suoi colleghi, ma Landis è tornato dietro la macchina da presa in vesti inaspettate e inusuali – una produzione britannica, con cast britannico, per una vicenda profondamente britannica: Burke & Hare è infatti la storia di due assassini irlandesi che negli anni ’20 dell’ottocento uccisero 17 persone in Scozia per poter poi rivendere i corpi a illustri anatomisti. Tra le mani di Landis e degli sceneggiatori, le vicende di Burke e Hare diventano un film allegro e allegramente violento, nerissimo anche se leggero come l’aria, che utilizza al meglio le doti dei due interpreti (Simon Pegg e Andy Serkis) per recuperare il gusto puro della black comedy: tant’è, che il film è realizzato con uno stile e uno spirito narrativo e produttivo drasticamente fuori dal tempo. Ma non sempre dire di un film che è “vecchio” significa un insulto, non fino in fondo- soprattutto quando sotto alla polvere che si alza soffiando sulle pagine appare ben in rilievo la mano sicura di un grande professionista. Il cui talento, scopriamo con malcelata gioia, non è stato del tutto smorzato dall’inattività. Certo, ogni risveglio dal coma necessita una proporzionale convalescenza: insomma, c’è ancora tanto da lavorare. Ma come primo passo, beh, non c’è male. Bentornato, allora? Bentornato, allora.

Monsters, Gareth Edwards 2010

Monsters
di Gareth Edwards, 2010

Se non ne avesse parlato mezzo mondo prima di me, sarebbe facile etichettare questo film come una delle sorprese più curiose del cinema britannico dello scorso anno, forse la più curiosa in assoluto. In realtà la sorpresa è passata da un pezzo: ma vedere Monsters senza la possibilità di essere trascinati solo dalla sua originale peculiarità è un’esperienza positiva, perché si possono apprezzare anche le qualità specifiche del film in sé, la sua progressione rilassata e coinvolgente, la cura visiva, la sensibilità e la capacità di fare di necessità virtù con cui l’esordiente Edwards ha messo in scena ancora una volta l’umanità alle prese con l’ignoto, ma – come già aveva fatto l’eccezionale District 9 – spostando in avanti il baricentro temporale della narrazione: non più l’attacco, l’epifania, l’arrivo degli alieni sulla terra, ma “qualche tempo dopo”, quando gli alieni fanno ormai parte dello sfondo e agli esseri umani non rimane che continuare con la loro vita, costruendo sui confini della civiltà occidentale altri e nuovi muri invalicabili a separare le città da ciò che più le spaventa.

Ma forse c’è ancora qualcuno che non sa ancora di cosa si tratti: in tal caso, gli basti sapere che Gareth Edwards ha realizzato Monsters con un budget molto ridotto, girando nell’America centrale nel corso di tre settimane, a volte senza permessi, con una crew di sole sette persone e accumulando take differenti basati soprattutto sull’improvvisazione, chiudendosi poi nella cameretta per alcuni mesi a montare e ad aggiungere di persona gli effetti speciali – gli aerei, i carri armati e soprattutto i mostri. Che però nel film si fanno volutamente desiderare: Monsters è infatti “un film di mostri senza i mostri”, o quasi (in realtà ci sono), un aspetto che probabilmente ha fatto imbestialire alcuni ma che dà tutto il tono al film con il suo mescolare l’intimismo da cinema super-indipendente all’amore per il genere puro. Quello che Monsters rappresenta è anche in qualche modo anche una liberazione del genere dai limiti impressi dalle grandi produzioni, con la complicità di una democratizzazione tecnologica senza precedenti. Insomma, Monsters mostra senza dubbio, o consacra se vogliamo, un modo diverso di utilizzare al cinema i linguaggi e i canoni della sci-fi, ed è un passo importante che (ancora una volta: come già District 9) potrebbe causare sul lungo periodo dei piccoli sconvolgimenti – e non a caso Edwards sembra già aver dato il La ad altri progetti che condividono un’indole non dissimile.

Che questa sia la miccia di una rivoluzione culturale che aprirà le porte della fantascienza a nuovi modi di raccontarla, o che sia un esperimento destinato a finire nella massa dei cult movie, oggetti senza futuro che risuonano come specchio dei loro tempi (e Monsters lo è, fino nel midollo) una cosa è certa: che questo è un film imperfetto e semplice ma fatto con il cuore, nato senza dubbio da una piccola curiosità tecnologica ma in cui alla fine è la tecnologia a sparire dietro le naturali doti di narratore visivo di Edwards, che è un film che chiede pochissimo e restituisce molto, e che quell’incontro finale alla pompa di benzina, con la comprensione definitiva di una bellezza e di un amore che vanno al di là del bene e del male, non ce lo scorderemo così in fretta.

Il film è nel listino di One Movie e dovrebbe uscire nel mese di marzo 2011.

127 Ore, Danny Boyle 2010

127 Ore (127 Hours)
di Danny Boyle, 2010

Danny Boyle non è un regista dalle mani di fata, lo sappiamo bene. Danny Boyle è il tipo di regista che se deve raccontare di un tizio che rimane incastrato da solo e lontano dalla civiltà per 127 ore in un canyon con il braccio destro schiacciato sotto un masso, apre il film con delle immagini di aggregazioni umane, spiagge gremite, manifestazioni. Ma a Danny Boyle piace mettere le cose in chiaro e mettersi a fare cinema il prima possibile, piantare la tenda accanto al suo protagonista e non muoversi di lì finché non ha tentato il tutto per tutto. 127 Hours è la rappresentazione ideale di questo sforzo artistico, e se il suo non si può definire propriamente cinema sperimentale, non c’è dubbio che a Boyle piaccia sperimentare: nonostante l’ambientazione, come dire, “ristretta”, la narrazione non conosce mai fasi di stanca, anzi mantiene una tensione impressionante per tutta la durata proprio grazie alla ricchezza a volte frastornante del linguaggio, tra split-screen e flashback sempre più allucinati che vanno anch’essi ad affiancarsi al protagonista, come una sorta di preghiera laica che sfocia anche in un inquietante e visionario sogno di liberazione. “Il mio corpo reagisce in modo strano” e il cinema lo fa di conseguenza. Prima che entri in gioco l’attesa e violenta risoluzione della storia di Aron, la cui notorietà non la rende assolutamente meno allucinata e spaventosa: una sequenza in cui Boyle toglie del tutto il piede dal freno giocando in modo perverso, sadico ma in qualche modo liberatorio, con le immagini e soprattutto con il sonoro e che palesa una volta per tutte la natura di survival horror che il film sembrava voler celare, sintesi perfetta delle capacità registiche (non sempre espresse al meglio altrove) di Boyle e del suo amore per il cinema di genere. Con questo film, uno dei suoi più riusciti accanto a titoli come Trainspotting e Sunshine, Boyle è riuscito nonostante il contesto ad allontanarsi radicalmente dall’esperimento fine a se stesso per raccontare, con l’aiuto di James Franco (davvero incredibile, e non lo diciamo solo per simpatia) una storia appassionante di sopravvivenza, un’estenuante e assurdo confessionale umano fuori dai margini della civiltà, in un buco nero (con un quarto d’ora di sole) dove è possibile confrontarsi con gli abissi del sé, e liberarsene. Tutto, o quasi tutto, in due o tre metri quadrati.

Nei cinema dal 25 febbraio 2011

Il Discorso del Re (The King’s Speech), Tom Hooper 2010

Il Discorso del Re (The King’s Speech)
di Tom Hooper, 2010

È quasi inevitabile, un’accogliente tentazione, mettere a confronto il film con la pioggia di nomination agli Oscar che ha ricevuto proprio questa settimana, che ne vinca tanti o meno – e che si attribuisca o meno importanza a tali premi. E forse, visto il livello degli altri film nominati, e quindi della nutrita rappresentanza del cinema anglofono nel 2010, ho l’impressione che l’entusiasmo mostrato dai media e dagli addetti ai lavori nei confronti del film di Tom Hooper sia in qualche modo eccessivo.

Questo non significa che il film non sia bello o non sia riuscito: anzi, The King’s Speech è un ottimo lavoro, un film sostanzialmente impeccabile che ha scovato tra le pieghe della Storia una vicenda quasi del tutto ignota che è allo stesso tempo comicamente buffa e profondamente significativa dal punto di vista storico, umano e psicologico, su cui si è costruita una sceneggiatura semplicemente perfetta, bilanciata in modo magistrale tra dramma e commedia, ritratto psicanalitico e metafora storica. Dal canto suo anche Hooper, che di rielaborazioni storiche ne sa qualcosa, lavora compiutamente per combattere l’indole più teatrale del testo, riuscendo a dare (con l’aiuto del direttore della fotografia Danny Cohen) un carattere “cinematografico” a un film che ruota fondamentalmente intorno a una battaglia per reimpossessarsi della parola, tramite un uso insistito dei grandangoli per esempio, e trovando un’impronta molto personale nella costruzione delle inquadrature. Ma in definitiva, se The King’s Speech è una gran bella storia d’amicizia (quasi d’amore), forse è merito della sua capacità, piuttosto rara nel cinema contemporaneo, di far sentire bene il proprio pubblico senza farlo sentire stupido.

L’unica cosa che trovo indiscutibilmente eccellente e straordinaria in The King’s Speech è invece la performance dei suoi due protagonisti: non soltanto Colin Firth, sulla cui interpretazione umana e al tempo stesso virtuosistica di Re Giorgio VI è tatuata indelebilmente una meritata statuetta (che poi la vinca o meno, anche in questo caso), ma anche un incredibile Geoffrey Rush nel suo ruolo migliore da molti anni, un sidekick da antologia, in cui dimostra una gestione dei tempi comici e una vena deadpan semplicemente irresistibile. Alla fine, il film si regge quasi interamente su di loro: una missione quasi impossibile che questi due giganti riescono a compiere – e apparentemente senza alcuno sforzo. Hai detto niente.

Non lasciarmi (Never Let Me Go), Mark Romanek 2010

Non lasciarmi (Never Let Me Go)
di Mark Romanek, 2010

Ci sono libri il cui adattamento cinematografico è un’impresa ardua; altri sembrano nati per diventare un film: lo straordinario libro di Kazuo Ishiguro fa senza dubbio parte di quest’ultimo insieme, ma è anche un libro “ingombrante”, perché molto noto e molto amato, e quindi in qualche modo “un affare delicato” – a causa di una (spesso sterile) abitudine di molti appassionati lettori, quella di mettere prima di tutto a confronto qualitativo le due opere, a sempiterno scapito della seconda.

Per fortuna possiamo lasciare queste preoccupazioni alle spalle: l’ex regista di videoclip Mark Romanek, molti anni dopo il malaugurato incidente di One Hour Photo, e Alex Garland, già due volte sceneggiatore per Danny Boyle, sono riusciti con sublime semplicità a cogliere le qualità cinematografiche del libro e a tradurle in un impianto visivo e narrativo del tutto personale. Never Let Me Go è una delicata e mesta storia sulla scoperta della propria identità e sull’avvicinamento alla morte che ha il grande merito di concentrare tutta la sua attenzione sui tre personaggi, senza farsi portare fuori strada dalle sirene del romanzo distopico, dalle riflessioni etiche e politiche (che rimangono in secondo piano rispetto ai volti di Kathy, Tommy e Ruth) o dall’immediata bellezza della fotografia di Adam Kimmel. Non a caso viene dedicato più tempo alle vicende dei tre ragazzi cresciuti, forse meno fascinosa rispetto alla parte iniziale (quella ambientata nel collegio di Hailsham), ma tutta la sceneggiatura è un raro esempio di misura e di rigore, che la regia di Romanek riesce a tradurre in sofferta commozione.

Ottima la performance di tutti e tre i protagonisti: ma se Keira Knightley e Andrew Garfield sono semplicemente adatti ai panni che indossano e mostrano un’ammirevole abnegazione a un’opera così cupa, deprimente e favolosamente “uncool”, Carey Mulligan fa un passo più in là: la sua è un’interpretazione dimessa, trattenuta, dolente e assolutamente perfetta. Ed è lei che, dalla primissima inquadratura all’ultima, dona al film il tono, le tonalità, e l’anima.

Nelle sale italiane dal 25 marzo 2011

The Killer Inside Me, Michael Winterbottom 2010

The Killer Inside Me
di Michael Winterbottom, 2010

Ho visto The Killer Inside Me un paio di settimane fa ma non credo di avere molto da dire. Mi è piaciuto, anche se con le dovute riserve. Per dare un po’ di aria alla stanza, per l’occasione ho pensato di invitare a discuterne qui due amici blogger che la pensano in modo molto diverso sul film di Winterbottom: Giorgio AKA JunkiePop e Mattia AKA TobWaylan. Modera il sottoscritto, facendo meno fatica possibile.

Di cosa parla The Killer Inside Me? Raccontamelo.

JP: l’apice di una dissoluzione morale a cui solo l’essere arruolato nelle forze dell’ordine (dato che Casey Affleck, il protagonista, è uno sceriffo) conferisce uno scudo, una scusa per nascondersi.

TW: The Killer Inside Me principalmente tratta della violenza nascosta nell’ordinario e di come questa, una volta risvegliata, porti ad una lenta ed inesorabile disgregazione della normalità. Poi dovrebbe parlare anche dei meccanismi perversi di una mente criminale ma qui la sceneggiatura non riesce a valorizzare il nichilismo di Thompson (autore del romanzo) finendo di mostrare degli avvenimenti sì inesorabili ma anche privi di una vera e propria ragione.

La fotografia ha un ruolo molto importante nel film.

JP: io amo la fotografia di Stephen Shore, l’ho rivista parecchio in molte inquadrature. Non dico che sia stata ispirata, ma la compressione dei colori nell’apertura di spazi acuisce il senso di claustrofobia e violenza del tutto. Insomma sembra quasi cercare di costringere un mare in un bicchiere.

TW: la fotografia è quella che ci si potrebbe aspettare da un film ambientato negli anni ’50: desaturata come una vecchia fotografia e tanto rosa per opacizzare il tutto. Bella, non si può dire il contrario.

Winterbottom è un regista talentuoso ed eclettico o un cinico furbetto?

JP: Winterbottom ama disturbare col suo cinema, siamo passati dai suicidi di Jude alle trombate di 9 songs a Guantanamo. Il cinema di Winterbottom è questo, l’elemento di disturbo che rende la storia ad un livello ancora più profondo. A molti irrita, io lo trovo coerente.

TW: Winterbottom qui pecca di troppa sicurezza, forse accecato da un soggetto così imponente decide di eliminarsi e farsi schiavo di una sceneggiatura macchinosa (e schiava anch’essa, praticamente un macchinoso riassunto del libro, con battute citate paro paro) sicuro che le cose sarebbero andate bene lo stesso. Quel che io ho visto è stata una regia piatta e inesistente, priva di quella personale visione che differisce una trasposizione cinematografica dalla fredda illustrazione.

E Casey Affleck?

JP: quella di Affleck (è la seconda volta che fa un Ford bastardissimo) è la classica interpretazione che col senno di poi verrà giudicata sontuosa. L’altro lato di Robert Ford, se vogliamo metterla così, quello trovava alibi alle proprie bugie, questo ci rinuncia praticamente, mette le forze dell’ordine quasi di fronte al proprio io. A me ha ricordato parecchio il Volontè di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto.

TW: per fare il pazzo psicopaticato Casey Affleck è perfetto, forse troppo in questo caso. Sarebbe stato più giusto un attore dal fare più ordinario ma non mi lamento.

Il film mi è piaciuto, quindi sono più vicino al parere di JP. Ciò che mi ha convinto meno è invece il modo didascalico con cui si abbozza una lettura psicanalitica del personaggio. In particolare, c’è una scena in cui Affleck guarda lo scaffale dei libri, ci sono la Bibbia e L’interpretazione dei Sogni di Freud, uno accanto all’altro. Affleck prende in mano la Bibbia e trova tra le sue pagine un complesso edipico grosso così.

JP: ma secondo me in film come questo che osano il passo più in là per colpire lo spettatore il ritorno alla didascalia attenua gli effetti e riconduce la trama e i personaggi a una giusta comprensibilità. Metti Il nastro bianco di Haneke, ugualmente didascalico dall’inizio alla fine ma con una funzione di “paletto” della trama.

TW: Manco me lo ricordavo sto passaggio. È una chiara metafora di come la Bibbia sia il male originale.

Si è parlato molto delle scene di violenza nei confronti dei personaggi femminili.

JP: torno al Winterbottom disturbante. Levi pompini e trombate a 9 songs cosa rimane? Il suo cinema è questo, è parte fondamentale, quasi insostituibile in gran parte della sua cinematografia. Non solo questo, la violenza era parte cruciale dell’iter narrativo. Su American Psycho scusate, poi, per caso si facevano carezze con margheritine? Dipende cosa trasponi e chi lo traspone.

TW: polemizzare sulla violenza e urlare alla misoginia vuol dire non aver capito nulla di quello che il film vuole raccontare. In generale il post-femminismo è il male e non ce ne libereremo mai.

È arrivato il momento di convincere i lettori.

JP: Andateci e non voltatevi nelle scene fondamentali, se perdete quei 3/4 minuti perdete il cuore del film. The killer inside me è un film raro, e non intendo con questo dire sia un capolavoro, ma un film concreto, sostanziale e soprattutto scritto come poche altre cose in quest’anno.

TW: The Killer Inside Me è un film privo di personalità dove Jessica Alba è più cagna del solito e tutti gli altri attori a parte Affleck sembrano macchiette. Non voglio convincervi a non vederlo, voglio convincervi a risparmiare quei 5 / 7 euro di biglietto ed investirli nel romanzo (e non fatevi fregare dalla nuova edizione post film da 16 euro, si trova dagli 8 in giù) per poi vedervelo a gratis facendovi prestare il DVD e capire cosa non bisogna fare quando si ha in mano un dannato capolavoro. Se poi in questo modo scoprirete Jim Thompson, ancora meglio.

Harry Potter e i doni della morte – Parte 1, David Yates 2010

Harry Potter e i doni della morte – Parte 1 (Harry Potter and the Deathly Hallows: Part 1)
di David Yates, 2010

Tra tutti i registi chiamati a dirigere di volta in volta i film tratti dai libri di J.K.Rowling, David Yates è quello che suscita meno simpatie – presso il sottoscritto, senza dubbio, ma anche in generale tra i fan e gli spettatori meno accidentali. Ma i suoi non sono brutti film, e nelle sue mani la saga ha continuato a essere piuttosto piacevole pur non sollevandosi più da una sorta di grigia medietà. Credo sia soprattutto per una questione di principio: ciò che rendeva particolare la saga prima del suo arrivo era proprio il differente approccio che Columbus, Cuaron e Newell avevano portato nelle storie potteriane, facendole passare attraverso i filtri del cinema per ragazzi, della favola dark, della commedia romantica. Yates ha contribuito a riportare la serie a risultati meno sorprendenti, forse più funzionali allo sviluppo narrativo e soprattutto alle esigenze della produzione.

Tra i Potter diretti da Yates, quindi, questo è decisamente il meno anonimo, e quindi in qualche modo è il più interessante. Ma per una ragione che potrebbe trovare più delusioni che entusiasmi nel pubblico, una motivazione legata strettamente a ciò che effettivamente accade in questo lasso di tempo: poco o niente. O meglio: gran parte del film è impiegata a risolvere questioni che attengono ai rapporti tra i tre protagonisti, intenti nel frattempo a spostarsi di nascondiglio in nascondiglio. Il senso è chiaro: risolvere issue personali prima di tutto, per poi buttarsi a capofitto nel finale “vero” e nella battaglia definitiva con Voldemort. Ma la figura che ci fa questa prima parte è quella di una lunga, lunghissima premessa, piena di attese (talmente insistite da includere in una scena una sorta di autoparodia) che forse si poteva tagliuzzare qui e là e che, come fa notare giustamente Gabriele Niola, non si capisce come possa interessare una generazione (o più in generale una platea) che si autoproclama iperattiva e ipercinetica.

E se l’altra caratteristica dei film di Yates è il loro essere sempre più delle opere per iniziati, che richiedono insomma una sorta di fresca preparazione, se non sui libri almeno sui sei film precedenti, I doni della morte la porta all’estremo: personalmente ho fatto molta fatica a seguire le vicende, soprattutto il namedropping continuo, e ho trovato buffo che spesso nel film siano i personaggi stessi a fermare l’interlocutore chiedendo “eh?”, “cosa?”. E soprattutto: “chi?”. Certo, non mancano le buone invenzioni e i momenti riusciti, Yates ci mette qualche idea di regia in più, il film è tematicamente molto forte nonché molto più adulto dei precedenti (senza tirare in ballo il sangue e il ruolo prominente che ha qui la tensione sessuale tra i tre protagonisti, Azkaban era un film sulla paura, questo è un film sulla paura della morte, fate un po’ voi), e questa indole un po’ più autoriale-tra-virgolette e un po’ meno luna park credo non faccia male a nessuno, ma l’impressione è che potremo giudicare le scelte di questa prima parte soltanto quando avremo visto la seconda.

Scott Pilgrim vs. The World, Edgar Wright 2010

Scott Pilgrim vs. The World
di Edgar Wright, 2010

Certe volte è solo questione di percezione, forse di prospettiva. Per alcuni Scott Pilgrim è un film con Michael Cera, per altri è un film di Edgar Wright. La distinzione nelle aspettative è tutta lì: in chi pensa o vuole pensare che l’attore tanto vituperato, spesso ingiustamente, possa essere considerato un fattore più che marginale all’interno della terza regia di uno dei migliori registi contemporanei dopo due enormità come Shaun of the dead e Hot fuzz. Personalmente, attendevo questa sua terza regia con una trepidazione senza pari: più di Inception, più di The Social Network. Sono quindi del tutto disposto a essere tacciato di pregiudizio: ero convinto che Scott Pilgrim avesse le carte per diventare il film dell’anno. Ora l’ho visto, e penso davvero che lo sia, il film dell’anno. L’avevo già deciso?

Posto che si tratta di un film immediatamente irresistibile e di fronte al quale, sinceramente, non riesco a immaginare si possa rimanere meno che abbagliati (se proprio non si deve stare per forza a battere le manine tutto il tempo come il sottoscritto) la cosa che ho trovato davvero sbalorditiva di Scott Pilgrim è il suo cercare e trovare strade nuove. Ci si lamenta spesso (altrove) di come il cinema contemporaneo non faccia altro che rimasticare ingredienti del passato, dissotterrare malinconie, redistribuire cliché? Edgar Wright parte dagli stessi presupposti, senza dubbio, ma l’inclusione del linguaggio dei videogame e del fumetto nella pellicola è totale, trasforma Toronto nel set di un platform indie visionario e delirante, mescolando l’orgia visiva con il linguaggio testuale delle disascalie, e pescando dalla loro sintesi anche tratti del tutto originali – come un montaggio che elimina dalla narrazione qualsiasi interferenza o momento di passaggio, concentrando tutte le energie sull’essenziale e facendone uno dei film più densi che si possano immaginare, evoluzione naturale di ciò che Wright aveva già mostrato in alcuni passaggi di Hot Fuzz. Tutt’altro che una commediola postadolescenziale per indie rockers: come i precedenti di Wright, è un film quasi sperimentale. Di certo è qualcosa di completamente diverso.

Detto questo, al di là di considerazioni che meriterebbero un’analisi più compiuta, Scott Pilgrim è un film mostruosamente divertente, scritto (da Wright insieme a Michael Bacall) con un’intelligenza e un’arguzia superiori alla media, spassosissimo come una commedia e adrenalinico come un action, con un ritmo travolgente, una colonna sonora stupenda e un cast strepitoso – tra cui spiccano Kieran Culkin, Jason Schwartzman, Chris Evans, Aubrey Plaza e ovviamente la stupenda (e stupendamente “normale”) Mary Elizabeth Winstead. Menzione d’onore per Ellen Wong, perché sennò la gente se ne dimentica. Insomma, un’autentica meraviglia visiva e narrativa che fonde effetti speciali perfetti a personaggi con un’anima e un cuore pulsante, uno di quei film che riguarderesti immediatamente una volta finito, uno di quei film per i quali bisogna inventare nuove definizioni. Per quanto vale, per quel che mi riguarda, un piccolo capolavoro. Altro che pregiudizi.

Poi c’è Michael Cera, sì. E sapete che c’è? È bravissimo. Oh.

Il film esce il 19 novembre 2010, lo stesso giorno della prima parte del settimo Harry Potter. Non potevo immaginare uno slot peggiore: probabilmente sarà un flop commerciale. Fate così: se siete d’accordo con me, anche parzialmente, sul valore e sulla bellezza di questo film, cominciate già da ora a spargere la voce. Mandate i vostri amici a vederlo. Magari funziona.