Stati Uniti

I Muppet, James Bobin 2011

I Muppet (The Muppets)
James Bobin, 2011

Quale che sia l’origine produttiva del nono lungometraggio dei Muppet, il primo dopo 12 anni, appare evidente che si tratti, in definitiva, di un capriccio di Jason Segel. Scritto proprio dall’attore insieme al sodale Nicholas Stoller, il film è infatti l’occasione per sfoggiare molte delle ossessioni di Segel, prima di tutto quella per il musical (la bellissima Man Or Muppet non poteva che vincere un Oscar, anche se non è l’unica canzone meritevole d’attenzione) ma anche per il suo personale stile recitativo – una sorta di “figlio perbene” della famiglia di Judd Apatow da cui effettivamente proviene. Segel, dal canto suo, sembra divertirsi come un pazzo, e il modo con cui ha seguito la genesi e la promozione del film non è che una conferma della sua travolgente passione per il progetto. Per nostra fortuna, tutto questo entusiasmo si sposa alla perfezione con il mondo dei pupazzi creati da Jim Henson e ancora di più con la coloratissima e impeccabile co-produzione della Disney, che possiede i Muppet Studios dal 2004. La trama del film è il più classico e oliato dei canovacci (per salvare il loro teatro di posa, i Muppet devono “rimettere insieme la banda” e raccogliere una somma di denaro) ma la sua deliberata e quasi ricercata ingenuità è compensata dalla quantità e dalla qualità delle invenzioni visive, narrative, musicali, dalle apparizioni numerosissime e spesso irresistibili (Jim Parsons, Donald Glover, Feist, Dave Grohl) e più in generale da una pulsante necessità, più inusuale e aliena di quanto sembri, di mettere il proprio pubblico a suo agio, di farlo stare bene; magari coccolandolo in una bambagia di nostalgia e zucchero filato ma, permettetemi di dirlo, il fine giustifica i mezzi.

Mee mee mee mee.

War Horse, Steven Spielberg 2011

War Horse
di Steven Spielberg, 2011

Pur nel contesto bellico di uno dei più drammatici spartiacque della storia dell’umanità, quella tra Albert e il cavallo Joey è di fatto una storia d’amore. Un amore travolgente e a prima vista, capace di volare sulle ceneri della fine del mondo saltando di trincea in trincea, di perdersi e ritrovarsi sfidando il caso con la potenza magica del sogno e, perché no, della speranza. In fondo i “buoni sentimenti” che il film veicola e che, come spesso accade nel cinema di Spielberg, possono trarre in inganno se isolati dal contesto, non sono che una reazione davvero violenta e incisiva a una Storia tutt’altro che gentile, sono l’ultimo baluardo che ci permette di rimanere umani. Spielberg racconta l’ennesima storia sulla perdita dell’innocenza – che non torna a casa con i sopravvissuti, no, lei rimane nelle trincee vuote, e nell’accampamento violato tra decine di cavalli sacrificati – rimettendosi ancora una volta allo stupore di fronte alla bellezza del mondo, unica arma contro la corruzione dello spirito. E utilizzando il cavallo e la sua imperitura e testarda grazia, quasi più che come metafora, come perno narrativo di un’epica profondamente e deliberatamente inattuale, di una messa in scena spettacolare e di uno stile fiammeggiante che si rifanno ai classici, tra silhouette stampate su tramonti rosso fuoco e commoventi dolly che aprono lo sguardo su pianure e colline destinate a diventare terra bruciata. Facile storcere il naso di fronte a un’operazione così meravigliosamente anacronistica, ma la verità è che Spielberg qui è davvero all’apice della sua forma: usando la rarità e il coraggio di essere “gentili” come motore pulsante della storia, riesce sempre a regolare i toni di un racconto assolutamente lineare eppure ambizioso e complesso per come moltiplica le storie e i personaggi con una sapienza magistrale (basti pensare a come si alternano l’intensa sequenza della fuga di Joey nella terra di nessuno a quella, così lieve eppure così terribilmente sublime, della sua liberazione da parte dei due soldati nemici) ma sa anche regalare momenti di cinema semplicemente grandissimo, bilanciando con professionalità inattaccabile (coadiuvato dai soliti Williams, Kaminski e Kahn) l’istinto innato alla grandiosità e il pudore di fronte al dolore e alla morte. Ovviamente è necessaria una certa predisposizione: ma del resto, non è necessaria per qualunque film? War Horse , nella sua spudoratezza, nella sua vigorosa e virulenta emozione, è un film sostanzialmente perfetto.

In Time, Andrew Niccol 2011

In Time
di Andrew Niccol, 2011

“Don’t waste my time.”

Una delle costanti del cinema di Andrew Niccol in passato, se si esclude il ben differente (e deludente) caso di Lord of War, è stata l’esasperazione di tematiche contemporanee nella forma di rappresentazioni distopiche, più o meno futuristiche: le minacce eugenetiche di Gattaca (tutt’oggi il suo film più bello), la digitalizzazione e/o morte del cinema nel sottovalutato S1m0ne, senza dimenticare la sceneggiatura di un capolavoro come The Truman Show di Peter Weir. In questo suo ultimo film Niccol parte da una brillante idea fantascientifica – compiuti i 25 anni non invecchi più ma devi guadagnarti il resto del tempo, divenuto unica moneta corrente – per rappresentare una sorta di satira delle diseguaglianze economiche che parte appunto dall’ossessione per la conservazione del corpo: perché gli esseri umani non sono tutti 25enni, ma sono anche (quasi) tutti belli o bellissimi. Il problema è che Niccol è bravo a mettere i pezzi al loro posto – e gli si riconosce il merito di essersi ostinato a fare “l’autore” all’interno del genere, almeno fino a questo film – ma decisamente meno a suo agio quando si tratta di mettere in moto la partita. La sceneggiatura compiaciuta ma involuta è senza dubbio l’aspetto più deludente del film (quanti altri giochi di parole sul lemma “time” possono esserci nei dialoghi di un film che si intitola in questo modo?) e né la cura spettacolare dell’apparato visivo, con il grande Roger Deakins alla fotografia, né l’insistenza di Niccol a giocare in modo divertito e inquietante con il paradosso (“queste sono mia suocera, mia moglie e mia figlia”) bastano ad allontanare la sensazione di meccanicità, o meglio ancora di massacrante pigrizia. Più che una partita a scacchi è una pista di macchinine già montata, di cui conosciamo non solo la destinazione ma la forma del tracciato. Delle riflessioni ambiziose sul presente che Niccol nascondeva dietro la sua apparente freddezza analitica qui non è rimasto molto: gli spunti sono assenti oppure, peggio ancora, sbattuti in faccia allo spettatore; per il resto rimane un luccicante e a tratti incantevole involucro vuoto – allo stesso modo in cui gli attori, di folgorante bellezza e fascino, vengono lasciati a sé stessi, a vagare imbambolati sulla scena.

L’arte di vincere (Moneyball), Bennett Miller 2011

L’arte di vincere (Moneyball)
di Bennett Miller, 2011

Il film sul baseball, si sa, vogliono sempre dire un’altra cosa. La vera distinzione è semmai tra i film comprensibili a chiunque passi di lì (il primo esempio che mi viene in mente è L’uomo dei sogni, che infatti è un capolavoro), quelli in cui la comprensione è desiderata ma non necessaria (Bull Durham, per dirne uno) e quelli che chiedono obbligatoriamente un’infarinatura delle regole dello sport*. Estendendo la richiesta ben oltre il formulario del gioco sul campo, Moneyball rientra in quest’ultima categoria, pur se è ben chiaro dove voglia andare a parare e quale sia la metafora di turno. Vantaggioso per la qualità dell’ottima sceneggiatura (a cui Aaron Sorkin ha contribuito, immagino senza metterci granché di suo), uno script intelligente che non vuole certo perder tempo in spiegazioni – perché quella sul baseball è una conoscenza nazionale condivisa, ergo data per scontata – ma un po’ meno per il povero cristo che del manuale del baseball è arrivato a pagina tre, come il sottoscritto. Ciò detto, messi da parte tutti i dialoghi e i passaggi che per colpa di un’eventuale scarsa conoscenza (più che delle regole in sé, intendo del sistema cognitivo e sociale che regola il baseball negli states, quello che Billy Beane è andato a intaccare) non si è riusciti a decifrare, resta una storia di riscatto personale e seconda possibilità tanto ben realizzata quanto prevedibile, diretta da Miller in modo pressoché invisibile quando non piatto, ben congegnata ma in definitiva non proprio stimolante. L’aspetto più interessante di Moneyball sta nel paradosso per cui l’applicazione di una cosa fredda come la matematica fa risaltare l’umanità delle sue parti, ma non si può dire che l’esperimento si rispecchi in modo compiuto nel film; la formidabile performance di Brad Pitt contribuisce a rendere il film più appassionante, ma non a renderlo meno inoffensivo.

*considerazioni iniziali suggerite da un thread su Facebook di UdP, che ringrazio

Mission: Impossible – Protocollo Fantasma, Brad Bird 2011

Mission: Impossible – Protocollo Fantasma (Mission: Impossible – Ghost Protocol)
di Brad Bird, 2011

I film ispirati alla serie tv Mission: Impossible sono stati sempre caratterizzati da un approccio curioso, e piuttosto inusuale per i cosiddetti blockbuster, per il quale a una costante produttiva (Tom Cruise, Paramount) si è accostata una variabile artistica rappresentata dalla “firma forte” dei registi coinvolti: Brian De Palma, John Woo e J.J.Abrams hanno trasferito di volta in volta nei film precedenti la loro poetica in modo molto evidente, ma è stato forse l’incontro tra quest’ultimo e Cruise a segnare un cambio di rotta.

L’arrivo di Brad Bird dietro la macchina da presa, sempre sotto l’egida della Bad Robot di Abrams, riporta infatti l’attenzione sul puro entertainment, allontanandosi da ambizioni autoriali per abbracciare in toto la ricchezza produttiva: in tal senso, Ghost Protocol risulta forse il meno personale dei quattro film, il meno originale, peculiare e riconoscibile; ma d’altra parte è indubbiamente il più onesto, e forse persino il più divertente: non è un caso la scelta di Bird, che in passato ha sfornato due capolavori dell’animazione ma all’interno di una struttura davvero industriale (pur se illuminata) com’è la Pixar. Qui il regista di Gli Incredibili e Ratatouille se ne sta infatti perlopiù schiscio, tirando fuori il cuore soltanto quando non te lo aspetti più – cioè, negli ultimi 5 minuti.

La scelta ha ripagato immediatamente: quasi 600 milioni di dollari incassati su un budget di circa 150 ne hanno fatto il più redditizio della saga. Ma tolta di mezzo la curiosità stilistica, qual è il punto di forza di questo quarto capitolo? Prima di tutto, il cast: certo, Tom Cruise si prende ovviamente il grosso della torta, ma Jeremy Renner è una spalla action perfetta e merita la nomea di co-protagonista; Paula Patton è meno immediatamente irresistibile di una Thandie Newton, ma alla fine porta a casa una prova assai convincente; infine Simon Pegg, promosso in tutti i sensi rispetto al terzo capitolo, è un comic relief che per una volta funziona a dovere, supportato da dialoghi adeguati (i due autori della sceneggiatura, come al solito terribilmente intricata, vengono da AliasHappy Town) che a volte giocano con i cliché della saga e più in generale dell’action spionistico (“Il conto alla rovescia non è d’aiuto”, “La prossima volta il riccone lo seduco io”) ma anche con la consapevolezza del pubblico – nonostante spesso si scelga semplicemente di fidarsi della cara, vecchia, sana sospensione dell’incredulità.

Perché con la giusta dose di ingenuità spettatoriale, sequenze come quella del Burj Khalifa di Dubai o quella nel parcheggio automatico verso la fine del film sono in assoluto le cose più clamorosamente spassose che vi capiterà di vedere questa stagione: roba da saltare sulla sedia e battere i piedini, e senza nemmeno bisogno di mettersi un paio di occhiali. Se invece non state al gioco, si fa presto: nella sala accanto proiettano un altro film. Dopotutto, mica si chiama Missione Plausibile.

A Very Harold & Kumar 3D Christmas, Todd Strauss-Schulson 2011

A Very Harold & Kumar 3D Christmas
di Todd Strauss-Schulson, 2011

Sono passati sette anni dal primo film di Harold & Kumar, tre dal secondo. Nel frattempo, così come John Cho e Kal Penn sono andati avanti con la loro carriera (il primo con Star Trek e Flashfoward, il secondo con House, la Casa Bianca e How I met your mother), anche i due personaggi hanno preso strade diverse; inoltre, il budget è duplicato ed è arrivato il trend del 3D a dare il La a un terzo capitolo. Che fa infatti molta leva sull’effetto: innumerevoli gli oggetti liquidi e solidi lanciati verso il pubblico, e non a caso il primo di essi è un anello di fumo.

Ma al di là di queste gag (che si perdono inevitabilmente nella visione casalinga), la carta vincente di A Very Harold & Kumar 3D Christmas è che si tratta in tutto e per tutto di un “film natalizio” con tanto di intervento di Santa Claus e messaggio edificante – Harold e Kumar erano inseparabili, si sono persi di vista, riscoprono la loro amicizia spinti dallo spirito delle feste – ma i suoi singoli elementi, ovviamente, non potrebbero essere più distanti dal canone del film di Natale, tra cannoni magici, vendicativi gangster ucraini con figlie vergini ninfomani, Patton Oswalt spacciatore vestito da Babbo Natale, e una povera bambina trasformata dalle circostanze in una tossicodipendente. Il gioco, nella buona tradizione della stoner comedy, è sempre lo stesso: portare alle estreme conseguenze le premesse iniziali (un prezioso albero di Natale da sostituire per accontentare Danny Trejo, l’aggressivo suocero di Harold) spingendo senza troppi freni sul tasto del politically incorrect, ma grazie alla bravura e alla simpatia dei due protagonisti (che sono attori veri: per il genere non è una cosa scontata) la “saga” riesce a conservare, pur nella sua deliberata e rovinosa scempiaggine, una sua evanescente ma irresistibile umanità.

Non poteva mancare Neil Patrick Harris nel ruolo di se stesso – o meglio, del NPH alternativo della serie, donnaiolo e drogatissimo: non era morto, si è fatto cacciare dal paradiso da Gesù in persona, e stavolta gioca con il suo recente coming out coinvolgendo persino il suo compagno David Burtka nell’ennesima favolosa auto-parodia.

Il film è uscito negli USA lo scorso novembre, nel Regno Unito a dicembre. A naso, non lo vedremo nelle sale italiane: per dire, “Harold & Kumar Escape from Guantanamo Bay” da noi non è mai uscito, nemmeno in dvd.

The Innkeepers, Ti West 2011

The Innkeepers
di Ti West, 2011

Dopo il formidabile The House of the Devil, con cui un paio di anni prima si è guadagnato (meritevolmente) un buon numero di fan, Ti West conferma il suo talento scrivendo, dirigendo e montando un nuovo horror “d’altri tempi”: questa volta non si tratta di una replica citazionista dello stile del passato, ma si respira ugualmente un’aria piacevolmente retrò, dall’ambientazione in un hotel infestato dai fantasmi al personaggio della sensitiva interpretato da Kelly McGillis. Difficile immaginare due film più distanti (ardito paragone: dal Tobe Hooper di Non aprite quella porta al Tobe Hooper di Poltergeist?) ma la mano è la stessa e si vede: West alleggerisce moltissimo la materia, rinunciando alla violenza e dirigendo i due attori protagonisti quasi come in una commedia (Sara Paxton è perfetta, una bellissima scoperta), ma ancora una volta si diverte come un matto a giocare con le pause e con le attese (di fatto, non facendo succedere quasi nulla per gran parte del film) e a usare come perno anche narrativo della tensione l’audio, i rumori e gli scricchiolii dell’albergo stregato. Una scelta che sembrerebbe quasi in linea con le recenti tendenze finto-amatoriali, se non fosse che West non lascia nulla al caso ed è davvero bravo da paura: nella scelta delle inquadrature, dei movimenti di macchina, nella gestione dell’unità di luogo e tempo, mostra una grazia e una precisione inaspettate. Si perde forse l’impatto del precedente, e forse non accade nulla che non abbiate visto decine di volte in decine di film, ma The Innkeepers non ha nulla da rimproverarsi: è un film di fantasmi piccolo ma impeccabile, divertentissimo ma crudele, in ogni caso una bella spanna sopra la media del cinema horror odierno.

Il film esce in sala negli states con una distribuzione “limited” il prossimo weekend, ma è stato disponibile online on demand già a partire da dicembre 2011.

Non mi risulta sia prevista un’uscita italiana in sala.

Our Idiot Brother, Jesse Peretz 2011

Our Idiot Brother
di Jesse Peretz, 2011

“You’ve got to get up every morning with a smile on your face, and show the world all the love in your heart, then people gonna treat you better: you’re gonna find that you’re beautiful as you feel” (Carole King, Beautiful)

Quello dell’individuo “alieno” che si inserisce all’interno delle rigide dinamiche di una comunità ristretta (spesso e volentieri una famiglia) sottolineandone le ipocrisie e poi facendone esplodere i meccanismi, è un modello oliatissimo e utilizzato assai spesso sia nella commedia che dramma, non solo nel cinema americano. Il film diretto da Jesse Peretz, regista noto soprattutto per i suoi videoclip (come Learn to fly dei Foo Fighters), ha la buona trovata – anche se non originalissima – di sostituire l’esogeno con l’endogeno: l’alieno in questione, interpretato da Paul Rudd, è infatti parte della famiglia ma concepisce la vita in modo totalmente opposto; è un fratello la cui “idiozia” non è patologica e non riguarda solo il suo look, ma piuttosto il rifiuto (parte inconscio e parte ingenuo) di conformarsi alle norme delle relazioni sociali – non a caso finisce puntualmente in galera, così come puntualmente viene scaricato a causa degli effetti disastrosi del suo candore. La sua famiglia, esattamente all’opposto, è infatti composta da tre sorelle con personalità ben distinte, ciascuna con il suo blocco emotivo: Elizabeth Banks è così impegnata nella carriera da non accorgersi di essere innamorata del suo vicino di casa Adam Scott, Emily Mortimer è la moglie succube di un regista di documentari (Steve Coogan) che la tradisce, Zooey Deschanel attraversa qualche indecisione sulla sua sessualità dopo aver tradito la sua fidanzata Rashida Jones con un uomo. Inutile dire quale sia il ruolo di Rudd, né cosa comporterà la sua candida e irruenta presenza nelle loro vite: il film è talmente schematico che si spiega da solo dall’inizio alla fine, la sua forza è altrove, nei dialoghi intelligenti e nelle interpretazioni del ricco cast (bravissimi soprattutto Rudd, la Banks, Coogan, la Jones e Scott) ma anche nell’idea di allontanare per un attimo la commedia dai territori demenziali, riavvicinandola al cuore dei personaggi in modo convincente, e senza risultare (troppo) stucchevole nella risoluzione della sua “lezione”. La voce di Carole King corre in aiuto sul finale, e non poteva esserci scelta più azzeccata: il film è tutto lì.

Il film dovrebbe essere nel listino Videa-Cde e potrebbe uscire (in sala? in dvd?) la prossima primavera, forse con il titolo Quell’idiota di nostro fratello.

Warrior, Gavin O’Connor 2011

Warrior
di Gavin O’Connor, 2011

Il colpo da maestro di Warrior è aver messo in parallelo due storie costruite su un uso abile quanto smaccato dei cliché del film sportivo rappresentandone una sorta di elevazione alla seconda: l’audacia dell’operazione si rispecchia nella notevole durata del film (circa 140 minuti) che include di fatto due progetti narrativi distinti – quello dell’eroico ex soldato che si iscrive al torneo per dare i soldi alla vedova dell’amico e commilitone, e quello del professore che torna sul ring per salvare la sua casa e la sua famiglia dalla bancarotta. Incidentalmente, i due sono fratelli: ma fino a metà del film è un’informazione quasi irrilevante, perché la prima parte è costruita su una densa ma calma costruzione dei personaggi, di pari passo all’allenamento per il torneo che occupa l’ultima, lunghissima parte.

A quel punto il lavoro è stato fatto con tale abilità che è letteralmente impossibile tifare per l’uno contro l’altro, e qui sta la scaltrezza maggiore ma anche la chiave più immediata del successo di Warrior: perché si capisce, regole alla mano, che uno vincerà e l’altro perderà. E visto che il film carica per due ore sulle spalle possenti dei due protagonisti (Joel Edgerton e un sempre più incredibile Tom Hardy, enorme in tutti i sensi) un peso massacrante di sentimenti e risentimenti, senso di responsabilità, orgoglio personale, e via dicendo, con il perno robusto del conflitto paterno irrisolto (vedi alla voce Nick Nolte), l’esplosione sarà inevitabile. Moltiplicata per due, per mille.

Tutt’altro che un film di bruti sudati che si picchiano, quindi: Warrior è in verità un film terribilmente intimo, ma le catarsi familiari vengono risolte spaccandosi uno contro l’altro, vengono sussurrate tra le lacrime di dolore mentre intorno non si sente che il boato della folla. Sarà pure naif, non sarà sempre raffinatissimo, e i trucchetti del mestiere verranno pure sfruttati uno per uno senza esclusione di colpi (anche bassi), ma il risultato è davvero travolgente – e spudoratamente struggente. Ciliegina sulla torta: due magnifici pezzi dei National a incorniciare il film. Whatever went away, I’ll get it over now. I’ll get money, I’ll get funny again. Walk away now and you’re gonna start a war.

Le Idi di Marzo (The Ides of March), George Clooney 2011

Le Idi di Marzo (The Ides of March)
di George Clooney, 2011

Un giovane e ambizioso consulente per le campagne elettorali del Partito Democratico diventa prima la pedina e poi il motore di un implacabile gioco di potere durante il voto per le primarie in Ohio. Arrivato al suo quarto film da regista e dopo la mezza delusione di Leatherheads, Clooney torna in gran forma con un film complesso ma piuttosto robusto ambientato dietro le quinte di un momento decisivo per la politica americana, raccontato con disilluso cinismo – ancora più duro se si considera il ruolo decisamente ambiguo che Clooney ha scelto per se stesso. La densa sceneggiatura scritta insieme a Grant Heslov e Beau Willimon non lascia troppi spiragli di luce: se l’ideologia è morta da un pezzo, l’idealismo rimane una tattica di facciata dietro cui si nasconde l’ipocrisia più spregiudicata, la lealtà privata di traguardi etici è un valore fine a se stesso, e l’unico modo per non farsi divorare è rispondere con le medesime armi, sporcare quel che resta del proprio candore, e prepararsi al cesaricidio. Il talento di Clooney, come già in Good Night and Good Luck, viene fuori soprattutto nella direzione degli attori: i momenti migliori sono infatti i tesissimi confronti psicologici tra i personaggi, tra cui gli abitualmente bravissimi Hoffman e Giamatti e un’ipnotica Evan Rachel Wood (mai così brava?), anche se Clooney affida tutto il cuore del suo film all’interpretazione trattenuta e dolente di Ryan Gosling.

Fright Night, Craig Gillespie 2011

Fright Night
di Craig Gillespie, 2011

Si può dire ciò che si vuole sul remake di Ammazzavampiri, cult movie di Tom Holland datato 1985 probabilmente assai diverso da come ve lo ricordate, ma non che si trattenga dal fare sforzi notevoli per svecchiare l’originale alla luce della consapevolezza e delle tendenze dell’horror contemporaneo – come quella che lega sempre più spesso il genere alla commedia. Si spinge molto, nella prima parte, sul personaggio geek di Christopher Mintz-Plasse, che interpreta un’altra variante più incattivita e antipatica di McLovin; d’altra parte, da un certo punto in poi, il perno dell’attenzione diventa invece il Peter Vincent di David Tennant.

Ed è lui, indubbiamente, il punto di forza del film: nelle mani dell’indimenticabile time lord di Doctor Who, Vincent diventa uno straordinario pavido showman rinchiuso in un decadente reliquiario vampiresco a Las Vegas che sembra rispecchiare la degradata tradizione stessa del film di vampiri: quando è in campo, come previsto, si mangia tutto il film – con buona pace del grossissimo Colin Farrell e dello spaesato Anton Yelchin. Lo stesso si può dire in qualche modo di Imogen Poots, splendida giovane attrice inglese già vista in 28 settimane dopoCenturion, ennesimo caso di out-of-his-league (come già Sarah Roemer in Disturbia o Haley Bennett in The Hole, per dirne due) che però grazie al suo carisma riesce a non cadere del tutto vittima dei cliché che le hanno ricamato intorno.

Uno dei maggiori limiti del film è il suo essere girato e pensato per il 3D: non sorprende che, di quando in quando, qualcuno lanci un oggetto verso gli spettatori, e la visione casalinga ne vanifica l’effetto circense. Un altro riguarda gli effetti visivi della nuit américaine, con le riprese diurne “scurite” in post-produzione per restituire l’idea del vespro che danno a gran parte del film una sensazione di fastidiosa artificiosità. Ma se si può fare il pelo allo stile o alla scarsa freschezza di tutto il progetto, il divertimento non manca affatto: Gillespie manovra il film con professionalità, tenendo per sé un paio di numeri da primo della classe (il long take durante la fuga in macchina come ne La guerra dei mondi di Spielberg), ma conservando un piglio leggero e onesto: basta guardare gli effetti speciali, sempre il meno realistici e plausibili possibile, perfettamente in linea con un film piuttosto sciocco ma, per nostra fortuna, ben conscio di esserlo.

#planewatched: The Help, The Beaver, Contagion

Come i più attenti avranno notato, a novembre sono stato via qualche giorno. Sono andato lontanuccio. E ho fatto dei lunghi, lunghissimi voli aerei. Durante i quali, a dire il vero, non avevo molta voglia di vedere film – infatti ne ho visti solo tre. Questi tre. La nota puntigliosa è che la qualità e la grandezza dello schermo permetteva una visione di discreta qualità, ma trattandosi di una condizione così peculiare (e non volendo più rimandare) per stavolta ho deciso di venir meno alla rigidità del format e di metterli tutti insieme.

The Help
di Tate Taylor, 2011

Il problema, nello scrivere di un film come The Help, è che i suoi elementi più interessanti stanno al di fuori del film; argomenti che non ho tempo, né voglia, di toccare qui. Per dirne uno: quanto c’è di veritiero, quanto di onesto, e quanto di sottilmente offensivo da un punto di vista storico-sociale nella storia della ragazza emancipata che aiuta le “governanti” di colore nel sud degli Stati Uniti a sfogare letterariamente gli ultimi (tra virgolette) retaggi dello schiavismo? Il film in sé, va detto, è assai meno stimolante delle polemiche che può suscitare, ma preso a sé stante funziona alla perfezione: si tratta di un “Oscar Movie” fatto e finito, ma è tenuto in vita per tutta la sua (notevole) durata dal suo eccezionale cast tutto al femminile, tra cui spiccano l’ottima Viola Davis (l’unica a recitare con un po’ di understatement, e infatti è la migliore del gruppo), un’adorabile Jessica Chastain e una fantastica Octavia Spencer, mentre Emma Stone per una volta risulta un po’ fuori posto. Bryce Dallas Howard spinge sul pedale dell’eccesso e della macchietta, finendo però per regalare un personaggio autenticamente irritante – ed è un complimento.

The Beaver
di Jodie Foster, 2011

Potrei ricopiare quanto ho scritto per The Help, e stavolta riguarderebbe, ovviamente, lo scontro tra attore e personaggio. Ma in questo caso il paratesto, diciamo così, fa parte del gioco: non c’è dubbio che la scelta di Jodie Foster di raccontare l’esaurimento nervoso di Mel Gibson alla luce delle vicende personali dell’attore contribuisca non poco a rinforzare il suo film – un dramma psicologico dalle venature bizzarre che riesce a riportare però, con il giusto dosaggio di ironia e patetismo, una trama quasi irraccontabile su binari sostanzialmente digeribili. Al minutaggio del film però non basta il ben definito e coinvolgente percorso di ascesa e caduta di un mostruosamente bravo Gibson, a cui affianca quindi quello del figlio Anton Yelchin, che occupa un buon terzo del film pur essendo del tutto accessorio – se si esclude la solita, incredibile Jennifer Lawrence.

Contagion
di Steven Soderbergh, 2011

Non ho certo visto tutti i film di Steven Soderbergh, scaltro e altalenante regista per cui – lo ammetto – non provo particolare simpatia, ma ho l’impressione che Contagion possa davvero essere il suo film migliore. La cosa certa è che si tratta di uno dei thriller migliori dell’anno: un’Apocalisse sanitaria orchestrata con classe e cinismo, accompagnata dalla colonna sonora perfetta di Cliff Martinez (in stato di grazia, tra questa e quella di Drive) che sfrutta alla perfezione gli elementi base della paura del contagio e un cast assurdamente ricco – spezzando però la più tradizionale coralità: i personaggi non si incontrano quasi mai tra di loro, sono perlopiù isolati, perduti o disperati, quando non propriamente vittime del sadismo del regista. La grande differenza che rende ancora più efficace Contagion è che qui non è “l’errore umano” a scatenare il contagio, ma un’incontro tra il Caso e il sistema globale – un incontro che ci scopre molto più fragili di quanto pensiamo, al di là della nostra scienza e della nostra volontà. Soderbergh non nasconde di fatto un certo interesse per una riflessione quasi satirica (la burocrazia farmaceutica, lo sgradevole blogger di Jude Law) ma il suo interesse è altrove, concentra tutte le sue energie sulla messa in scena, e il risultato è un horror teso ed entusiasmante, con un finale che è uno schiaffo in faccia, una risata beffarda e un presagio oscuro.

L’alba del Pianeta delle Scimmie (Rise of the Planet of the Apes), Rupert Wyatt 2011

L’alba del Pianeta delle Scimmie (Rise of the Planet of the Apes)
di Rupert Wyatt, 2011

L’ultima volta che qualcuno ha provato a riportare la saga di Planet of the Apes al cinema, lo sappiamo, non è andata nel migliore dei modi: il film di Tim Burton uscito ormai 10 anni fa, un blockbuster cupissimo e non proprio equilibrato, ebbe (in pochi lo ricordano) un enorme successo commerciale, ma venne anche universalmente (e spesso ingiustamente) maltrattato – e i fan più intransigenti del regista non gliel’hanno mai perdonato. Questo reboot, che prende lontanamente spunto da alcuni capitoli della saga originale, cerca di riportare, non con un prequel ma con una compiuta “storia delle origini” su cui impiantare una nuova serie, l’interesse del pubblico sulla storia della conquista della Terra da parte dei primati, proprio allontanandola da velleità (e aspettative) autoriali; e riuscendo in definitiva nell’impresa non facile di confezionare un film avvincente e intelligente capace di accontentare pubblico e critica. Parte di questa riuscita la si deve ovviamente all’evoluzione tecnologica che permette al film di Wyatt di essere anche una sorta di showcase della Weta, esemplificazione strabiliante dello stato dell’arte per quanto riguarda l’integrazione tra live action e CGI; ma è proprio nell’interpretazione (epocale, nel suo ristretto genere) del solito Andy Serkis che si trova la chiave del successo dell’operazione: a costo di non essere certo esente da qualche ingenuità, Rise è un film che nel turbinio dell’azione hollywoodiana e della meraviglia binaria non dimentica mai di curare e accarezzare il suo lato umano. Anche se ha le fattezze di uno scimpanzé.

30 minutes or less, Ruben Fleischer 2011

30 minutes or less
di Ruben Fleischer, 2011

Il secondo film di Ruben Fleischer nasceva sotto i migliori auspici: la sua opera prima Zombieland era stata una delle commedie horror più sorprendenti degli ultimi anni; il cast comprendeva non soltanto lo stesso Jesse Eisenberg, ormai lanciatissimo, ma anche un talento comico indiscusso (e in netta ascesa) come Aziz Ansari oltre all’ormai irrinunciabile Danny McBride; e il plot sembrava rifarsi approssimativamente al modello dell’ottimo Pineapple Express di David Gordon Green. Purtroppo 30 Minutes or Less, nonostante sia un film sufficientemente gradevole e davvero ben realizzato, stenta a spiccare sulla media e sembra accontentarsi di un minimo sindacale di divertimento. Gli si riconosce il merito di voler tagliare davvero corto (il film dura circa un’ora e 20, ma sembra persino più breve) senza tirarla per le lunghe come spesso accade nella commedia americana odierna, ma per quanto riguarda il disegno dei personaggi la cosa non va del tutto a suo vantaggio, e al di sotto del ben calibrato mix di generi e della bravura degli interpreti mancano completamente il carattere e l’inventiva che avevano reso così indimenticabile l’opera precedente di Fleischer. La questione Danny McBride è più particolare: la star della magnifica serie Eastbound and down subisce un deciso calo di carisma e interesse se si priva il suo personaggio-stampino ignorante e vanaglorioso (con tanto di spalla) ogni accenno di redenzione, trasformandolo di fatto in un villain vero e proprio. E questa sottile ma radicale differenza toglie al film un’ambiguità morale che, forse, gli avrebbe giovato.

Il film dovrebbe uscire anche in Italia con WB, prima o poi.

Another Earth, Mike Cahill 2011

Another Earth
di Mike Cahill, 2011

Dopo aver festeggiato l’ammissione al MIT, la giovane Rhoda, guidando verso casa, sente una notizia alla radio: il puntino blu che è apparso nel cielo quella notte è un vero pianeta, finora rimasto nascosto, e del tutto simile alla Terra. Distratta dal tentativo di scorgerlo dal finestrino, Rhoda si schianta contro una macchina ferma causando la morte di una donna e di un bambino.

La premessa di Another Earth – sarebbe un peccato rivelare molto di più sulla trama, ma anche sulla natura del pianeta gemello (attenti ai trailer spoilerosi) – fa capire piuttosto bene quale sia il meccanismo del film, che affronta la fantascienza da una prospettiva singolare quanto la sua ambientazione nella periferia del Connecticut, distante dalla spettacolarità hollywoodiana (dopotutto il film è costato solo 200 mila dollari), per raccontare una storia di errori, rimpianti e impossibili riscatti, dolorosa e intensa, visivamente originale e quasi impressionista. Per Cahill, e per la bravissima protagonista e co-sceneggiatrice Brit Marling, il genere serve soprattutto allo scopo di rivelare l’intimità dei personaggi, ma questo non impedisce ad Another Earth di essere all’occorrenza anche uno dei film di fantascienza più curiosi, affascinanti e sorprendenti degli ultimi tempi. Come nell’improvviso e beffardo finale: un vero colpo di genio che riesce a trascinare l’inquietante mistero del film, delle sue domande sull’identità e sulle seconde occasioni, ben oltre i titoli di coda.

Presentato all’ultimo Sundance, il film uscirà in dvd negli states alla fine di novembre, e in queste settimane è prevista l’uscita in sala in mezza Europa. In Italia dovrebbe uscire il 18 maggio 2012.


Le avventure di Tintin – Il segreto dell’Unicorno, Steven Spielberg 2011

Le avventure di Tintin – Il segreto dell’Unicorno (The Adventures of Tintin: The Secret of the Unicorn)
di Steven Spielberg, 2011

Prima di Tintin ho sempre guardato con sospetto all’utilizzo massiccio della performance capture nel cinema d’animazione, forse per questioni di gusto estetico, forse perché ha allontanato dalla strada maestra la carriera di un regista del calibro di Robert Zemeckis. Ma è proprio con un film realizzato in questo modo che si realizza un desiderio inespresso ma covato nel nostro cuore da tempo: non soltanto il ritorno di un gigante come Steven Spielberg alla sua forma migliore, ma anche di un genere puramente avventuroso, quasi dimenticato e da tempo favolosamente nostalgico, di cui lo stesso regista aveva scritto una pagina memorabile con la trilogia di Indiana Jones.

Si intenda, Tintin non era un film “rischioso”: una macchina produttiva da 135 milioni di dollari, l’egida di Peter Jackson, la penna di tre fra i migliori sceneggiatori britannici in circolazione, un personaggio che – per ammissione stessa del regista e anche dell’autore Hergé, scomparso nel 1983 – sembrava fatto apposta per diventare il protagonista di un film di Spielberg. La sorpresa non è dunque che Tintin sia riuscito, divertente, ben scritto e realizzato, ma che sia così maledettamente irresistibile, che sia all’incirca il miglior Spielberg degli ultimi 10 anni e quello più “meraviglioso”, forse, dai tempi di Jurassic Park, un film dove si ritrova quello stesso senso di incanto e la capacità di restituirlo sullo schermo che ha “passato” ad Abrams in Super 8, ritrovato nel proprio passato per quello che diventato è a tutti gli effetti – dimenticando quel quarto fallimentare capitolo – l’unico Indiana Jones possibile.

Partendo da spettacolari titoli di testa firmati Weta che aggiornano quelli, già classici, di Catch me if you can, il Tintin di Spielberg è un film che non lascia allo spettatore un attimo di tregua e di respiro, inanellando un’invenzione dietro l’altra in un’autentica giostra dinamica – di cui il 3D funge da propagatore e non da alimentatore – ma senza il pericolo che si tratti di horror vacui: lo scopo dell’orchestra animata organizzata da Spielberg e Jackson è quello di sbalordire e rilanciare di continuo, ed è un obiettivo raggiunto e superato. Anche perché le sequenze migliori del film, come quella del deserto che in un flashback si trasforma in un mare in tempesta oppure l’incredibile, quasi impensabile piano-sequenza dell’inseguimento del falco mostrano che dietro Tintin c’è non solo il talento narrativo e commerciale che nessuno oserebbe negare a Spielberg, ma la sua capacità prettamente geniale di piegare tutto, le esigenze tecnologiche, economiche, tecniche, artistiche, a una poetica di rara schiettezza e a una passione nel fare cinema che lascia negli occhi uno stupore ubriacante. Ne vogliamo ancora. E ne avremo ancora.

Midnight in Paris, Woody Allen 2011

Midnight in Paris
di Woody Allen, 2011

“What is it with this city? I need to write a letter to the Chamber of Commerce.”

Chi ha dato per scontato, a causa di qualche titolo poco riuscito, che Woody Allen fosse del tutto bollito e che fosse ormai capace di funzionare – il caso di Whatever Works - solo su copioni vecchi di trent’anni, si dovrà probabilmente ricredere di fronte a Midnight in Paris: un’opera insieme colta e semplice, poetica e divertentissima, sul potere avvincente e stordente della nostalgia, in cui Owen Wilson, alter ego dell’autore perfetto come pochi altri prima di lui, interpreta uno sceneggiatore hollywoodiano con ambizioni da romanziere che finisce per incanto nella Parigi dei suoi adorati anni ’20, a bere con Hemingway, Fitzgerald e Cole Porter – e a innamorarsi di una bellissima musa di Picasso che a sua volta sogna di vivere nella Belle Époque.

Ricco di suggestioni che vanno al di là del gioco spassoso dei riferimenti e dei riconoscimenti (con un cast spettacolare in cui spiccano l’incredibile Dalì di Adrien Brody e la Zelda Fitzgerald di Alison Pill), tra cui una riflessione profonda e inestimabile sul valore artistico assoluto della città come opera d’arte in continua mutazione, il film di Allen riesce a raccontare una Parigi talmente bella e formidabile da saper spezzare la linearità del tempo riducendolo a strati, e insieme al bravissimo Darius Khondji riesce a fotografarla – fin dai seducenti titoli di testa – sfuggendo sempre con grande naturalezza, anche nei suoi aspetti più “turistici”, al pericolo dell’effetto-cartolina. E grazie ai suoi dialoghi magnifici, prima cinici e poi totalmente stregati, Allen trova proprio nella necessità di liberarsi della nostalgia, di guardarla semmai con ammaliato distacco, un rimedio impareggiabile per sopravvivere al presente.

“That’s what the present is. It’s a little unsatisfying, because life is unsatisfying.”

Amici di Letto – Friends With Benefits, Will Gluck 2011

Amici di Letto (Friends With Benefits)
di Will Gluck, 2011

Arrivare in ritardo rispetto a No Strings Attached ha giovato in molti modi a Friends With Benefits: abbiamo visto come e quanto si poteva sbagliare un film con un tema così simile, e ciò contribuisce a valorizzare ancora di più quanto sia riuscito questo differente svolgimento. Ma il vantaggio competitivo, non solo nei confronti di Reitman ma anche della media dei romance odierni, era già sulla carta: quella formata da Justin Timberlake e Mila Kunis è un’accoppiata davvero rara, sono terribilmente (troppo?) bravi, affascinanti ed entrambi di una bellezza travolgente (tanto che la loro alchimia rischia di causare un attrito nello sviluppo narrativo: come possono due simili bombe atomiche metterci così tanto per innamorarsi l’uno dell’altra?); e poi c’è l’invidiabile cast di contorno (Harrelson, Jenkins, la solita fantastica Patricia Clarkson, i cameo di Emma Stone e Andy Samberg) e un regista come Will Gluck, che ha già avuto modo di mostrare (nel bellissimo Easy A ma anche nella sua stupidissima spassosa opera prima Fired Up) di avere freschezza, ritmo, e talento nella direzione degli attori.

Ma la cosa migliore di Friends With Benefits, come già nei due film precedenti di Gluck, è indubbiamente la sua spiccata consapevolezza: come accade sempre più spesso (dai tempi di Insonnia d’Amore, forse) si tratta di una commedia romantica ambientata in un mondo in cui esistono le commedie romantiche; quindi, un’altra sorta di variazione su come proprio queste ultime, al fianco dei più canonici complessi legati al rapporto con i propri genitori eccetera, condizionino irrimediabilmente i rapporti tra giovani uomini e giovani donne – lo dice la Kunis esplicitamente all’inizio, prendendosela con Katherine Heigl di fronte a un poster di The Ugly Truth, e lo dice il film – in modo semplice ma assolutamente geniale – con l’inserto di un film-nel-film, una commedia ridicolizzata eppure irresistibile con Jason Segel e Rashida Jones.

Certo, Gluck non mantiene per tutta la sua durata (non irrilevante: circa 110 minuti) l’inarrestabile cadenza dei dialoghi – spesso davvero esilaranti – della prima metà e lo sguardo beffardo e cinico sui rapporti di coppia, ma anche questo fa parte del gioco, in un film che si muove in parallelo ai suoi personaggi: il sesso lascia spazio ai sentimenti, il romanticismo mette in ombra lo scherzo, e così (come già avevo notato in Crazy Stupid Love di Ficarra e Requa) anche Friends With Benefits finisce per diventare la commedia romantica che era stata guardata con derisoria distanza. E non c’è niente di male.

Crazy, Stupid, Love., Glenn Ficarra e John Requa 2011

Crazy, Stupid, Love.
di Glenn Ficarra e John Requa, 2011

Dopo l’improvvisa richiesta di divorzio, Cal (Steve Carell) comincia a sbevazzare in un bar alla moda, dove viene avvicinato da Jacob, fascinoso womanizer (Ryan Gosling, niente meno) che gli promette di forgiarlo a sua immagine. Nel frattempo, il figlio Robbie è innamorato della babysitter; che però a sua volta è innamorata di Cal. Eccetera. Le cose prendono una piega imprevista dopo l’incontro tra Jacob e Hannah, un delizioso avvocato con la faccia di Emma Stone.

Crazy Stupid Love è un caso più unico che raro: una commedia romantica corale (o quasi) sulle relazioni sentimentali e sull’amore che non risulta sciapa, meccanica o stucchevole. Ficarra e Requa sono riusciti in questo intento, in realtà, tramite un doppio inganno: i due registi, che con I Love You Phillip Morris avevano già dimostrato di sapersi districare tra gli ingranaggi della commedia inserendovi piccole scariche elettriche ed esplosive, fanno ancora una volta il giro intorno ai cliché, ma anche alla loro stessa political incorrectness, per arrivare a una soluzione dell’intreccio che riesce a chiudere in modo impeccabile tutte le parentesi senza rinunciare all’umanità e al cuore dei suoi personaggi. Diventando di fatto una tenera e divertente commedia romantica, e basta: non so se il cinema americano ne abbia bisogno, noi sì.

E i meriti sono divisi equamente tra la sceneggiatura di Dan Fogelman (che viene dalla Disney: ha scritto Cars e Rapunzel), i registi che hanno il coraggio di prendersi tutto il tempo disponibile (il film dura due ore secche, andando spesso ben al di là dello “stretto necessario”), e infine gli attori, ovviamente fondamentali per la riuscita del film, ma qui in particolare stato di grazia. E se Julianne Moore è Julianne Moore, Analeigh Tipton è una gran bella scoperta ed Emma Stone non è nemmeno più catalogabile come essere umano, il meglio lo danno Carell e Gosling: un’inattesa e incredibile coppia comica.

Il film è uscito nelle sale italiane il 16 settembre. Purtroppo non se n’è accorto nessuno: nelle sole due settimane di programmazione erano tutti a vedere il film dei Puffi.

Green Lantern, Martin Campbell 2011

Green Lantern
di Martin Campbell, 2011

Siamo onesti: con Iron Man e i Batman di Nolan a piede libero, era difficile azzeccare un film come Green Lantern. Non è quindi una grossa sorpresa che sia così venuto così disastrosamente male. Incredibile però che dopo tanti anni nei quali i film di super-eroi hanno lottato per guadagnarsi il rispetto degli spettatori prima ancora di quello della critica, un film riesca a fare un tale balzo all’indietro: Green Lantern è un film rumoroso, confusionario e risibile, inspiegabilmente lunghissimo e terribilmente fasullo, che alterna una dimensione cartoon nata vecchia, tutta orribili green screen e luci abbaglianti, a una struttura narrativa risaputa e appiccicata con lo sputo. L’unico a fare uno sforzo in più del minimo dovuto è Peter Sarsgaard, pur costretto a recitare dietro un make up mostruoso, quasi tutti gli altri – compreso un pigrissimo Campbell e un impresentabile Ryan Reynolds – si mantengono su un livello di irritante mediocrità. Certo, ha il pregio di non prendersi mai davvero sul serio, di puntare a un divertimento vecchio stile, grado zero; qualcuno lo troverà rinfrescante, io non sono nemmeno così sicuro che sia un pregio.