The aviator
di Martin Scorsese, 2004
Howard Hughes è un giovane e ricchissimo industriale con la fissa del volo e del cinema. Ma Howard Hughes è (soprattutto, per Scorsese) un uomo sociopatico e paranoico, dilaniato da una patologia multifobica di matrice infantile, che affronta con sfrontata e assurda tenacia il mondo (e il modo) americano, rifuggendo l’idealismo e le dicotomie politiche (basta pensare alla figura che ci fa la democratica famiglia Hepburn) e dedicando la sua vita alla realizzazione di un sogno, o meglio di un’ossessione.
Intorno a lui si dipana la storia di almeno trent’anni di Stati Uniti d’America, dalla depressione al dopoguerra, attraverso lo sviluppo del cinema da una parte e della tecnologia (del volo) dall’altra, che camminano di pari passo ed appartengono entrambi a un immaginario che a che fare con memorie ataviche e irrazionali.
Tali movimenti storici sono comunque trasversali, perché pur nella grandiosità dell’affresco storico e con le ovvie ripercussioni metafilmiche, come il "ruolo" (in tutti i sensi) che star come la Hepburn o la Gardner (o lo spassoso Flynn di Jude Law) hanno nella sua vita, Aviator è soprattutto la storia di un uomo incapace di reagire alle pressioni degli altri e della società, incapace insomma di una catarsi "scorsesiana".
Perché al di sotto delle luci dei flash ci sono i cocci rotti delle loro lampade (forse la scena più bella del film), e al di fuori della realizzazione di uno o più sogni (possibili, ed effettivamente realizzati), meta in cui Howard vede forse la possibilità di poter sconfiggere la sua malattia, c’è sempre la frustrazione e l’impossibilità di liberarsi di un fantasma bambino immerso in una vasca, e il suo ineluttabile travaglio che corre sotto la pelle, e nel sangue.
Aviator è un bellissimo film, ed è davvero difficile da attaccare, sia da un punto di vista tecnico (dove, al di là della perfezione della regia di Scorsese, c’è anche un’insolito e riuscitissimo uso del digitale), sia da un punto di vista artistico: oltre alla bellezza di scenografie (di Ferretti) e costumi, è un film compatto nella sua frammentarietà, appassionante, divertente ed inquietante in egual misura, nonostante la lunghissima durata.
Miracoloso inoltre l’apporto del bravo, anzi bravissimo, Leonardo di Caprio, capace di sostenere per quasi tre ore il suo viso (e il suo corpo) perennemente fisso sullo schermo, mostrando una matura pienezza di e una grande sensibilità attoriale, ma senza strafare o strabordare. Forse quello è anche merito della guida dello zio Martin.
Però, nonostante troppe poche ore siano passate da un film così lungo e complesso, e quindi sia difficile giudicare, questo è inevitabilmente uno Scorsese minore, forse non raggiunge nemmeno il precedente sottovalutatissimo Gangs of new york (parere del tutto soggettivo), ed è quindi lontano dai suoi veri capolavori. Non si creda tuttavia che sia amarezza: non sono disposto a credere in nessuna ipotesi di decadenza autoriale (per chi scrive Scorsese è ancora il più grande regista vivente), e inoltre Aviator è comunque un gran film, assolutamente da non perdere.
Molti, in ogni caso ed inevitabilmente, i lampi di genio: dalle scene di volo all’inizio, a certi piani lunghi che solo ad immaginarli viene il mal di testa (come l’impressionante panoramica circolare negli studi cinematografici di Hughes, per citarne uno), tutta la lunga e angosciante sequenza dell’autoreclusione (bottiglie di urina comprese), e ovviamente l’inizio e il finale speculari. Il resto è (purtroppo, o no), solo gran bel cinema.
Seduti accanto a me, un blogger non-del-tutto-convinto e un Andrea estasiato. E poi una birra: no comment sulla musica alta…