Spagna

Extraterrestre, Nacho Vigalondo 2011

Extraterrestre
di Nacho Vigalondo, 2011

Dopo l’esordio cinque anni fa con il sorprendente, geniale Los cronocrímenes, il regista spagnolo Nacho Vigalondo torna finalmente con un’opera seconda che ne riafferma il talento, l’umorismo e l’originalità. Extraterrestre è ambientato in una città evacuata a causa della presenza di un’enorme e misteriosa astronave nel cielo, ma la priorità del film, come quella dei personaggi, è il quadrangolo amoroso che si svolge all’interno delle mura di un appartamento – Julio e Julia, che si sono appena conosciuti e hanno passato la notte insieme; Carlos, il fidanzato di lei che torna all’improvviso; e Ángel, il vicino di casa, da sempre innamorato della ragazza. L’incrocio di desideri e di segreti causerà conseguenze inaspettate.

Vigalondo utilizza la fantascienza come un pretesto per isolare i personaggi, le loro pulsioni e le loro paranoie, realizzando un’eccentrica commedia romantica da camera sul potere della parola giocata su un incastro perfetto di inganni e manipolazioni in cui è coinvolto anche lo spettatore. Caratterizzato da un umorismo spesso sotto le righe ma a tratti esplosivo, al tempo stesso fisico e cerebrale, e da una brillante sceneggiatura in continuo crescendo e tesa come quella di un thriller che fa tesoro di ogni singolo dettaglio e oggetto (le palline da tennis, il vaso di pesche sciroppate), Extraterrestre è semplicemente divertentissimo ma è anche un film estremamente curato, oltre che preciso e ingegnoso da un punto di vista registico nonostante i limiti del budget. Il cast, poi, è favoloso, tenendo conto che due terzi del film si svolgono in un paio di stanze: Michelle Jenner è uno stupefacente e inconsapevole oggetto del desiderio, Julián Villagrán regala la giusta dose di ambiguità al suo personaggio e Carlos Areces (già protagonista di «Balada Triste») è spassoso nel ruolo del dirimpettaio petulante.

Una bellissima conferma.

Il film è stato presentato a Toronto lo scorso settembre ed è uscito in Spagna a marzo. Nessuna traccia del film tra le uscite italiane, per il momento. Però il film precedente di Vigalondo nel frattempo è uscito in dvd anche da noi con il titolo internazionale “Timecrimes“. Consigliato, anzi obbligatorio.

Balada triste de trompeta, Álex de la Iglesia 2010

Balada triste de trompeta
di Álex de la Iglesia, 2010

Nel mezzo della guerra civile spagnola, uno spettacolo circense viene interrotto dai militari e i clown sono costretti a combattere fino alla morte: uno di loro diviene il protagonista di un sanguinoso assalto che causerà il suo imprigionamento. Negli anni settanta, al tramonto del regime di Franco, il figlio rimasto orfano esordisce come “pagliaccio triste” in un circo di periferia dominato da un clown arrogante e dispotico, fidanzato con la seducente trapezista Natalia. Il nuovo arrivato se ne innamorerà, dando vita a un pericoloso triangolo.

Tra le firme più interessanti degli ultimi vent’anni di cinema spagnolo, Alex de la Iglesia  aveva già dimostrato in passato (suoi gli imperdibili La Comunidad e Crimen Ferpecto) di saper contaminare i canoni e spiazzare le aspettative del pubblico con uno stile eclettico e virtuosistico e un nero, nerissimo senso dell’umorismo. Ma con questo film fa un enorme, impressionante passo in avanti:  Balada triste è un film straripante ed eccessivo che mescola la commedia nera, il cinema horror, il melodramma e un’ambientazione storica ben precisa, raccontando una storia d’amore disperata, ossessiva e maniacale ma allo stesso tempo anche un tuffo nella pazzia la cui ferocia si rispecchia in quella della storia spagnola del novecento. Insomma, tutt’altro che un cult movie preconfezionato: nonostante l’approccio postmodernista, provocatorio e grottesco abbia radici già nei suoi primi lavori come Perdita Durango, qui De la Iglesia mostra una consapevolezza che va ben oltre la stravaganza e una bravura che lascia esterrefatti, confusi, eccitati e spaventati. Violentissimo e impulsivo, sfrenato ma curatissimo oltre che visivamente entusiasmante, Balada Triste riesce nell’intento di non farsi soffocare dall’evidenza e dalla forza delle sue metafore: è un grandissimo film di amore e follia raccontato con furia, passione ed eccezionale talento.

Non è semplice – o forse non è completo – parlare di Balada triste senza fare accenno alle traversie che l’hanno riguardato nel nostro paese, perché è uno dei casi più noti degli ultimi anni. Alla produzione del film, presentato a Venezia due anni fa, ha partecipato anche Mikado Film, che ne doveva infatti curare la distribuzione – ma le cui successive difficoltà ne hanno impedito l’uscita, pur essendo annunciata (con il titolo Ballata dell’odio e dell’amore e con tanto di trailer ufficiale) già dall’autunno del 2010 e poi di nuovo nel 2011, in sala e in home video. Per il momento il film si trova invece in una sorta di complicato limbo ed è complicato se non impossibile capire quando e se riusciremo mai a vederlo.

Per chi si fosse stufato di aspettare, il dvd spagnolo ha i sottotitoli inglesi.

Il titolo internazionale del film è The Last Circus.

 

La pelle che abito, Pedro Almodóvar 2011

La pelle che abito (La piel que habito)
di Pedro Almodóvar, 2011

In linea di massima, ho una conoscenza abbastanza approfondita dei miei gusti (e dei miei pregiudizi), ma nel caso dell’ultimo film di Almodóvar diverse reazioni particolarmente accese (di segno negativo, si intende) mi avevano convinto a tralasciarlo, a rimandarne la visione a tempo indeterminato. Fortunatamente ho deciso di tornare sui passi del mio (positivo) pregiudizio iniziale: La piel que habito è un film acceso e sorprendente, sregolato eppure terribilmente coerente, divertito e altrettanto divertente. Certo, è assai facile da disprezzare: scombinato, fallace (il finale moscio, alcune lungaggini, personaggi secondari abbozzati), esibizionista, e pressoché assurdo – che forse è anche un altro modo per dire passionale, sfrontato, provocatorio e vivo come sono i migliori film del regista. Che qui affronta temi a lui cari intrecciando ossessione amorosa e identità di genere ma filtrandoli attraverso un racconto che mescola il cinema horror d’autore con un melò fuori controllo; Almodóvar usa la splendida Elena Anaya come un’arma e sfida gli spettatori, le loro aspettative e le loro abitudini (soprattutto quelle legate alla narrazione e al transfert del desiderio sessuale) con perfidia e con ironia, con consapevolezza di sé (incluso il proprio stile e la propria filmografia) ma anche con una faccia tosta che può comprensibilmente attirare l’antipatia del pubblico: La piel que habito è un gioco che vive di un suo dettame interno che ha poco a che fare con il raziocinio e col rigore – ha tutto a che fare con la mania, la malattia, il tormento e – va da sé – con il cinema. Abbracciate senza troppe inibizioni le sue istanze, e accettato il fatto che non tutti i film di un regista amato debbano essere per forza intoccabili capolavori, La piel que habito è uno spettacolo follemente appassionante.

Con gli occhi dell’assassino (Los Ojos de Julia), Guillem Morales 2010

Con gli occhi dell’assassino (Los Ojos de Julia)
di Guillem Morales, 2010

Molte delle recensioni che leggerete o che avete letto del film di Guillem Morales prodotto da Guillermo Del Toro, che siano positive o negative, puntano il dito su un particolare: che è lungo, troppo lungo. Non del tutto a torto: giunto al punto in cui il cruciale svelamento di turno sembra aprire le porte alla sequenza finale, Los Ojos de Julia finisce per durare quasi mezz’ora in più. La conseguenza di questa insistenza si sente senz’altro, va a minare il ritmo e la struttura del film, ma fortunatamente non riesce a rovinare del tutto il buon lavoro compiuto dal regista, alla sua seconda prova, su spunti e temi che sembrano provenire più dal giallo all’italiana che dall’horror iberico, filtrato semmai attraverso una certa consapevolezza autoriflessiva ma senza troppe esplicite velleità cinefile. La maggiore originalità del film sta nella sua compatta ripartizione: diviso in parti che appaiono narrativamente ben distinte, il thriller di Morales prende direzioni che vengono di volta in volta mozzate dagli avvenimenti per poi ricominciare da capo – in tal senso la parte più efficace e inusuale è quella in cui Julia, bendata, viene a conoscenza con l’infermiere Ivan senza poterne vedere il volto, e noi spettatori con lei. Se gli sviluppi veri e propri della trama non sono certamente i più imprevedibili (anzi), Morales punta soprattutto a costruire un film teso e di grande atmosfera, girato con precisione e cura, fotografato splendidamente, con alcune sequenze favolosamente perfette (la sequenza dello spogliatoio è da antologia) e abbastanza intelligente nel giocare con la più classica delle riflessioni sullo sguardo – e anche sull’immedesimazione dello spettatore con quello dei personaggi: più che “con gli occhi dell’assassino”, come recita lo sciocco titolo italiano, qui si lavora al contrario sugli occhi della vittima, sulla loro assenza, sull’estensione di un “blind spot” che è alla base di molti meccanismi del thriller. In quasi tutte le altre recensioni che leggerete, vi diranno che Belén Rueda è rifatta dalla testa ai piedi. Non del tutto a torto, anche qui. Ma la sua è una prova davvero, davvero convincente.

Buried, Rodrigo Cortés 2010

Buried
di Rodrigo Cortés, 2010

“Le Cinémascope ce n’est pas fait pour des hommes, c’est fait pour les serpents ou les enterrements”
(Fritz Lang ne Il disprezzo, 1963)

Torniamo a parlare (dopo Frozen, che era ambientato per gran parte su una seggiovia ferma sopra una pista da sci), di film che rappresentano a loro modo una scommessa. Più impegnativa, in questo caso: un film di circa un’ora e mezza ambientato esclusivamente all’interno di una bara sepolta chissà dove. Esclusivamente. Il talentuoso Cortés infatti non ha alcuna intenzione di scendere a compromessi, non realizza flashback luminosi che permettano di respirare – eppure realizza con l’aiuto di un ispirato Ryan Reynolds un film assolutamente esaltante, un piccolo gioiello di puro intrattenimento sull’istinto di sopravvivenza.

In un certo modo, è anche un film anche molto coraggioso, quasi estremo – non a caso, è una produzione europea: non tanto perché non si sale davvero mai in superficie, ma perché si permette di fare cose come allungare l’esperienza fascinosa e terrificante del buio in sala (quanti film “commerciali” recenti ricordate in cui lo schermo rimane nero così a lungo, non a caso all’inizio del film, giocando tutto sui suoni?), giocare in modo crudele con l’orizzontalità del formato cinematografico e con l’inganno della quarta parete (quant’è straniante quando la macchina da presa si “allontana” da Reynolds verso l’alto) e riuscire in quei due metri cubi a utilizzare il linguaggio cinematografico con una ricchezza espressiva inaudita visto il contesto: un carrello veloce in avanti in una tomba? Ecco.

Certo, riconosco che c’è qualche ingenuità nel trattamento della materia più strettamente politica del film, centrale nello sviluppo della trama (di cui non racconto nulla perché io stesso non sapevo ed è stato più divertente scoprirlo al cinema) ma secondaria rispetto all’esperienza più fisica del film e alle considerazioni fatte finora; e poi, vogliamo ricordarlo, stiamo parlando di un film di un’ora e mezza circa esclusivamente ambientato in una bara sepolta chissà dove ma che tiene meravigliosamente botta per tutta la sua durata. Provateci voi, provateci. Il solito vecchio discorso: se vi metterete a fare banali osservazioni sulla batteria o sulla ricezione del telefono cellulare (domande a cui peraltro il film risponde, e con una certa perizia: giusto per intenderci) mi chiedo cosa ci andiate a fare, al cinema.

Nei cinema dal 15 ottobre 2010

Cella 211, Daniel Monzón 2009

Cella 211 (Celda 211)
di Daniel Monzón, 2009

Per ovvie ragioni, va molto di moda mettere a confronto alcuni recenti esempi di prison movie europei, e anche se spesso il paragone porta all’errore di ricavarne un "filone" che in realtà probabilmente non esiste affatto, è quasi inevitabile tener conto delle diversissime modalità con cui registi come Steve McQueen (Hunger), Jacques Audiard (Il profeta) e Daniel Monzón si sono approcciati al cinema carcerario – ma anche solo alla prigione.

In tal senso, Cella 211, che ha fatto incetta di Goya stracciando due pezzi grossi come Amenábar e Campanella, è senza dubbio il titolo più diretto, quello vicino al genere (o sottogenere) puro, ma non per questo si tratta di un titolo da sottovalutare. Anzi: questa storia sull’istinto di sopravvivenza nasconde una riflessione sul male che, nonostante il taglio vagamente politico, è più che altro una riflessione morale. E mostra soprattutto le doti del suo regista: Daniel Monzón, poco più che quarantenne e con poca roba alla spalle, ha un gran talento e un piglio duro e schietto, che non bada a fronzoli: comincia quasi subito e col botto (per restituire il contesto e delineare i personaggi c’è tempo: ecco a voi un uso intelligente e sensato del flashback), con i suoi personaggi è impietoso, crudele, quasi sadico. Una volta accettate le sue regole, e il gioco al rilancio, il suo film non perde un colpo che sia uno.

Impossibile però fare finta che un buon terzo della riuscita del film non sia dovuto alla monumentale interpretazione, ma anche solo all’impressionante presenza vocale, direi, di Luis Tosar nel ruolo di Malamadre.

Rec 2, Jaume Balagueró e Paco Plaza 2009

[Rec] 2
di Jaume Balagueró e Paco Plaza, 2009

Quanto aveva da aggiungere un sequel a quanto raccontato da Balagueró e Plaza nel sorprendente [Rec] ma anche a tutto il sottogenere, ormai classificato, dell'horror girato sfruttando il linguaggio e la tecnologia dei filmati amatoriali? Ben poco, direi: ma per quel che serve, anche il secondo capitolo, che inizia esattamente dove il primo finiva, fa il suo porco dovere.

Per dare uno stimolo alla cosa, si propone un metodo esponenziale: prima di tutto, la moltiplicazione degli sguardi nella prima metà del film, con tanto di schermo nello schermo e, in secondo luogo, il fatto stesso che il film sia diviso in due parti, con lo stesso segmento temporale analizzato da due telecamere e da due differenti punti di vista – molto significativi: degli addestrati soldati da una parte, dei ragazzini ficcanaso dall'altra, quasi a riferirsi a due approcci differenti al cinema horror. O forse è solo un caso.

Va da sé, il flm è sbilanciato già sulla carta: gli si può perdonare che la prima parte sia molto più debole della seconda (con un picco di interesse nella scena inauditamente violenta in cui la ragazzina spara in faccia al poliziotto) e che ciò che veniva solo accennato nel primo capitolo ceda qui un po' di spazio allo spiegone. E che gli zombi demoniaci non facciano più tanta paura. Comunque, sostanzialmente divertente, anche perché finisce prima che ci si riesca a porre il dubbio che sia completamente inutile.

Agora, Alejandro Amenábar, 2009

Agora
di Alejandro Amenábar, 2009

Se è vero che il film ha fatto così fatica a trovare un posto nelle nostre sale, non è difficile capire il perché: una delle sue caratteristiche primarie a livello narrativo è la totale identificazione con i "pagani" contro la presa di potere dei seguaci di Cristo nella città di Alessandria, a pochi decenni dall’Editto di Costantino. E di questi ultimi viene restituito un ritratto che raramente era stato più furioso: i cristiani sovvertono l’ordine costituito con il sangue e con il peso delle pietre, scagliate contro i politeisti, contro gli ebrei, le donne, e infine contro la stessa scienza.

Ma nonostante questa sia una scelta che segna fortemente il film, perché in fondo si tratta di una sfida aperta a una delle egemonie culturali più radicate al mondo, in Agora c’è anche molto altro – nonostante sia facile scambiarlo, se guardato da una certa distanza o in modo distratto, per il solito peplum modaiolo che inserisce trasversali romantiche in un contesto storico come è quello della caduta della biblioteca di Alessandria d’Egitto. Il romanzo c’è, e la storia della filosofa e matematica Ipazia (una stupenda Rachel Weisz) diventa anche un triangolo amoroso dai confini definiti, ma Agora è tutt’altro che un fumetto superficiale. E la differenza sta, ancora una volta, tutta nella prospettiva.

Narrativamente infatti Agora non gioca soltanto con il ribaltamento culturale, ma anche spingendo al massimo il contrasto tra l’ossessione di Ipazia per la cosmogonia e per la teoria di Aristarco (poi rivelatasi, come sappiamo, veritiera) e il caos che regna fuori dalle mura della biblioteca – come se la ricerca della Verità fosse l’ultimo baluardo per la salvezza di un’umanità trascinata tra guerre fratricide, lapidazioni, stupri e violenze dalla forza inarrestabile dell’irrazionalità religiosa. In tal senso, il finale del film è infinitamente tragico per sua stessa natura, proprio perché sappiamo bene che queste sono le basi di oltre 10 secoli di oscurantismo a venire: riuscite a immaginare una conclusione più cupa?

Ma la profonda personalità prospettica di Amenábar la troviamo anche a livello visivo: se molto del film, come già narrativamente, si rifà a meccanismi piuttosto ordinari o quantomeno riconoscibili, c’è tutta una parte del film in cui si osa affrontare le imprese dell’uomo da un punto di vista inedito che ha la forza di una presa di posizione, di uno sguardo sul mondo. Ovvero, le riprese dall’alto, tra inquietanti plongée che trasformano gli uomini in guerra in rumorosi insetti sporchi di sangue e le silenziose inquadrature del nostro pianeta visto dallo spazio che rimettono ordine e proporzione tra le cose del mondo. Noi uomini che ci ammazziamo sulla Terra, affogando la nostra ignoranza nel sangue dei deboli, e i pianeti e il sole che intorno a noi continuano a fare il loro lavoro.

Nei cinema italiani con Mikado dall’Aprile 2010

Gli abbracci spezzati, Pedro Almodóvar 2009

Gli abbracci spezzati (Los abrazos rotos)
di Pedro Almodóvar, 2009

Se il cinema di Almodóvar ha preso sempre più una piega definitivamente cinefila, di questo percorso Los abrazos rotos è probabilmente il punto di arrivo e il culmine: la mescolanza di noir e melodramma pesca sia dalla tradizione americana che da quella europea, ma questa volta si scoprono davvero quasi tutte le carte: quando in un film un personaggio si avvicina a uno scaffale pieno di dvd e comincia a elencarne i titoli è chiaro dove si voglia andare a parare.

Ma l’ultimo lavoro del regista spagnolo non è soltanto straboccante e strabordante di citazioni, spudoratamente compiaciuto nell’omaggiare il suo cinema del cuore (da Sirk a Malle a Visconti) e il suo stesso cinema (la riproposizione finale del metodo-Almodóvar anni ’80), ma è anche un’opera splendida a vedersi grazie alla fotografia satura e precisa (di Rodrigo Prieto, che viene da Inarritu) e soprattutto un film complesso e stratificato su una magnifica ossessione. Duplice: quella per una donna e quella per un film, per cui i nuclei narrativi come il triangolo amoroso e tematici come la scopofilia (una delle citazioni più palesi è quella di Peeping Tom, capolavoro di Michael Powell), rimandano sempre e comunque a un fattore comune: l’eterno abbraccio tra la vita e l’immagine, unite e insieme spezzate dalla lama bidimensionale di uno schermo.

Forse l’intenzione di girare la sua confessione definitiva di fronte all’altare del cinema, di "girare il suo 8 e mezzo" insomma (non a caso il film è presente nello scaffale di cui sopra) fallisce sotto il peso di una sceneggiatura che sa lavorare alla perfezione su stilemi dei generi ma che giunti alla resa dei conti non evita di dilungarsi in didascalie che parlano sicuramente meno di uno sguardo di Penélope Cruz. Ciò nonostante, è proprio in quest’abbraccio non più filtrato tra il regista e la sua arte che ritroviamo il miglior Almodóvar, ne riscopriamo la passionalità – e, qua e là, persino il genio.

Los cronocrímenes, Nacho Vigalondo 2007

Los cronocrímenes (Timecrimes)
di Nacho Vigalondo, 2007

Per raccontare che cosa succede nell’opera prima di Nacho Vigalondo avremmo bisogno di tutto lo spazio di questo post, ma forse non ne vale la pena: meglio immergersi a mente serena e vergine in questo piccolo delirio di paradossi spazio-temporali, gestito con mano sicura e una spettacolare ironia dall’esordiente, allora trentenne, regista cantabrico.

Vi basti sapere che c’è in ballo una macchina del tempo, un misterioso e minaccioso uomo con la testa fasciata, e una concezione del tempo immutabile che a un certo punto fa davvero girare la testa – ancor più per la precisione implacabile (nonostante gli innesti siano chiari ben presto a chi bazzica spesso e volentieri il viaggio nel tempo) con cui il film è scritto. Ma se Los cronocrímenes è uno scherzetto giocoso, i risultati non vanno presi sottogamba: consapevolissimo dei meccanismi di genere quanto di quelli che regolano il tempo immutabile, Vigalondo ha scritto e diretto un’operetta inquietante e beffarda che ammicca in modo divertito alla disgregazione borghese e che, una volta innescata la miccia, non lascia un attimo di scampo.

Il film, che è costato solo un paio di milioni di euro, è diventato un caso in tutto il mondo tra gli appassionati del cinema di genere: circolato tra i festival di genere per mesi, dove ha fatto incetta di premi, è uscito in Spagna nell’estate 2008, e negli USA alla fine dell’anno – riscuotendo un buon successo e meritandosi il prevedibile remake americano, in arrivo nel 2011. In Italia non se n’è nemmeno sentito parlare.

Nell’attesa che qualcuno se ne accorga anche qui da noi, c’è il DVD originale spagnolo, completo – pare – di sottotitoli in inglese. Disponibile, per esempio, sul sito della FNAC o su Starscafe.

Donkey Xote, Jose Pozo 2007

Donkey Xote
di Jose Pozo, 2007

Immagino che per uno studio d’animazione europeo (come l’iberica Filmax, che ha prodotto il film insieme agli italiani Lumiq) sia grande, e inevitabile, la tentazione di andare al di fuori delle applicazioni quotidiane, nell’ampia gamma che va dalla pubblicità ai cortometraggi, sfidando magari i campioni d’incasso d’oltreoceano con le loro stesse armi. Ma i risultati sono, nella maggior parte dei casi, fallimentari.

Non fa eccezione questa co-produzione tra Italia e Spagna, artisticamente molto più vicina alla seconda che a noi. Un Don Chisciotte raccontato dalla prospettiva equina: se l’idea non era del tutto malvagia, anche a costo di volgarizzare in modo becero e del tutto incontrollato l’opera di Cervantes, il risultato lascia del tutto a desiderare. E prima di tutto perché cerca di funzionare, da parassita, sulla base di simpatie pregresse – cibandosi fin dalla prima inquadratura dei resti di Shrek. Rucio non è che una replica malriuscita dell’insopportabile ciuco della Dreamworks? Passi replicare i personaggi, ma perché replicare i peggiori?

Con tutta la simpatia che l’operazione può suscitare, Donkey Xote è semplicemente un brutto film, e un film che vorrebbe far ridere a tutti i costi e non lo fa. Ma nemmeno sorridere. Ci si estende, al massimo, da un quieto fastidio al ben più fastidioso imbarazzo.

Nelle sale dal 31 Ottobre 2008

[REC]
di Jaume Balagueró e Paco Plaza, 2007

Se un annetto fa mi avessero detto che uno zombie movie diretto da Jaume Balagueró avrebbe attirato su di sé questa decisa massa di consenso, probabilmente ne avrei sghignazzato. Avrei potuto pensare semmai a un abbaglio dovuto ai tempi correnti – anche per via degli zombi, ma soprattutto per la scelta di girare il film interamente dal punto di vista di una ripresa semi-amatoriale (qui il reporter di una tv locale), con tutto quello che ne consegue (confusione degli statuti, real time illusiorio, eccetera).

E invece Rec ha anche tutta la nostra simpatia, ed è roba che ci piace: perché è un film fresco, velocissimo, divertente, per nulla stupido e davvero ma davvero pauroso. E poi, perché sceglie la strada migliore per riuscire a rimettere in carreggiata un progetto à la Blair with project. Ovvero, non cercando di amplificarlo o di superarlo o di rinnovarlo, ma asciugandolo al massimo, levandogli di dosso più orpelli teorici possibili, cercando più semplicemente di applicarlo in modo migliore. Soprattutto sotto il punto di vista dell’intrattenimento. E riuscendoci.

Per ottenere il massimo effetto, se sapete lo spagnolo ma anche se lo masticate un pochetto, riguardatelo in versione originale, senza sottotitoli, con buio pesto e cuffie insonorizzate al massimo volume. Poi non dite alle vostre coronarie che non vi avevo avvertito.

The orphanage (El orfanato)
di Juan Antonio Bayona, 2007

Scritto da Sergio G. Sánchez e diretto da Juan Antonio Bayona, entrambi all’esordio nel lungometraggio, e prodotto da Guillermo del Toro, che dà una certa impronta al film – ma soprattutto in materia di riferimenti, di ispirazione – El orfanato è uno dei film di maggior successo in patria nella storia del cinema spagnolo, è vincitore di ben sette premi Goya (nell’anno in cui i principali li ha presi La soledad), e non ha ancora una distribuzione nel nostro paese.

Robustissima ghost-story sul senso di abbandono e sulla perdita, condita con un mucchio di bambini inquietanti e una fantasmagoria che riconduce a un’affascinante concezione elastica della compresenza spazio-temporale, El orfanato si inserisce nel percorso di recupero e rinnovamento di un cinema fantastico dai toni cupi e pessimisti (ma dall’infinito potenziale commerciale) già intrapreso da registi come Amenabar e dallo stesso Del Toro – un cinema in cui l’unica fuga da un fato violento e spietato appartiene al mondo dell’immaginazione e che gioca ancora con astuzia e maestria con i materiali del cinema di genere – spagnolo ma non solo – del passato e del presente.

Curatissimo negli aspetti tecnici (scenografie, fotografia, costumi) e, soprattutto, impressionante nella gestione del suono e degli effetti sonori – veri e propri propulsori dei non pochi spaventi – il film di Bayona non sarà forse la pietra d’angolo del cinema spagnolo contemporaneo (e leggermente inferiore ai suoi modelli recenti), ma è comunque un film eccellente, emozionante e persino straziante nella rivelazione dei segreti che si celano dietro le mura della "casa stregata", nonché la conferma (corroborata dai fatti, e da un prossimo remake) che l’attenzione destata dal cinema spagnolo recente non era una fioca lanterna, ma una lucciola viva e pulsante.

Fa un certo effetto vedere quali sono i film locali che sbancano il botteghino in un paese come la Spagna (stiamo parlando di 8 milioni e mezzo di euro nel primo weekend, 25 milioni tra Ottobre e Gennaio) e quali sono i nostri. Come se non bastasse Zapatero a farci schiattare d’invidia.

Spia + spia – Due superagenti armati fino ai denti (La gran aventura de Mortadelo y Filemón)
di Javier Fesser, 2003

Dal titolo non si direbbe, ma il film live action di Mortadelo y Filemón, personaggi di un celebre fumetto nato in Spagna negli anni cinquanta dalla penna di Francisco Ibáñez, e uscito in Italia a metà Luglio senza che nessuno se ne accorgesse, è il secondo più grande successo commerciale del cinema spagnolo dopo The others, e il film più visto in assoluto nel 2003 in quel paese.

Ora, il fatto che da noi abbia tardato tanto per una volta è più che comprensibile*: ci mancano i riferimenti testuali e culturali, ci manca l’attaccamento ai personaggi, non conosciamo queste facce assurde (a parte un ironico Dominique Pinon in trasferta, forse il migliore del film). Quanto è difficile pensare a Aldo, Giovanni e Giacomo fuori dai confini di Milano, tanto lo è per Mortadelo e Filemón lontano da Valencia. E tanto meno siamo avvezzi a questa comicità fatta di gente che viene schiacciata da cose pesantissime ogni 5 minuti, e che può risultare indigesta in fretta. Il primo quarto d’ora, prima del titolo – con la mosca karaokofila e gli effetti del "demoralizzatore di truppe" – sono piacevolissimi, una via di mezzo tra un Jacovitti filmato e una Amelie cocainomane, ma più di un’ora e mezza così e uno rischia di diventare pazzo, o completamente scemo.

Ma in fondo, LGAdMyF non è altro che un cartoon (peraltro che usa il digitale con una certa consapevolezza), e come tale è abbastanza innocuo, magari fastidiosamente innocuo, ma una tale scemenza non fa male a nessuno e – nonostante l’iperattività adatta forse più ai bambini o ai nostalgici duri e puri – qualche risata la strappa. Dubito che per la visione in italiano si possa dire la stessa cosa: potendo scegliere, fate uno sforzo e vedetelo in spagnolo.


*nota: quanto detto sulla comprensibilità dei tre anni di ritardo nella distribuzione di questo film non giustificheranno
mai e poi mai la scelta dell’orrendo titolo italiano da parte dei distributori. Siamo alle solite, insomma. Vergogna.

[Cannes a Milano]

Pan’s Labyrinth (El laberinto del fauno)
di Guillermo del Toro, 2006

Nelle ultime settimane, recuperando gran parte delle sue opere (edite e inedite), mi sono affezionato molto al regista messicano: dopo la visione di questo film, salta agli occhi il percorso nettamente ascendente fatto da Del Toro in tutti questi anni (prendendo in considerazione solo le sue opere ispanofone): dall’interessante Cronos, al commovente El espinazo del diablo  – in uscita a breve in Italia – fino a questo nuovo film. Che è probabilmente – per ora – il suo capolavoro.

El laberinto del fauno è un film talmente riuscito, bello e magico, completo e affascinante, anche al livello più superficiale ma soprattutto scavando al di sotto delle mille suggestioni prese dalla storia e dalla cultura popolare, che basterebbe dire questo. Insomma, un consiglio spassionato, o meglio appassionato, di fronte a cui ogni critica – succede anche nelle migliori famiglie – risulta fragile e pressoché inspiegabile. Ma a questo punto è il caso di dire qualche parola in più, perché se ne merita.

Una fiaba colta e citazionista (Goya da una parte, Fleming dall’altra): ma non ci si deve aspettare un film giocoso e puerile, né l’esplosione di buoni sentimenti che pure ben si appaierebbe con il tono sognante del film. Come si è visto nei suoi precedenti, nei film di Del Toro la gente muore. E se torna nel mondo è solo per compiere una vendetta. Nel suo universo non c’è troppo spazio per la speranza, e il lieto fine, quando c’è, è stemperato dalla disperazione del sacrificio e da un pianto ininterrotto quanto coinvolgente, e qui, in particolare, l’interesse morbosamente realista dimostrato dal regista nella rappresentazione della violenza rende l’opera tutt’altro che un racconto per ragazzi (anzi, è decisamente cruento) e conferma Del Toro come maestro di un cinema pessimista, nerissimo e disilluso.

Riprendendo l’ambientazione bellica spagnola degli anni ’40 e costruendo quindi una sorta di "complementare narrativo" di El espinazo del diablo (qui siamo nel covo dei franchisti, là in un rifugio di dissidenti), Del Toro vi inserisce però anche la sua vena più spettacolare, quella delle scenografie barocche e dei mostri grossi, con un enorme rospo affamato di blatte, una tenera mandragola emofaga, e un terribile saturno manovedente, realizzando un nuovo e meraviglioso affresco della "fantasia al potere" in un mondo in cui l’unica speranza può sopravvivere – al dolore, alla perdita, alla morte – soltanto nei sogni di una creatura innocente. Ci vuole del fegato, a fare dei finali così.
.
Certo, è "un film dove i tedeschi sono cattivi e i partigiani bellissimi e intelligentissimi", ma in una storia simile non si pretende certo che il male sia troppo sfaccettato. Anzi, è proprio la personificazione del male assoluto (favolistica anch’essa) che viene messa in scena attraverso la figura del Capitano Vidal – puro odio anche nei confronti di se stesso – a colpire al cuore più di tutto il resto. Oltre alla cura tecnica dei soliti collaboratori di Del Toro (gli splendidi quadri visivi di Guillermo Navarro e le musiche perfette di Javier Navarrete), e ovviamente alla prova decisiva della piccola Ivana Baquero.

Mostruosamente bello.


Giocano con noi Andrea, Astor, Ninja di Dio, Ohdaesu, Stranestorie, Violetta. Che cumpa.

[biografilm festival 2006]

Selezione ufficiale, in concorso
La casa de mi abuela (Spagna/2005)
di Adan Aliaga (80′)

Marita e Marina, 75 anni e 6 anni, nonna e nipote. Si parla quindi del rapporto tra passato e presente, di ricambio generazionale, di ciclo della vita, bla bla. Aliaga ha molte buone intuizioni, soprattutto quando segue la bambina peregrinando sulla sua sgrammaticata vocetta off. La vecchina invece è una semplice vecchina scassapalle (Moira, dove sei?) che si lamenta dell’euro e della decadenza dei costumi. La casa de mi abuela ha il dono dell’immediatezza e della semplicità, a volte è poetico e divertente, ma più spesso prevale un effetto da filmino-fatto-in-casa assolutamente incredibile (come quando la bimba e la nonna ballano canzonacce pop dimenandosi nella stanza) oppure quella noia sonnacchiosa che ti fa appisolare volentieri. Piace, però, piace molto: per quanto mi riguarda, tazze e tazze di latte dalle ginocchia.

Volver
di Pedro Almodóvar, 2006

Volver è talmente almodovariano da sembrare un Almodóvar for dummies. Ma la maniera non disturba, in un autore simile: anzi, è stata proprio un’opera distaccata e cerebrale come La mala educatión ad allontanarlo da quell’emozione che faceva tremare di passione i suoi film precedenti. Volver è invece un tuffo o un tuffetto nel passato, nemmeno troppo remoto (da Tutto su mia madre in giù) con una storia lineare che si rifà – appunto almodovarianamente: ma che parola lunga – alla tradizione del romanzo popolare spagnolo, riabilitando ancora una volta la serialità "bassa" (e magari televisiva, rovinata dal trash, anche sbeffeggiato ma in modo un po’ autocompiaciuto all’interno del film stesso) e raccontando una storia di odi familiari malcelati, di omissioni e di perdoni, di maschi bastardi e immaturi messi da parte o dimenticati a tutti i costi, abbastanza risaputa – che importa in fondo? quello che conta sono i personaggi – ma coloratissima e messa in scena con magistrale perizia. Basterà?

Volver mescola un sacco di suggestioni: una strana ghost-story apparente che rimanda alla superstizione delle provincie e alle "chiacchiere da funerale", una commedia bizzarra che però non fa più che sorridere, programmi narrativi aperti e poi irrisolti (tutta la questione del bar, per esempio). Ma dove il regista fa centro sopra ogni stile ricercato o modello chiamato in causa (persino Visconti, ma così, un po’ a caso) è proprio il melodramma, l’iper-melò che tutti aspettavamo e in cui Pedro è maestro imbattuto, sia quando è caricato e montato con classe (tanto che si sarebbe preferito fosse tutto così, lucido ed enorme come gli occhioni di Penelope Cruz nella cucina, mentre guarda la sorella che le dice tutto su sua madre) sia quando è evidentemente immaturo e frettoloso (come la struggente confessione e mea culpa fatta da Carmen Maura su una panchina, col fiato corto quanto la focale che la inquadra).

Spero non si sia notato, ma non riesco a parlare molto scioltamente di Volver. Forse avrei voluto essere più coinvolto, mentre invece non sono riuscito a provare – pur nell’apprezzamento di un film quasi inattaccabile, e comunque relativamente allo straordinario cinema del regista spagnolo – alcuna vera emozione. O forse è il film stesso che aveva poco (di nuovo, e in assoluto) da dire?

The devil’s backbone (El espinazo del diablo)
di Guillermo del Toro, 2001

¿Qué es un fantasma?
Un evento terrible condenado a repetirse una y otra vez,
un instante de dolor,
quizá algo muerto que parece por momentos vivo aún,
un sentimiento, suspendido en el tiempo,
como una fotografía borrosa,
como un insecto atrapado en ámbar.

Dotato di un acuto occhio commerciale, il regista messicano ha fatto la sua fortuna con alcuni film girati per le major americane negli Stati Uniti (nell’ordine: Mimic, Blade II, Hellboy), alternando ad essi opere più personali e prodotte tra il suo paese d’origine e la Spagna. Dal suo esordio con Cronos fino ad arrivare al Laberinto del Fauno presentato in questi giorni a Cannes, Del Toro ha raccolto intorno a sè un nutrito numero di fan accaniti, entusiasti anche di quel cinema mainstream che Del Toro arricchisce con un "tocco" più personale (in effetti non era da tutti rivitalizzare Blade), ma il cinema ispanofono dovrebbe essere a rigor di logica quello dove il suo talento si presenta nel modo migliore. Si dice "dovrebbe" perché per i soliti (in)spiegabili meccanismi della distribuzione italiana un film di cinque anni fa come El espinazo del diablo deve ancora trovare il suo posto in sala.

Ed è davvero un peccato, perché questo film, coproduzione ispano-messicana prodotta dai fratelli Almodóvar, è davvero fuori dall’ordinario: ghost-story dai rimandi storici, tanto ben congegnati quanto effettivamente pretestuali (sembra che l’interesse di Del Toro sia individuale più che collettivo, nonostante la sceneggiatura abbia più di un rimando metaforico alla condizione mortifera del popolo spagnolo – e europeo  – post-bellico), si allontana decisamente dalle baracconate di Balagueró e si avvicina semmai al contemporaneo The others, con cui condivide più di un’atmosfera e di una suggestione, ma non le grandi-sorprese-narrative, preferendo una struttura che, rifacendosi a quella a flash-back (qui flash-forward), tende a portare il racconto verso una risoluzione dell’enigma legato alle immagini ellittiche presentate nel meraviglioso incipit ("que es un fantasma?").

Ma il film di Del Toro non soffre in ogni caso il confronto con il coevo e ben più celebre film di Amenabar, e offre a suo modo sia un horror magistrale, che trattiene gli spaventi (che comunque sono presenti) e gioca più che altro con elementi classici e contemporanei del genere – lo sguardo del bambino da una parte, la prevalenza simbolica dell’acqua dall’altro – e sulla tensione emotiva, sia allo stesso tempo una storia drammatica dove il punto di vista di un ragazzino abbandonato in una specie di orfanotrofio durante la guerra civile spagnola, grazie ad un continuo e abilissimo spostamento baricentrale, diventa quello di un gruppo di personaggi – "buoni e cattivi" – accomunati dai temi della perdita dell’infanzia.

In un film che non ha nulla da invidiare ai colleghi nipponici il cui trend stava per esplodere in quello stesso periodo, né a quelli americani da cui si riprende un certo livellamento dell’apparato filmico, molto benvoluto in questo caso perché rinuncia ad una possibile autorialità di nicchia (forse inadatta ad un simile racconto) in cambio della totale piacevolezza del racconto, Del Toro mostra però di essere anche un regista attento e maturo, capace sia di usare la splendida fotografia del sempre ottimo Navarro per restituire un coltissimo immaginario iconografico della Spagna di quegli anni, sia di lavorare con gusto con gli effetti speciali (presenti ma "nascosti" con intelligenza) e con i movimenti di macchina.

Ma la cosa che conta di più, e che finora ho perlopiù omesso, è che El espinazo del diablo non è un semplice horror, ma è un film bellissimo, vibrante, commovente. Ma per spiegare questo avrei dovuto raccontare più del dovuto: dovrete scoprirlo da soli.

[THE GAME – 1:2] Il Cinema Sporco

Tras el cristal
di Agustí Villaronga, 1987

Un occhio aperto, chiude la palpebra. Poi un obiettivo, il diaframma che si chiude. Controcampo, due piedi sollevati da terra. Controcampo, un uomo con una macchina fotografica. Controcampo, due mani legate. E’ già tutta qui, nella forza incredibile delle prime immagini, illuminate da lampi di luce iperrealista e gelidamente blu, tutta la forza e la pregnanza simbolica del film. Che poi si scopre sì – e presto – di genere, accarezzando l’horror nello scoprire la morte, corteggiando la Storia nei fotogrammi dei titoli di testa, e facendo dra(m)ma del suo protagonista. Un corpo ridotto a puro sguardo, all’interno di una tomba di vetro.

Di nuovo l’incipit: al di fuori della stanza, massimo abisso dell’abiezione umana, un occhio scruta, osserva, ama e odia. Siamo già noi, assuefatti in pochi secondi ad un atmosfera orribile e funesta, ma contratti, e attratti dalla fascinazione del male. E’ da chiaro fin da subito, che l’Angelo che apparirà alla porta della camera di Klaus siamo noi. Siamo noi, l’angelo sporcato per sempre e irrimediabilmente dalla bellezza della morte, o meglio dell’immagine(movimento) della morte. Siamo noi, lo sguardo puro del fanciullo che ripete i gesti del "padre", per compiere da un lato una vendetta impossibile, dall’altra la violazione di un percorso redentivo e suicida. Morire, no, non basta.

Il film di Villaronga è un film affascinante, tetro, lentissimo e violento, con un incipit incredibile la cui bellezza è difficile da reperire nel cinema europeo coevo. A volte imperfetto, quasi per scelta o per perdonabile ingenuità, ma con una serie sterminata di suggestioni cinematografiche e soprattutto linguistiche che non ci si aspetta da un film tanto sconosciuto, tantomeno dall’opera di un (ai tempi) film di un (ai tempi) esordiente. Un film che invece unisce sapientemente l’orrore della Storia all’orrore delle parole (una confessione rubata e poi riconsegnata), e mescola il miglior thriller italiano con il Peeping Tom di Powell, con cui condivide quello stesso sguardo insistito sulla morte e "attraverso" la morte, lo sguardo qui negato e poi ritrovato nello specchietto ribaltato di Klaus. Rovesciato, proprio come – appunto – un obiettivo.

Impossibile non stringere i denti davanti al sangue e al respiro soffocato della giovane vittima, ma il film, più che per le singole scene, di rarissima e feroce intensità emotiva, colpisce per l’atmosfera di decadenza totale e diffusa, che diventa quasi apocalittica, e che accompagna i volti (e soprattutto la casa, personaggio morente e piegato al fuoco) di Angelo, di Rena, e di Klaus. Quest’ultimo, uno straordinario corpo-immobile destinato a rivivere l’autocoscienza della propria morte, e legato al destino e al volere di Angelo. In fondo, forse, un vero e proprio angelo. Un angelo della morte, e della vita.

Gli altri giocatori:
AndreaGokachuInfamousOhdaesuPrivate
(i link appariranno entro poche ore)


I precedenti:
# 1.1 Rubber’s lover
#       Tutti

La comunidad
di Álex de la Iglesia, 2000

Svelato l’arcano: l’immagine del post precedente viene da qui.

La visione di Crimen Ferpecto mi ha spinto a recuperare qualcosa di un regista che avevo più volte accantonato. Idiota: per esempio, mi ero perso La Comunidad, una commedia nera, anzi nerissima, crudele, anzi sanguinaria, acida, anzi perfida.

Tutta ambientata in un condominio malandato e sozzo, con gran finale sui tetti di Madrid, la vicenda è – risaputamente – quella dei soldi che vengono trovati e che tutti vogliono, ma realizzata con una mano leggerissima nonostante gli omicidi, i corpi putrefatti, un corpo spezzato in due da un ascensore (!), con belle musiche hermanniane a manetta, grassissime risate e un sopraffino uso del citazionismo e del deja-vu. Bello davvero.

E il tono caustico di Iglesia non è solo per questo branco di avidi e assatanati madrileni: "l’animale più feroce è il denaro", dice un documentario alla tv. E come si ripete stesso, siamo tutti così, tutti. Carmen Maura in grazia di Dio, anche a 55 anni nuda sotto la doccia. Eduardo Antuña, mammone subnormale che butta i soldi delle commissioni nella madre con i videopoker, e si masturba vestito da Darth Vader e spiando la Maura, gemendo "Sento la forza!", è un colpo al cuore.