Spagna

Crimen perfecto (Crimen ferpecto)
di Álex de la Iglesia, 2004

Rafael è un uomo di successo, perché ha imparato la due semplici regole che reggono la nostra civiltà. L’immagine è tutto, perché la bruttezza è la prima fonte dell’infelicità. Prendersi sempre quello che si vuole, perché il desiderio è la seconda fonte dell’infelicità. Rafael è una specie di epitome della nostra società, la società dei centri commerciali dove lui lavora, e dove campionari di varia e squallida umanità si avvicendano tra gli scaffali fingendo, nascondendosi, rubacchiando.

Sul suo cammino di successo – che diventa anche sopravvivenza omicida – Rafael incontra Lourdes. Che è brutta e insopportabile, follemente desidera ed è fottutamente determinata. E’ insomma la forza che sovverte le regole del mondo di Rafael: per questo Crimen ferpecto è un film sottilmente – ma non troppo – anarchico. Perché è vero che gioca con meccanismi semplici e basilari, a volte barbari e inconsulti. Ma è vero anche che restituisce un’idea della modernità caotica e crudele almeno quanto la modernità merita.

Ed è innegabile che, a dispetto di una campagna pubblicitaria fuorviante, Crimen ferpecto sia uno spasso incredibile: inizio sgargiante (Rafael che limona con la figona sulle strisce pedonali), risate e cattiverie – ma nessuna inettitudine -, prefinale infuocato e finale, inevitabile, ma che si fa ugualmente apprezzare. Geniale il fantasma con l’accetta fumante nel cranio, scheggia freak che sembra venire da Azione Mutante. Altri tempi, grazie al cielo.

Inspiegabile il titolo italiano, vista la coproduzione nostrana. Che il nostro caro pubblico sia così stupido da capire una cosa spiegata esplicitamente nel film? Bah. A noi ci piace quello originale, a noi.

Viridiana

di Luis Buñuel, 1961

Il vero film di svolta nella carriera del già 61enne Buñuel fu prodotto in Spagna sotto il regime franchista: impensabile infatti che potesse uscire davvero in sala un attacco così caustico alla borghesia e all’iconografia cattolica. Angosciante fino all’orrore, teso senza mai una risata liberatoria, è uno dei suoi film più limpidi e seri: una riflessione cupissima sul male (identificato con l’animo umano, e non con una categoria sociale) e sull’innata decadenza delle virtù teologali: la fede è inutile se la carità porta solo alla disperazione.

Da applausi la scena dell’angelus, con l’Ave Maria recitata in giardino alternata con i rumori degli operai. La lunghissima sequenza della "festa" dei barboni, tra il vino e allegre blasfemie leonardesche, le orgette e il Messiah di Haendel, è ancora una bella scudisciata nella schiena.

Splendido.

Il Dvd italiano, edizioni San Paolo, è davvero disastroso. Ma credo che di meglio non ci sia, almeno in Italia.

L’uomo senza sonno (The machinist) (El maquinista)

di Brad Anderson, 2004

Brad Anderson, il cui Session 9 mi aveva convinto fino a un certo punto, da un soggetto semplice semplice ma abbastanza robusto dello sceneggiatore "per caso" Scott Kosar, abbonato ai remake, costruisce un film a sorpresa (ma non particolarmente sorprendente) inquietante e malsano. 

Si sente comunque una certa libertà produttiva, soprattutto nel ritmo ipnotico e implosivo. E si vede, questa sì piacevole conferma, che Anderson sa giocare bene con elementi basici (rumori, silenzi, corpi, spazi) più che con gli effetti del cinema industriale. Pochi soldi e qualche guizzo creativo (visioni, ripetizioni, filtri).

Ma la forza del film, senza la quale forse il film crollerebbe (è un’ipotesi), è l’interpretazione dello scheletrico Christian Bale: dimagrito fino all’invisibilità, è davvero il punto-limite dell’utilizzazione del corpo attoriale, e della sua visualizzazione sullo schermo, con effetti notevoli plastici, sottolineati però con molta veemenza da una sceneggiatura un po’ ingenua: "se dimagrissi ancora un po’, smetteresti di esistere".

Visto che di "scatola cinese" si tratta, e che di "film a indizi" se ne vedono ormai a vagonate (rendendoli quasi un para-genere, forse persino in declino), è interessante come The machinist si distacchi da molte produzioni recenti nel modo in cui amministra questa "sorpresa" finale: a Kosar non importa cosa sia vero e cosa meno (chiaro dal principio, speriamo volente), ma il come e il perché, che ci vengono rivelati nel finale.

Improvviso, intenso e malinconico, il finale esorcizza il motivo principale del film (il senso di colpa) e riesce a convincere senza troppi sforzi.

La mala educación

di Pedro Almodòvar, 2004

"Io non credo in Dio! Sono un edonista."

"Cos’è?"

"Sono quelli a cui piace divertirsi. L’ho letto sull’enciclopedia"

Ignacio ed Enrique, Manolo e Ignacio, Manuel e Juan, "La visita" e "La visita": chi non ha visto non capirà molto (meglio così), ma La mala educaciòn fa girare la testa, per il modo in cui è concepito. La struttura è basata sulla confusione (nostra, ma non solo) tra vita e cinema, con molti livelli di realtà che si intersecano tra di loro: prima di tutto il reale e il filmico (al tempo stesso metacinema e immagine mentale provocata da una lettura), e all’interno di quest’ultimo il presente e il ricordo (anch’esso a sua volta immagine mentale di matrice letteraria).

Tolto tutto questo, il film è sostanzialmente un melodramma, ma dichiaratamente noir: nella seconda parte un cinema dove due personaggi si nascondono proietta una rassegna di "cinema negro". Un personaggio dice: "Mi sembra che tutti questi film parlino di noi". Come a dire: è questo film a parlare di tutti quei film, dell’universo di di Hawks e Wilder, di quell’immaginario. Certo, un noir un po’ inusuale. Ma c’è l’intrigo di coppia e il tradimento, il mistero del doppio svelato, il gioco perverso delle identità, l’omicidio passionale.

Almodòvar è (ancora) un grande regista, non si può negare. La mala educaciòn è però un film tutto di testa, occupato ad affastellare piani diegetici, prolessi e analessi, film e vita, mescolati con una maestria ineccepibile e senza una sbavatura. Concentrato negli sforzi per parlare solo e unicamente di passione e ossessione (rendendo sterile ogni polemica sui preti pedofili), lascia però un po’ da parte quell’intensità melodrammatica che avevamo amato nei suoi ultimi due capolavori.

E resta un’opera straziante ma molto ironica, genialoide ma molto matura, molto dura e certamente molto bella. Ma sicuramente più asciutta e glaciale di quanto avremmo voluto che fosse.

nota: Gael Garcìa Bernal mi ha fatto l’effetto che mi fece Jaye Davidson in The crying game: quest’uomo è una gran bella donna. Bravo bravo, comunque.

Meno boria, kekkoz, meno boria.

Mare dentro (Mar adentro)

di Alejandro Amenabar, Spagna

Venezia 61 Concorso

Io adoro Amenabar, e forse solo per quello (o per il sonno dell’altra sera) quest’ultimo film è una sonora delusione. D’accordo, è impeccabile, girato benissimo, ma di un’ordinarietà (e un pelo di ruffianeria) che mi ha irritato e annoiato, come un prodotto confezionato apposta per ricevere premi a frotte. Bardem non mi convince, niente da fare (e dal vivo sembra un animale). Le vette sono davvero poche, come i voli immaginari di Ramon, o la sua camminata sognata (ma a quel punto si richiama l’ultimo Bellocchio…), o un bellissimo flashback all’inizio. Se si fa finta che non sia un brutto segno per quel geniaccio di un faccia-da-topo, è un bel film: ma tutte quegli applausi (un quarto d’ora) e le lacrime di tutto il pubblico e le critiche entusiaste sono a mio avviso un po’ esagerate.

Vanity fair

di Mira nair, USA

Venezia 61 Concorso

L’adattamento della bravissima (almeno tecnicamente) Nair dell’opera di Thackeray inizia molto bene, ritmata commedia in costume, e finisce in modo solare e piacevolissimo. In mezzo, almeno un’ora di mortorio, che segue pedantemente le regole del genere e fa davvero fatica ad interessare. Troppo lungo, in ogni caso, dura non assopirsi. La Witherspoon, per essere del Tennessee, sfoggia un talento posh non da poco.

Un mundo menos peor

di Alejandro Agresti, Argentina

Venezia Orizzonti

Sono rimasto fuori, causa code chilometriche, dal film di Miyazaki (porca vacca) e ho ripiegato su Agresti, imbestialito, e senza aspettative. E invece ho trovato un’opera delicata, sincera, interpretata con garbo e talento, scritta molto bene, divertente, e infine abbastanza commovente da meritare un’applauso e una stretta di mano ad Agresti (molto commosso) e alla bravissima Monica Galan. Oh. La sezione orizzonti, insieme ovviamente alle Giornate degli Autori!, fanno parzialmente dimenticare i tanti problemi (orari, entrate, accrediti) di quest’edizione.

Some gossip…

Segnalo solo quattro chiacchiere con il mio talentuoso compaesano Stefano Cassetti (qui da noi alle Giornate per Il giorno del falco, che ho perso) e un passaggio in macchina (quasi sul mio piede) di Pacino e Irons. Il buon Johnny Depp (un cencio pallido) solo da molto lontano. Julie Depardieu è partita da poco, e ora qui da noi c’è ospite la bravissima e simpaticissima Lili Taylor: vado a pasteggiare. Che faticaccia, eh?