Stati Uniti

End of watch, David Ayer 2012

End of watch
di David Ayer, 2012

Molti film recenti hanno utilizzato, anche in modo acritico, il fortunato formato del “found footage”, a volte per fare di necessità virtù. David Ayer, che pur ha in mano un budget ridotto (sette milioni di dollari: un’inezia) si limita ad accarezzarlo e se ne allontana presto (Jake Gyllenhaal porta con sé delle telecamere per un “corso”, ma solo metà delle riprese sono effettivamente realizzate dal suo personaggio) ma ne comprende e sa sfruttarne lo stimolo originario: la riproduzione di un’illusione di realismo totale, che Ayer esaspera e contraddice allo stesso tempo con un montaggio vorticoso che trasforma l’indole documentaristica in un videogame. Ma la vera formula vincente è quella che affianca alle sequenze più violente e più tipiche del genere dei lunghissimi dialoghi, quasi tutti ambientati nell’auto di pattuglia, tra i due (perfetti) protagonisti Gyllenhaal e Michael Peña: sequenze quasi statiche (frontale, campo, controcampo) e letteralmente “comiche” che insieme alle divagazioni sentimentali (Natalie Martinez, la moglie di Peña nel film, è una rivelazione) sviluppano un attaccamento ai due che mette a dura prova lo spettatore quando il gioco si fa duro. Certo, Ayer non ha alcun interesse per le sfumature morali e spezza il film in due a colpi d’accetta: i poliziotti sono buoni ed eroici, i cattivi sono cattivi e basta. Ma questo fattore non diminuisce l’impatto clamoroso di uno dei polizieschi più interessanti ed efficaci degli ultimi anni, originalissimo, terribilmente divertente e poi improvvisamente minaccioso, teso e tragico. Bellissimo.

Bachelorette, Leslye Headland 2012

Bachelorette*
di Leslye Headland, 2012

Presentato al Sundance pochi mesi dopo il travolgente successo di Bridesmaids, film limitato e più significativo che riuscito, Bachelorette appare indubbiamente, a prescindere dalle tempistiche, una sorta di diretta conseguenza: un The Hangover a generi ribaltati, con un trio di ragazze trentenni che sembrano sbucate da un sequel di Mean Girls, in grado, con la loro giusta dote di incoscienza, di rovinare il matrimonio della loro malcapitata amica. Ma il film scritto e diretto da Leslye Headland (semi-esordiente che ha adattato un suo testo teatrale con la produzione di Ferrell e McKay), Bachelorette funziona in realtà meglio del film di Feig – non tanto perché “più cattivo” (un metro di giudizio abbastanza soffocante e sciocco) ma perché più sintetico ed efficace: la durata, inferiore all’ora e mezza, è uno schiaffo alle inutili lungaggini di molta commedia americana. Il film vuole venderci l’idea di essere costruito intorno al personaggio curiosamente sgradevole di Kirsten Dunst (brava, come sempre) ma il meglio lo dà la favolosa Lizzy Caplan, che ritrova Adam Scott e con lui l’alchimia perduta dopo la cancellazione della bellissima serie tv Party Down: i due danno vita a tutti i momenti più riusciti del film – così intensi, divertenti e sfacciatamente romantici da far sfigurare la debolezza di ciò che sta intorno. Ma la Headland è talentuosa e pure scaltra, e anche se poi tutto deve tornare nei ranghi come da tradizione, ottiene di non tradire mai veramente fino in fondo la scomodità dei suoi personaggi. Non è tutto, d’accordo, ma non è poco.

*il film è uscito nelle nostre sale con il ridicolo titolo “The Wedding Party”

Ted, Seth MacFarlane 2012

Ted
di Seth MacFarlane, 2012

La frammentazione di Family Guy (e delle altre serie da lui ideate) rischiava di trasformare l’esordio alla regia di Seth MacFarlane in una collezione di sketch più o meno riusciti, più o meno volgari e provocatori: per fortuna, è evidente che l’interesse principale del suo film è lo scheletro narrativo che li sostiene e senza i quali forse sarebbe collassato su se stesso. Una storia la cui proverbialità, piuttosto rinfrescante a dire il vero, è di fatto tradita soltanto dall’eccezionalità di partenza (l’amico del protagonista che ne impedisce l’ingresso nell’età adulta non è un essere umano ma un orso di peluche parlante) e ovviamente dall’intervento della Magia. L’idea più geniale e rivelatoria dello script è quella di saltare completamente tutte le fasi che sarebbero interessate a un regista più tradizionale (l’ascesa e la caduta di Ted come “personaggio famoso”) passando direttamente al racconto del momento tardivo in cui l’amicizia tra i due comincia a incrinarsi. Ovviamente l’umorismo scorretto e citazionista del regista si riconosce a chilometri di distanza, ma qui MacFarlane pare in stato di grazia e le azzecca quasi tutte – anche se nell’ultima parte il film perde qualche colpo e si mostra stanco inseguendo un villain di cui forse non aveva nemmeno bisogno. Poco male: l’irresistibile sentimentalismo virile che tiene in piedi il film e l’uso assolutamente geniale del cast ( e delle guest star, Sam Jones e Norah Jones in prima fila) fanno perdonare serenamente qualche incidente di percorso, anche perché – lascio questa considerazione per ultima, ma è tutt’altro che irrilevante – Ted fa veramente, veramente ridere.

Argo, Ben Affleck 2012

Argo
di Ben Affleck, 2012 

Ci sono voluti tre film perché Ben Affleck, attore dal curriculum altalenante, venisse finalmente preso sul serio come uno dei più interessanti registi americani in attività. Senza il suo ingombrante passato, gli eccezionali primi due titoli da lui diretti sarebbero bastati e avanzati a chiunque: ma con questo film, Affleck ha voluto dimostrare ancora più chiaramente di essere in grado di lavorare in modo straordinario anche al di fuori di territori più vicini al genere, dov’erano in apparenza situati il nerissimo noir di Gone baby gone e le rapine di The Town. L’occasione per dirigere un film più “adulto”, sempre tra virgolette, gliel’hanno portata sulla scrivania Clooney e Heslov che, si sa, hanno una passione per lavorare ai margini della Storia: quella di Argo è una delle meno verosimili e più folli tra le storie vere portate sullo schermo. Ma quello che Affleck riesce a fare con la vicenda (e con l’ottima sceneggiatura di Chris Terrio) va davvero oltre ogni aspettativa: costruito con impagabile compattezza e grande senso dello spettacolo, e con una maturità che sembra uscita da una Hollywood “civile” che non esiste più o quasi, Argo ha il raro dono dell’immediatezza (impresa tutt’altro che scontata, di fronte a un contesto storico così poco raccontato) anche nei confronti dei molti memorabili personaggi, ed è un film che lavora instancabilmente sul ritmo del racconto, esercitando una poderosa morsa narrativa sullo spettatore. Che sappiate o meno come è andata a finire, Argo è uno dei thriller più tesi e appassionanti degli ultimi anni, nondimeno Affleck prende le distanze dalla cupezza dei precedenti, aprendo a un “democratico ottimismo” che vuole rispecchiarsi negli attriti odierni, ma soprattutto affiancando alla terrificante drammaticità del contesto un umorismo efficace – che funziona anche da boccaglio per l’ossigeno: senza ironia l’angoscia sarebbe pressoché insostenibile. Intorno a questo eccitante equilibrio tra i toni c’è molto altro, una confezione favolosa (dalla fotografia di Rodrigo Prieto alle musiche di Alexandre Desplat) e un cast di impressionante ricchezza in cui Affleck si inserisce come protagonista, ma senza mai rubare la scena al suo stesso film. Il suo è un ruolo eroico eppure in qualche modo smorzato da una pacatezza malinconica e qui sta l’ultima, ennesima sorpresa di questo grande film: è l’interpretazione migliore della sua carriera.

To Rome With Love, Woody Allen 2012

To Rome With Love
di Woody Allen, 2012

Magari, il problema dell’ultimo film di Woody Allen fossero gli stereotipi sugli italiani o cose simili. Il suo problema sta a monte: è un film irreparabilmente brutto. E come spesso accade con i film che ti danno la sensazione di essere stati completati per inerzia quando ormai era troppo tardi per mollare tutto e salire sul primo aereo per New York, la sensazione di fastidio è aumentata dalle potenzialità che si intravedono, a patto di aver voglia di farsi largo a colpi di ottimismo nella giungla di una goffaggine incessante. Parlo del segmento con Alec Baldwin e Jesse Eisenberg, il più alleniano, quello recitato meglio o meglio l’unico recitato bene (soprattutto dalla fenomenale Ellen Page, che azzecca il suo personaggio alla perfezione), dove Roma per fortuna è solo uno sfondo per una riflessione malinconica e cinica sulla cecità travolgente delle passioni e sulla necessità formativa dei propri sbagli. Ma è solo un quarto di film: quella leggerezza negli altri tre si trasforma al limite in esilità e nel peggiore dei casi (tutto il tremendo episodio degli sposini di Pordenone) in un grossolano, sconfortante imbarazzo. L’idea della doccia, per dire, è una delle cose più sciocche che Allen abbia mai girato: sarebbe pure un complimento, se fosse un corto di cinque minuti. L’episodio con Benigni, che per fortuna recita in modo inusuale, quasi sotto tono, è un temino di quinta elementare sulla fama tirato per le lunghe. La cosa peggiore, però, sono i dialoghi, quelli di tutto il film: trattandosi di Woody Allen, non ci si può mica passar sopra. Meno male che ricordiamo ancora lucidamente la splendida parentesi di Midnight in Paris, perché questo Woody frettoloso, impacciato, esausto e sostanzialmente inutile ci avrebbe seriamente preoccupato.

Nota: ho visto il film in lingua originale. Tutto il discorso sul suo doppiaggio è stato fatto a suo tempo su Prejudice e non credo di avere molto altro da aggiungere.

ParaNorman, Sam Fell e Chris Butler 2012

ParaNorman
di Sam Fell e Chris Butler, 2012

In un periodo, diciamo in un triennio, in cui le certezze sugli equilibri di qualità tra i marchi più importanti del cinema d’animazione vengono quantomeno scompaginati, il titolo obbligato di miglior film animato (in uno stop-motion giunto a livelli qualitativi impareggiabili) dell’anno va a uno studio relativamente giovane ed emergente, giunto solo al secondo lungometraggio. Non dovrebbe essere una sorpresa, visto lo straordinario adattamento fatto proprio dalla Laika a partire da Coraline di Neil Gaiman, ma ParaNorman ha dei meriti persino maggiori: senza il supporto di un veterano come Henry Selick e basato su una storia originale, pur facendo tesoro della lezione di Tim Burton soprattutto da un punto di vista produttivo (Chris Butler, anche sceneggiatore, aveva lavorato sugli storyboard di La sposa cadavere), ParaNorman fa un passo avanti e propone qualcosa di riconoscibile eppure di totalmente inedito. Se il modello del film è infatti un cinema per ragazzi che non esiste più, sotterrato dal successo dei franchise e risollevato qua e là da operazioni perlopiù nostalgiche come Super 8 di Abrams, ciò che sbalordisce davvero è dove ParaNorman riesce a spingersi, soprattutto verso il finale. Da una parte, portando i personaggi e il pubblico (in primis quello preadolescente) a confronto con temi estremamente famigliari, senza mai sottovalutarne l’impatto emotivo; dall’altra, arrivando a un allucinato delirio visivo che sembra mescolarsi a suggestioni quasi da anime giapponese. Ma anche tutto ciò che precede la commovente e fenomenale conclusione non può lasciare indifferenti: ParaNorman è un film di una ricchezza quasi frastornante, divertente fino alle convulsioni per la densità delle sue trovate, delle invenzioni visive e narrative, per la cura nel tratteggio dei suoi personaggi, eppure riesce a essere veramente maturo nel raccontare temi come il rapporto con la morte o la battaglia a difesa della propria diversità. Dando sempre per scontato, contrariamente alla norma, che l’interlocutore abbia l’intelligenza sufficiente a volersi (e sapersi) confrontare con essi, che abbia dodici, otto, ventuno o quarant’anni. E che abbia voglia di emozionarsi davvero.

Sound of my voice, Zal Batmanglij 2011

Sound of my voice
di Zal Batmanglij, 2011 

In uno scantinato di Los Angeles vive una donna che respira con l’aiuto di una bombola di ossigeno e che si ciba solo di frutta e verdura coltivata dai suoi seguaci in una serra. Si chiama Maggie, e dice di venire dal futuro. Una coppia di scettici decide di smascherarla infiltrandosi nella setta, ma non sarà così semplice. Seconda metà della doppietta che, insieme ad Another Earth, impose all’attenzione dei media il talento dell’attrice e co-sceneggiatrice Brit Marling al Sundance del 2011, anche Sound of my voice è un film che circuisce i linguaggi della fantascienza utilizzando lo stile (e il budget) del cinema indipendente. Se le ristrettezze economiche non ostruiscono in alcun modo la sua efficacia, grazie all’asciuttezza e alla precisione con cui viene raccontata la tensione elastica tra fede e razionalità, il film dell’esordiente Zat Batmanglij parte dalla fascinazione nei confronti della “setta”, delle sue dinamiche e della sua rappresentazione, ma va in una direzione diversa da un film Martha Marcy May Marlene (anch’esso presentato al Sundance 2011) e finisce per sbucare in territori più metafisici, o semplicemente più interessati alla narrazione in sé che a ciò che la narrazione comporta. In modo simile ad Another Earth, anche Sound of my voice predilige la premessa alla risoluzione: il finale è tronco e aperto, ma la chiave trovata per chiudere i giochi da parte di una sceneggiatura che gioca a carte scoperte è un’idea tanto semplice quanto strabiliante: essere abbandonati in mezzo alla strada sul più bello può risultare irritante, oppure può rimanerti sotto la pelle per settimane. Personalmente io faccio parte dei folgorati, faccio parte della setta di Maggie, o meglio ancora, della setta della magnetica, stupefacente Brit Marling.

Il film è già facilmente reperibile nell’edizione dvd inglese.

The Five-Year Engagement, Nicholas Stoller 2012

The Five-Year Engagement
di Nicholas Stoller, 2012

Se abbiamo imparato una cosa dalla sua filmografia, è che a Nicholas Stoller manca il senso della misura. Le sue regie precedenti Forgetting Sarah Marshall (sceneggiato da Jason Segel) e Get him to the Greek sono esempi clamorosi di potenziale sprecato anche per questa ragione – soprattutto il secondo, scritto dallo stesso Stoller. Che sia una penna notevole, soprattutto in coppia con Segel, lo dimostra l’ottimo lavoro fatto dai due in The Muppets e nei brillanti dialoghi di questo The Five-Year Engagement; ma uno sceneggiatore ha bisogno di ben altro che di senso dell’umorismo, tanto più se è lui stesso a dirigere. E il suo film, che viaggia dai 124 minuti della versione “theatrical” ai 132 di quella “unrated”, a forza di accumulare in un modo che ricorda ancora più del solito le regie di Judd Apatow (qui produttore), dà più l’impressione di una miniserie che di un vero lungometraggio. La fortuna di Stoller è quella di avere per le mani un cast impressionante e piuttosto affiatato (a parte Emily Blunt, sono quasi tutte facce note delle comedy televisive americane) da cui spesso riesce a tirare fuori il meglio: il dialogo tra la Blunt e Alison Brie con le voci dei Muppet è esilarante, così come tutta la sequenza sul rapporto tra Segel e l’instancabile Dakota Johnson, per tacere di un attore fenomenale come Chris Pratt, che riesce a dare anima a un personaggio di per sé solo abbozzato e banale; ma si tratta appunto di elementi separati, performance efficaci e sequenze ben congegnate, spassose a volte in modo feroce (la freccia nella gamba, l’alluce amputato), ma del tutto slegate tra loro, messe una accanto all’altra senza un briciolo di equilibrio, di coesione, appunto, di misura. Ci si diverte, si ride anche parecchio, il romanticismo è prorompente e i due bravissimi protagonisti riescono a raccontare due personaggi umani e credibili, ma in definitiva Stoller ha preso la leggerezza della commedia romantica trasformandola in un estenuante tour de force: quando il film arriva finalmente alla sua conclusione, per quanto efficacissima nell’esposizione, non si è del tutto sicuri che non siano state due ore (e passa) buttate.

Magic Mike, Steven Soderbergh 2012

Magic Mike
di Steven Soderbergh, 2012

Può stare simpatico o meno, e la qualità del suo cinema è come minimo altalenante, ma Steven Soderbergh non è l’ultimo degli sciocchi: il successo di Magic Mike (tutt’altro che scontato, visto il rating R e il budget ridotto) è stato assicurato, numeri alla mano, soprattutto dal pubblico femminile, e il film ha innescato nei media una sorta di meccanismo catartico che ne ha aumentato l’esposizione e la visibilità: un film incentrato quasi totalmente sul corpo maschile diventa quasi il simbolo di una rivalsa accolta con liberatorio entusiasmo. Fortunatamente, sotto all’operazione in sé c’è un film più che dignitoso, caratterizzato da una narrazione robusta e molto più tradizionale di quanto sembri (un duplicato rapporto tra mentore e allievo, il percorso di ascesa e caduta, la risoluzione “morale” della storia di Mike e Adam) e da una convincente messa in scena, e che ha il suo punto di forza soprattutto in un pugno di interpretazioni davvero degne di nota. In particolare quella di Channing Tatum, alla cui esperienza in un locale di Tampa il film è lontanamente ispirato: per lui Magic Mike, di cui è anche produttore, è un altro tassello di una stagione formidabile ma è anche il film in cui può sfoggiare il suo talento drammatico, quello leggero e quello più atletico, senza che cozzino uno contro l’altro. Anzi: il suo assolo, di fronte a cui Riley Keough rimane senza parole, è una delle sequenze migliori del film. Dall’altra parte c’è un incredibile Matthew McConaughey, che grazie a questo film, a Killer Joe e a Bernie ha radicalmente ribaltato la sua immagine e la sua percezione presso la critica nel giro di pochi mesi.

Restless, Gus Van Sant 2011

L’amore che resta (Restless)
di Gus Van Sant, 2011

Ho sempre pensato che la tremenda bravura di Gus Van Sant non sia incompatibile con la sua fallibilità. Nella sua carriera ha girato film molto diversi tra loro, alcuni da lui scritti e altri (come si sarebbe detto un tempo) “su commissione”, ma anche all’interno dei più chiari filoni della sua filmografia ci sono lavori meno riusciti di altri: basti pensare a un capolavoro come Gerry e a un film deludente come Last Days. A dire il vero è più difficile incasellare Restless: prodotto da Ron Howard e dalla figlia Bryce Dallas e scritto dall’esordiente Jason Lew, è un film in cui il regista sembra voler fare uno sforzo per regalare uno sguardo personale su una gioventù fuori dai margini (in questo caso, delle convenzioni sociali sul dolore e sulla perdita) rimanendo però incastrato tra gli ingranaggi manieristici del cinema indie americano. Quello che rimane in mezzo è un film di una tenerezza persino frastornante, schiacciato tra understatement, velleità poetiche e deviazioni fantastiche, nonché segnato irreparabilmente dall’interpretazione incerta e approssimativa di Henry Hopper (figlio di Dennis, anch’egli esordiente quasi assoluto) – mentre Mia Wasikowska è, ancora una volta, perfetta nell’espressione di un approccio sereno nei confronti della morte: è il tratto più distintivo e interessante del film ma è perlopiù sprecato. Ci sono almeno un paio di sequenze davvero riuscite – quella buffa e commovente in cui i due protagonisti “recitano” il loro addio, e un finale da manuale – ma, per il resto, il film fa poco più che compiacersi della propria leziosità.

Silent House, Chris Kentis e Laura Lau 2011

Silent House
di Chris Kentis e Laura Lau, 2011

Firmato dai due coniugi registi di Open Water, Silent House è un caso limite di “instant remake”: erano passati solo otto mesi dalla proiezione del film originale a Cannes nel 2010 quando il rifacimento venne presentato al Sundance. Il nuovo film è apparentemente identico all’interessante e irrisolto horror uruguayano, ma in realtà nel passaggio a una produzione (pur indipendente) americana cambiano molte cose già a livello progettuale: 4 giorni di riprese e 6 mila dollari di budget da una parte, qualche settimana e 2 milioni dall’altra. La premessa però è la medesima: il film è girato come se fosse un unico piano-sequenza (in realtà in entrambi i casi si tratta di segmenti di un quarto d’ora al massimo, Kentis e Lau sono stati molto più schietti di Hernández nel dichiararlo) ambientato quasi interamente all’interno di una vecchia casa, dove viene gradualmente rivelato un inquietante segreto sul passato della protagonista. Ma le differenze maggiori tra i due film (entrambi girati con una Canon EOS 5D Mark II) non riguardano tanto i risultati tecnici, quanto la sceneggiatura della stessa Lau: quando la verità sulla casa e sul personaggio di Sarah comincia a venire alla luce, il film butta tutte le soluzioni in faccia allo spettatore, dando purtroppo credito a uno dei più ritriti pregiudizi sui remake all’americana. Per il resto, l’idea del film porta con sé ancora una volta una riflessione interessante sul suo stesso principio di realtà – e sul cinema come illusione, sogno e menzogna – ma d’altro canto porta con sé anche interminabili minuti in cui non succede nulla e ci si annoia a morte: è un peccato che Silent house funzioni meglio come esercizio teorico (del tutto inutile) che come esperimento di genere (del tutto innocuo). L’unica cosa davvero convincente del film è la formidabile Elizabeth Olsen, e non soltanto per la sospetta tendenza dei due registi a indugiare sulla sua scollatura.

Prometheus, Ridley Scott 2012

Prometheus
di Ridley Scott, 2012

C’erano almeno due modi per realizzare Prometheus: eseguire il compito con uno sforzo minimo, oppure affrontare il rischio a viso aperto. Ridley Scott ha scelto la strada più audace: un semplice e fedele prequel avrebbe riscosso più facilmente l’approvazione dei fan della saga, ma il regista ha deciso di rimodellare la sua mitologia, replicando in parte la struttura del primo Alien e iniettando – con la complicità del co-sceneggiatore Damon Lindelof – una spiccata ambizione filosofica. Che non snatura però il senso primario del film: era da tempo che non si vedeva sul grande schermo un film di fantascienza così ricco, così curato (grandissimo lavoro di Arthur Max a partire da spunti originali di Giger) e così stupefacente dal punto di vista visivo, soprattutto nella prima metà – la fotografia è di Dariusz Wolski, collaboratore di Alex Proyas negli anni novanta. Prometheus è sì temerario e magniloquente, ma di fatto è un film di genere che utilizza la spavalderia narrativa per giocare con il pubblico (le questioni irrisolte che spostano l’esperienza intellettuale fuori dalla sala: un trucco che Lindelof conosce bene) ma lasciando al centro il gusto puro per lo spettacolo, per la messa in scena, per la costruzione scenografica, anche a costo di mettere in secondo piano la costruzione dei personaggi (in ogni caso tutti sacrificabili rispetto al mondo e al racconto) o la compiutezza della sceneggiatura. Quest’ultima spesso inciampa su se stessa, più per approssimazione che per imprecisione, ma riesce comunque a trasmettere il contrasto tra la tracotanza scientifica, l’aspirazione alla conoscenza e la natura autodistruttiva dell’uomo. A volte è meglio un film ardimentoso e pieno di difetti che uno perfetto e pavido.

***

Uno degli articoli più intelligenti che ho letto su Prometheus è il post di hardcorejudas: condivido gran parte di ciò che scrive ed è un’ottima “risposta automatica” a critiche esageratamente acrimoniose.

Sugli spoiler e sugli interrogativi lasciati aperti dal film, la rete è piena di articoli che si divertono a dare qualche risposta: se la cosa vi interessa, consiglio la lettura di CinemaBlend e io9.

Jeff, Who Lives at Home, Mark e Jay Duplass 2011

Jeff, Who Lives at Home
di Mark e Jay Duplass, 2011

Jeff ha superato i trent’anni ma vive ancora nello scantinato della madre. Non lavora, fuma il bong, guarda le televendite e ha una verace passione per Signs, di cui condivide l’esasperato fatalismo. Pat è il manager di un ristorante, sposato e cieco alle esigenze della moglie: nonostante stiano mettendo via i risparmi per comprare una casa, a colazione le presenta la sua nuova Porsche parcheggiata nel vialetto. Jeff e Pat sono fratelli, anche se non si parlano mai. Anche Mark e Jay Duplass sono fratelli, ma lavorano insieme: sono stati tra i protagonisti del mumblecore, più che un movimento un’etichetta volta a semplificare una pulsione produttiva presente nel cinema americano indipendente lo scorso decennio, di cui vediamo in qualche modo le conseguenze nelle carriere di Greta Gerwig, Lynn Shelton, ma anche di Lena Dunham e dello stesso Mark come attore. L’inevitabile evoluzione commerciale dei due registi non ne ha però compromesso il talento né ha intaccato la semplicità del loro modo di raccontare: come e meglio che in Cyrus, i Duplass utilizzano attori noti (qui Jason Segel, Ed Helms e Susan Sarandon) per parlare di avvenimenti ordinari e sentimenti convenzionali, facendo però un passo in più, ovvero dando loro un respiro epico. Partendo da uno spunto cinefilo quantomeno peculiare (la passione di Jeff per il film di Shyamalan), da un’aderenza alle unità aristoteliche e da un’opposizione trasparente (quella tra la fiducia nel destino di Jeff e lo scetticismo di Pat), il film racconta una trasformazione della banalità in eccezionalità ma senza mai allontanarsi dall’immediatezza con cui sanno raccontare i personaggi, anche in rapporto alla realtà del tessuto urbano (che conoscono bene: qui siamo a Baton Rouge, i due registi sono di New Orleans). Il risultato abbraccia una visione del mondo entusiastica e forse un po’ naïf in cui la volontà è in grado di mutare la prosaicità del mondo: per fortuna il tutto è realizzato con senso della misura (il film non arriva all’ora e mezza di durata), con un’ironia garbata e irresistibile, una messa in scena intelligente e originale, lontana dai vezzi più amatoriali, e ovviamente un impagabile trio di attori. Sette anni dopo The Puffy Chair, per la carriera dei Duplass non potevamo sperare di meglio.

Non mi risulta sia prevista un’uscita italiana.

The Amazing Spider-Man, Marc Webb 2012

The Amazing Spider-Man
di Marc Webb, 2012

Non vale per qualunque film, ma spesso la scelta di assegnare una grande produzione a un determinato regista può essere l’avviso di una pista da seguire o di una decisione già presa. Scegliere il regista di una commedia romantica come (500) Days of Summer per dirigere un film di Spider-Man rendeva abbastanza chiaro almeno un intento, forse commerciale prima che artistico: spostare il baricentro dall’Uomo Ragno a Peter Parker, e mettere al centro del film più di ogni altra cosa il rapporto sentimentale tra il protagonista e Gwen Stacy. In tal senso, non è del tutto errato definire The Amazing Spider-Man un teen romance con i superpoteri, ma per fortuna Webb è rimasto lontano dalla pigrizia della saga di Twilight si è dimostrato all’altezza della situazione: il suo è un film decisamente riuscito che ha semmai la sfortuna di essere costruito su limiti strutturali, ben chiari già da prima della visione. Per quanto ci possano spacciare questo reboot come un’autentica novità, si tratta infatti di una origin story estremamente tradizionale e che non si scosta granché da quella raccontata soltanto dieci anni fa. La sceneggiatura non sembra fare molti sforzi per evitare l’effetto-replica e la narrazione procede in modo meccanico attraverso blocchi ben definiti e ormai noti; il reparto spettacolare è assolutamente impeccabile (le soggettive dei voli fanno la loro porca figura) ma non si vede il tentativo di dire qualcosa di veramente nuovo in un genere vicino alla saturazione; si perde qualche colpo in più con il villain di turno (il Lizard di Rhys Ifans) e ci si riprende quando in scena ci sono Peter e Gwen. Il grande vantaggio del film, persino rispetto ai primi due capitoli diretti da Raimi, è infatti senza dubbio nei due protagonisti: Andrew Garfield non è solo un attore capace e versatile, è espressivo, simpatico, arrabbiato, profondo, e contribuisce a sporcare il suo personaggio con un’umanità scombinata e confusa che lo allontana dai cliché adolescenziali per dare una nuova dimensione sia alle sue motivazioni che alla sua incapacità di fare la cosa giusta; e la sua stessa intelligenza è affrontata più come una condanna che come un’opportunità. Dall’altra parte, peraltro, c’è la solita favolosa Emma Stone, e probabilmente ciò che ci ricorderemo di questo film divertente e innocuo in futuro è l’alchimia davvero impressionante tra i due, la naturalezza del loro talento: senza bisogno di tirare in ballo le vicende personali dei due attori, Garfield e la Stone portano sullo schermo una freschezza e una bellezza immediata di cui il film aveva davvero bisogno. Forse è stata una buona idea, quella di mettere al centro del film la loro storia d’amore: perché è quello che ci portiamo a casa, alla fine del film.

Nei cinema dal 4 luglio 2012

Detachment, Tony Kaye 2011

Detachment – Il Distacco (Detachment)
di Tony Kaye, 2011

Tredici anni dopo l’esordio con American History X, da lui disconosciuto a causa dell’intervento della New Line e dello stesso Edward Norton sul final cut, Tony Kaye torna con un film che parte da un canovaccio piuttosto tradizionale per trasformarlo, attraverso la messa in scena, in qualcosa di molto più originale. Tratto dalle memorie di Carl Lund, il film racconta infatti del breve periodo passato in una scuola pubblica da un professore specializzato in supplenze e dal misterioso passato personale: incontrerà tra gli alunni e nel corpo docente un classico campionario di varia umanità a cui si aggiunge una giovanissima prostituta che si impone in qualche modo di redimere. Ma il film di Kaye è realizzato con uno stile personalissimo e fieramente indipendente che lo allontana dai canoni hollywoodiani: le singole scene del film (così come i membri del ricco cast) sembrano quasi schegge disordinate e causali a cui il montaggio si impone di restituire dignità narrativa, la regia liberissima e dinamica va alla ricerca del realismo sfiorando quasi lo stile del documentario ma con un intuito visivo spesso ammaliante che compensa i limiti del budget. E in tutta la parte finale Kaye riesce a trovare un equilibrio sensazionale tra il melodramma più tragico e una riflessione lucida e terribilmente avvilita sul ruolo dell’educazione nella società che, con la straordinaria immagine che chiude il film, non lascia molte speranze. Quelle restano altrove: lontano dai libri, fuori dalla classe.

Real Steel, Shawn Levy 2011

Real Steel
di Shawn Levy, 2011

L’aspetto più interessante di Real Steel, tratto (molto liberamente) da un racconto di Richard Matheson e da un episodio di The Twilight Zone scritto proprio da quest’ultimo, è senza dubbio l’idea di un futuro prossimo in cui un grande traguardo tecnologico (la creazione di robot antropomorfi) non ha modificato quasi nulla: lo si capisce già dai panorami della provincia americana dei titoli di testa, accompagnati da un brano acustico di Alexi Murdoch. Siamo nel 2020, ma al di là dello skyline che attende il protagonista alla fine del viaggio, potremmo essere nel presente o persino nel passato prossimo: il mondo sembra bloccato a suo modo in una situazione di stallo, e non è un caso che una scoperta che potrebbe cambiare il mondo venga utilizzata in modo relativamente marginale nello sport, per soddisfare il crescente desiderio di violenza del pubblico. Una visione non tanto pessimistica o distopica, come spesso accade, quanto disillusa, probabile figlia della crisi economica globale, e che si oppone a gran parte della fantascienza, più interessata (ragionevolmente) alle conseguenze di un’eventuale singolarità in grado di cambiare finalmente la faccia del pianeta. I tratti originali del film diretto da Shawn Levy finiscono però qui: Real Steel è infatti palesemente e forse anche volutamente costruito con stampini di opere precedenti (il più citato, non a torto, è Over the Top) oltre che con veri e propri blocchi squadrati di cliché sul rapporto padre-figlio o sul riscatto dell’ex campione e, più in generale, quelli provenienti dalla più rigida struttura del “film sportivo”. La sorpresa è che, da un certo punto in poi, non ci interessa granché: il film è raccontato con una professionalità impeccabile, non annoia mai nonostante sia lunghissimo (due ore secche), Hugh Jackman mostra un desiderio di fare le cose per bene che non va data per scontata nel genere, e i robot, pur essendo come abbiamo visto un mero pretesto per parlare d’altro, sono protagonisti di scene di ring davvero spettacolari. Un film che sembra nato per scontentare tutti – troppo tenero per gli amanti dei cinema duro, troppe botte per gli amanti del cinema pucci – ma che in realtà trova una sua dimensione, e la trova proprio nella sua ricercata prevedibilità. Non c’è nulla di male nel seguire le regole, se lo fai come si deve.

Biancaneve e il Cacciatore, Rupert Sanders 2012

Biancaneve e il Cacciatore (Snow White and the Huntsman)
di Rupert Sanders, 2012

È inevitabile che nella promozione di film tratti da una celebre fiaba, come sono i due diversissimi Biancaneve spuntati a poche settimane di distanza l’uno dall’altro, si faccia leva prima di tutto sull’attrice che interpreta la regina cattiva: dopotutto, la tradizione disneyana vuole che il villain sia (quasi) sempre il personaggio più interessante della storia. Così, come per Mirror Mirror era Julia Roberts, qui è Charlize Theron il punto di forza del film. Ma la pressione non giova all’attrice sudafricana che, nonostante la sensazionale presenza scenica le permetta di riempire lo schermo con un semplice sguardo, cade nel tranello dell’overacting, spingendo troppo la sua interpretazione e facendola cascare fuori dalla righe. Un elemento che sarà smorzato dall’edizione doppiata, ma che diventa presto il tratto caratteristico della prima mezz’ora: il geniale understatement di Young Adult sembra lontano secoli. Poi però Charlize, di fatto, scompare per buona parte del film – che ne esce ugualmente impoverito, privato della sua ragion d’essere.

Sanders è un regista capace di buone invenzioni visive, il background pubblicitario avvicina il suo stile fiammeggiante e autocompiaciuto proprio a quello di Tarsem (lo specchio liquido, l’abito fatto di corvi: paradossalmente questo film pare quasi più “tarsemiano” di Mirror Mirror) mentre il nume tutelare dell’operazione, tra battaglie epiche e lunghe camminate sul dorso delle montagne, sembra essere il fantasy jacksoniano della trilogia dell’Anello. Ma al di là di qualche intuizione, il suo Biancaneve non aggiunge nulla di originale o travolgente, la sceneggiatura è pigra e il plot terribilmente meccanico (se non si conta la scelta di troncare di netto ogni risoluzione, chiudendo come chi guarda l’orologio e vede che si è fatto tardi e peraltro barando con un finto accenno a un finale aperto), gli sforzi sovrumani per trasformare otto attori inglesi in nani sono scarsamente giustificati dal loro apporto alla trama e allo spirito del film (che è fin troppo cupo e serioso, qualche pennellata di ironia non avrebbe guastato) e la palese carenza di talento di una legnosa e impacciata Kristen Stewart non è certo d’aiuto.

Per chi ne avesse già ammirato le doti in Thor e The Avengers non è una vera sorpresa, ma il migliore in campo è proprio Chris Hemsworth: burbero, romantico e sfrontato, riesce persino a umanizzare il puntuale monologo amoroso e sorpassa le sue colleghe con una naturalezza e un fascino brusco che, nella seconda metà, contribuisce da solo a salvare il film dal pericolo della noia ogni volta che è in campo. Difficile invece salvare un paio di effetti speciali così sgraziati da sembrare ancora in corso d’opera: dove sono finiti 170 milioni di budget?

Cinema Verite, Shari Springer Berman e Robert Pulcini 2011

Cinema Verite
di Shari Springer Berman e Robert Pulcini, 2011

All’inizio degli anni settanta, il produttore Craig Gilbert ebbe un’idea a suo modo geniale: riprendere per mesi una tipica “famiglia americana” e ricavarne un documentario televisivo lungo dieci ore. Superata la diffidenza della PBS, ne uscì An American Family, andato in onda nel 1973 e divenuto un caso mediatico senza precedenti: dodici episodi in cui la vita di una famiglia apparentemente felice e normale veniva osservata durante il suo graduale, inevitabile disfacimento. Causato in parte, ovviamente, dal programma stesso. Questo film per la tv prodotto e trasmesso dalla HBO racconta una versione romanzata di tutta la storia (assai meno nota da noi che negli states), dalla genesi del progetto alle polemiche che lo seguirono, trovando soluzioni intelligenti per far dialogare il materiale d’archivio con la sua ricostruzione e azzeccando un ottimo cast – su tutti Diane Lane e James Gandolfini. La coppia di registi di American Splendor viene proprio dal documentario e utilizza la storia dei Loud per riflettere sull’evoluzione del mezzo televisivo – An American Family è considerato un antesignano degli odierni reality – e più in generale sulla fine dell’innocenza della televisione americana (non a caso sono gli ultimi anni della guerra in Vietnam) anche se spesso Cinema Verite funziona più che altro come discreto period movie.

Quella casa nel bosco (The Cabin in the Woods), Drew Goddard, 2011

Quella casa nel bosco (The Cabin in the Woods)
di  Drew Goddard, 2011

Chi si diletta scrivendo di film, e talvolta anche chi ci si guadagna da vivere, viene messo periodicamente di fronte a un piccolo dilemma: quanto raccontare della trama? In che modo? Con quale precisione? Dove finisce una premessa narrativa e inizia uno “spoiler”? E soprattutto: ha davvero senso? La risposta, come spesso accade con questi argomenti, suona più o meno: dipende. Proprio per questo, scrivere di Quella casa nel bosco è un’impresa davvero atipica. Non tanto perché Drew Goddard o il produttore e co-sceneggiatore Joss Whedon abbiano chiesto a tutti e a più riprese di non raccontare nulla, ma perché il film si configura in modo tale per cui sarebbe davvero un peccato non accontentarli.

Ci sono indubbiamente modalità, anche online, entro le quali si può dare per scontata la visione del film e discutere fino in fondo delle sue implicazioni; non credo però che questo post sia il luogo adatto. Per quanto mi riguarda, il modo migliore di parlarne sarà quindi di parlarne il meno possibile, consigliandolo ad amici che potrebbero essere in grado di apprezzarlo – voi tutti inclusi, va da sé – limitandomi a spiegare loro che Quella casa nel bosco è tutt’altro e molto più che un horror su una casa in un bosco.

Nel frattempo, a vostro rischio e pericolo, un elenco di cose che forse si possono dire:

  • Goddard e Whedon sono riusciti a trovare un equilibrio straordinario tra riflessione sul genere e la messa in scena del genere stesso. The Cabin in the Woods funziona insomma benissimo sia come film fantastico che come esercizio metanarrativo, e non sacrifica mai fino in fondo il puro divertimento per il gioco intellettuale o lo sberleffo.
  • la brillante sceneggiatura è il punto di forza assoluto del film, non soltanto per il modo in cui è strutturata, ma per la ricchezza di dialoghi acuti e spesso esilaranti, per come centellina i dettagli di ogni situazione fino a rivelarla in tutta la sua natura, per la naturalezza con cui riesce a manovrare registri diametralmente opposti.
  • nonostante il budget relativamente ridotto (circa 12 milioni) la confezione è curatissima; la fotografia è a cura di Peter Deming, quello di Mulholland Drive.
  • il motivo per cui è meglio che non sappiate niente non ha veramente a che fare con veri twist narrativi, con i più classici “colpi di scena”, come spesso accade nei film che vi chiedono di non essere raccontati. In verità, saprete di cosa si tratta entro pochi minuti. A quel punto non vi resterà che godervi lo spettacolo.
  • è un film più intelligente e divertente che realmente spaventoso: non abbiate timore.
  • per gli amanti di cinema horror invece si tratta di un passaggio obbligato: al di là delle conclusioni in sé a cui giunge attraverso lo sviluppo della trama, il film è realizzato pensando a loro, con un gusto per il dettaglio e per la citazione che obbligherà a ripetere la visione più e più volte. Lo faremo ben volentieri.
  • Quella casa nel bosco è uno spasso tale che, se anche io volessi prendermi il lusso di dirvi il perché e il percome, non saprei davvero dove cominciare.

Dark Shadows, Tim Burton 2012

Dark Shadows
di Tim Burton, 2012

Da qualche anno a questa parte, quando si parla di Tim Burton è bene specificare da quale parte della barricata ci si trovi. L’orribile Alice in Wonderland da una parte e il meraviglioso Big Fish dall’altra sono forse gli unici due suoi film degli ultimi 15 anni a mettere d’accordo quasi tutti: per il resto, molti suoi fan nel corso del tempo si sono allontanati a causa di alcuni titoli che avrebbero “tradito” il cuore più amato della sua filmografia, diventando ripetitivi, meccanici e fasulli. Giusto per capirci, io me ne resto dall’altra parte della barricata: per esempio, considero Sweeney Todd un grande musical sanguinario penalizzato forse da musiche poco più che mediocri, La Sposa Cadavere era il mio “numero tre” tra i film usciti nel 2005, La Fabbrica di Cioccolato e Planet of the Apes sono due film riusciti solo a metà ma troppo spesso ingiustamente maltrattati. Difendere Tim Burton però non è un’impresa semplice, richiede dedizione e pazienza, anche perché il regista americano non fa nulla per distanziarsi dalle manie che gli vengono attribuite.

Mi piace immaginare, anche se sono già del tutto certo che non accadrà, che Dark Shadows possa tornare a riportare la pace tra difensori e detrattori. Tratto da una “soap con vampiri” degli anni settanta, un curioso oggetto vintage quasi del tutto dimenticato e riesumato con un affetto privo di eccessiva riverenza, il film è infatti davvero un gran divertimento. Al di là di una gestione dei registri forse un po’ pasticciata – ma quantomeno trascinata da una vivacità che Burton sembrava aver perduto – sa giocare con i cliché del period movie e con quelli dello stesso gotico burtoniano, mescolando in modo inusuale i consueti omaggi cinefili agil stilemi della soap opera televisiva. Lo sceneggiatore Seth Grahame-Smith, diventato una penna richiestissima dopo il caso di Pride and Prejudice and Zombies, non si preoccupa troppo di nascondere le metafore agli occhi del pubblico e preferisce sfoggiare una repertorio comico da time travel che sfrutta ogni variante della sua premessa (l’uomo settecentesco alle prese con le bizzarrie degli anni settanta) e porta con sé dalla sua esperienza letteraria una straordinaria dote – quella di non prendersi mai del tutto sul serio, anche al momento della resa dei conti. Una dote di cui, dopo il ridicolo involontario di Alice, si sentiva il bisogno come dell’aria.

Dal canto suo, il ricchissimo cast riesce a compiere l’impresa più ardua che gli veniva richiesta, ovvero quella di arginare l’ingombrante presenza di Johnny Depp. Se l’attore è certamente ancora popolarissimo ed è la “star” attraverso cui il film viene venduto al pubblico in tutto il mondo, non c’è dubbio che nel tempo sia diventato il maggior argomento d’attacco nei confronti dei film più recenti di Burton. E non sempre a torto. Risaputo make-up a parte, Depp fa il suo lavoro con classe e abnegazione, ma in Dark Shadows c’è ben altro: Michelle Pfeiffer, che comprende meglio di tutti gli altri come funziona il linguaggio di una soap, e recita di conseguenza; Helena Bonham Carter, che prima di essere la musa del regista è un’attrice con una mimica strepitosa e un invidiabile intuito comico; Chloe Moretz, che si impegna un po’ troppo ma all’occorrenza sa riscattarsi; la graziosa Bella Heathcote, che con quella faccia non poteva che finire nei panni dell’eroina emaciata in un film di Tim Burton. Ma soprattutto c’è Eva Green: grazie a lei la biondissima e demoniaca Angelique Bouchard è il personaggio più riuscito del film e tra i più memorabili della filmografia burtoniana, ruba la scena a tutti ogni secondo in cui è in campo con una bellezza abbagliante e un sorriso perfido e malefico. Un amore a seconda vista.

Tra gli aspetti che colpiscono di più in Dark Shadows c’è però sicuramente la magnificenza visiva, che ne fa uno dei film di Burton più “belli a vedersi”: il direttore della fotografia Bruno Delbonnel ha alle spalle un curriculum davvero notevole (da Amelie al Principe Mezzosangue fino al Faust di Sokurov) e qui conferma la sua enorme bravura e la sua elasticità assecondando le visioni del regista (per dirne una, il fantasma di Josette arriva dritto dalla Sposa Cadavere) non limitandosi a riempire il film di carrelli e dolly virtuosistici ma facendo respirare un senso di cura quasi ossessiva per ogni singola inquadratura, dalla saturazione dei colori alla posizione dei corpi e degli oggetti nello spazio, che lascia spesso ipnotizzati – e che richiede di essere goduta sul grande schermo. Splendente superficie senza alcuna profondità? Non proprio. Si potrà obiettare che Dark Shadows è più che altro un gioco, a tratti volutamente sciocco, che a volte sacrifica il pathos per una (buona) risata: ma è anche un film in cui Burton recupera una spontaneità, un equilibrio nella gestione tecnico-artistica e un senso dell’umorismo che non gli riconoscevamo da tempo, nonostante l’impegno preso per difendere la sua buona fede. La barricata resta alta, vedrete, ma stavolta non avrebbe nemmeno bisogno del nostro aiuto.