Oliver twist
di Roman Polanski, 2005
Oliver Twist, caso strano di eroe di un romanzo il cui protagonista è in realtà tutto ciò che sta fuori da lui, è come un perno intorno al quale gira il mondo. Ed è un mondo brutale e violento, quello che Oliver vede con i suoi occhi innocenti e impotenti, l’immagine di una civiltà fumosa e buia anche se accesa da timide candele di speranza, una civiltà che mangia i suoi figli brutti, sporchi e cattivi con il furore di un Saturno industriale. E fin qui, poco merito a Polanski, molto a Dickens. Eppure.
Eppure Polanski – anche se non non è amore in queste vesti, perché lo si preferisce quando osa e turba: non lo fa da undici anni – non forgia solo una rappresentazione fluida del mondo dickensiano limitandosi ad un dichiarato (ma solo apparente) adattamento-copycat, ma stupisce per come riesce, dopo un’abbondante metà in cui si segue facilmente il film e lo si apprezza moderatamente e senza alcun entusiasmo, riesce a seminare nei suoi personaggi una vorticosa profondità.
E sono questi i tratti più distintivi del film, sono i cambi di rotta dei personaggi. O la loro feroce coerenza. L’urlo di Dodger dalla finestra, la fatale barbarie di Sykes, e soprattutto Nancy: il suo dolore, la sua rassegnazione, il suo gesto martire, le sue urla e la sua morte. Un rivoletto di sangue all’uscio è il suo lascito umano: brava, bravissima Leanne Rowe.
E ci pare pure strano, ma è difficile non rimanere commossi durante la sequenza finale, durante i passi infiniti nel buio del carcere, verso la cella, verso la preghiera, verso il perdono. Che lo sai, te lo aspetti, ma ti stringe comunque il cuore. Solo questione di professionalità, forse, ma Polanski ne ha ancora da vendere.
E non si faccia l’errore di considerare Polanski un traditore che ha abdicato al classicismo: anzi, è anche (anche se non soprattutto) per film come Tess e Il pianista che lo amiamo, perché nonostante si appiattisse volutamente sul piano iconografico faceva scaturire il suo sguardo sull’essere umano – spesso impietoso e spesso impietosito – proprio da quei paesaggi calligrafici e/o da quei movimenti di macchina fin troppo calibrati.
E questa 26ma versione del romanzo dickensiano non fa eccezione all’eccezione stessa: non sapremmo che farcene, di un simile Oliver Twist. Eppure, eppure sì, ma sì, ci piace.