Romania

Oltre le colline, Cristian Mungiu 2012

Oltre le colline (Dupa dealuri)
di Cristian Mungiu, 2012

Cinque anni fa, 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni, vincitore della Palma d’Oro, ha imposto il nome di Cristian Mungiu come capofila del cinema rumeno. Il suo nuovo film, tratto da una terribile storia vera e anch’esso premiato a Cannes per la miglior sceneggiatura e per le due strabilianti attrici protagoniste, non sembra possederne la medesima immediata intensità drammatica: in verità, Oltre le colline è semplicemente un film che chiede qualcosa di diverso al suo spettatore, accumulando con una progressione lenta spietata una tensione impossibile e rimandandone la risoluzione in modo così snervante da accoglierla, in tutta la sua violenza, quasi come una liberazione. Riflessione morale, a tratti brutale, sui confini tra la fede e la ragione, Oltre le colline è attraversato da una strisciante quanto disperata vena di ironia che si trasforma inesorabilmente in tragedia e ambientato in un mondo follemente avvinghiato al suo integralismo, dove un medico prescrive insieme alle medicine di “leggere un po’ la Bibbia, che fa sempre bene”. Allo stesso modo, l’assenza di progresso narrativo (fortificata dalla bellissima fotografia di Oleg Mutu) avvolge e ipnotizza lo spettatore, mettendone in discussione le certezze; al momento del risveglio, ci lascia inermi e impotenti ad assistere, accanto a Voichita, sull’orlo dell’abisso.

4 mesi, 3 settimane e 2 giorni (4 luni, 3 saptamani si 2 zile)
di Cristian Mungiu, 2007

Qualche giorno fa è stata pubblicata una delle prime list cinematografiche di quest’anno ad avere una qualche rilevanza culturale: quella del Times. Secondo i critici del quotidiano britannico (e della sua versione domenicale Sunday Times) sono due i film di prima visione a meritarsi i "pieni voti", nell’anno del signore duemilasette. E se uno è Babel, scelta che prevedibilmente preferisco non commentare affatto, non lascia sorpresi che l’altro sia il film di Cristian Mungiu, trionfatore dell’ultimo festival di Cannes.

Non sorprende anche perché, in tempi recenti, sono pochi i film che hanno messo tutti d’accordo quanto quello del regista rumeno. Che riesce in ciò che naturalmente manda in visibilio tutti, proprio perché rarissimo da riscontrare, almeno con tale incontrastata purezza: ovvero, saper raccontare una storia profondamente radicata nei problemi del presente, mescolando sullo stesso livello i modi del cinema d’Autore europeo con i mezzi del cinema popolare. 4l3s2z è infatti sì una storia ambientata nella cupa Romania di Ceauşescu, ma – anche grazie alla scelta progettuale di evitare ogni tentazione di period-film, scelta per cui è difficile cogliere l’ambientazione, almeno fino alla sequenza della cena – anche e soprattutto un film su due ragazze costrette al trauma e al sacrificio, inermi nelle mani di un uomo nero, in una Bucarest nera e minacciosa come una foresta nera.

Il resto è tutto quello che avete letto dappertutto: in alcuni casi, di più. E al di sopra di tutto, la regia perfetta, magistrale e terrificante, del trentanovenne Mungiu, che gioca con sapienza per tutto il film, in modo consapevole e teorico ma non "glaciale", con il contrasto tra, da una parte, l’ostentato, il palese (gli infiniti piani sequenza, quello sguardo insistito sul feto che si è accollato non poche critiche) e, dall’altra parte, il celato (la violenza che annichilisce proprio perché solo gli "atti" sono solo accennati, attraverso un uso del sonoro e del fuoricampo che viene dritto dritto dal cinema horror).

Un film sensazionale ma non sensazionalista, che inchioda alla poltrona e colpisce sempre nel punto giusto, con coerenza e correttezza, ribadendo la vitalità crescente del cinema rumeno, e che si conclude con un debrayage spettatoriale, genialoide nonostante il sapore di beffa, ma che aiuta a rimettere i piedi a terra e a ricordarci, per un istante, che siamo ancora vivi.

California dreamin’ (Endless)
di Cristian Nemescu, 2006

Nel 1999, un piccolo gruppo di soldati americani arriva in un piccolo paesino della Romania: la popolazione sbigottita pensa bene di organizzare una finta festa di paese in loro onore. Diventeranno strumento personale per gli scopi di un sindaco bonario ma vigliacco, di un funzionario vendicativo (i cui bellissimi flashback in bianco e nero aprono i cinque capitoli/giorni che compongono il film), un’adolescente bellissima e annoiata, e molti altri personaggi.

Girato poco prima della scomparsa di Nemescu per un incidente d’auto – a soli 27 anni, e a vedere il suo film è difficile non rammaricarsene – e vincitore della sezione Un certain regard all’ultimo festival di Cannes, California dreamin’ è un film corale molto divertente e soprattutto intelligente nel raccontare una liberazione tardiva e ormai impossibile con toni che, richiamando vaghi echi di Kusturica (ma senza ottoni), vanno dallo sberleffo divertito dell’una e dell’altra parte al fascinoso e inquietante finale tra guerre civili e fuochi d’artificio.

Un film su impossibili desideri di fuga e di rivalsa che usa la sua durata normalmente impresentabile (più di due ore e mezza) nel modo migliore, prendendosi tutto il tempo possibile per raccontare un crescendo che non può lasciare indifferente e perdendosi qualche volta per strada, ma solo per giocare – un po’ sadicamente, ma che male c’è – con i suoi personaggi. E riuscendo a passare da uno sguardo cinico e impietoso a un affetto partecipato che copre però solo i personaggi più giovani, destinatari delle ultime speranze di un popolo rimasto fino ad ora schiavo soprattutto di se stesso.

Armand Assante fa un po’ la macchietta del soldato americano sull’orlo di una crisi di nervi (ma si difende benino), Ion Sapdaru fa una riuscita variante del personaggio di A est di Bucarest, Maria Dinulescu è semplicemente l’amore nostro.

A est di Bucarest (A fost sau n-a fost?)
di Corneliu Porumboiu, 2006

Mentre nella giornata di ieri il pubblico affollava (?) le sale milanesi per vedere il film rumeno che ha vinto a (semi)sorpresa la Palma d’Oro all’ultimo Festival di Cannes, il sottoscritto, sopraffatto dalla stanchezza, se n’è stato a casa a vedere il film rumeno vincitore della Camera d’Or l’anno passato, uscito in sordina anche nel nostro paese, dove ha conquistato non pochi cuori.

Se non è stata una sorpresa, dunque, è stata comunque una soddisfazione: A est di Bucarest è un film piccolo piccolo, costruito tra l’altro su una assoluta e progettuale semplicità (a partire dalla divisione in due parti eque e distinte), ma che riesce ad andare al di là della riflessione "locale" sulla storia della rivoluzione, per dire qualcosa di più che sensato, non solo sul rapporto tra Storia e Memoria, e tra memoria collettiva e individuale, sulla rivoluzione nelle strade e su quella che è dentro ciascuno di noi.

Ma anche sulla frustrazione dell’impossibilità del progresso in una Storia che sembra mordersi la coda., e davanti alla quale le Cose Che Sembravano Importanti non sono più altro che pallide e inutili ossessioni, in cui affoga la dimenticanza di quello che è rimasto di bello al mondo. Fuori può ancora nevicare, come un tempo (anche se solo per un giorno, "prima che torni ad essere fango"), e la speranza (lieve, ma intrisa di poesia) giace nella voce delle nuove generazioni.

Senza contare le risate incontrollabili (inaspettate, dopo una prima parte così sorniona) e almeno un monologo da pelle d’oca, quello dei fiori rubati e di un eroismo "da camera": il riscatto e il perdono sono forse l’unico eroismo possibile. E tutto questo con tre soli (bravissimi) attori, una telecamera claudicante, e uno squallido set televisivo. Provateci voi.