Stati Uniti

Hellboy
di Guillermo del Toro, 2004

La delusione della critica e dei fans del comic Hellboy proviene dal fatto che un fumetto straordinario come quello di Mike Mignola non sarà mai altrettanto bello sullo schermo. Ed è vero, lo confermo con tranquillità. Ma al di là di questo, e a prescindere dall’opera di provenienza, l’ho trovato un film divertente e ben fatto.

Il lavoro di Guillermo del Toro non mi ha deluso del tutto, ma forse era troppo preoccupato di rispettare lo "spirito" di Mignola per stare anche a badare a un minimo di contorno, giocandola un po’ troppo sull’ironia facilona e cadendo nella trappola del ridicolo più di una volta. Ma nella maggior parte dei casi si resta su un livello più che dignitoso.

Non è Raimi insomma, e pazienza, ma non è affatto da buttare via. E Ron Perlman è fantastico.

Hollywood ending
di Woody Allen, 2002

Nel terzultimo film di Woody Allen, la malinconia che dovrebbe essere nell‘opera (visti i continui rimandi alla vita e soprattutto ai film di Allen stesso), è invece nell’esperienza spettatoriale, e si manifesta come una sorta di tristezza, di senso di vecchiaia, di imbalsamazione.

Ciò non toglie comunque che Hollywood ending sia divertente e soprattutto sia spudoratamente intelligente, e che il suo attacco irridente (sorridente più che davvero crudele) al cinema hollywoodiano e alla "morte della regia" (con più di una geniale frecciatina nei confronti della politique des auteurs) sia preciso e colga spesso nel segno.

L’interpretazione di Allen non aiuta, anche se le battute che si mette in bocca sono davvero irresistibili: le sceneggiature le scrive ancora come dio comanda. Peccato che per il resto si debba sempre rimpiangere Annie Hall (o anche solo Mighty Aphrodite).

"Sex is better than talk. Ask anybody in this bar. Talk is what you suffer through so you can get to sex."
"Thank God the French exist!"

Una commedia sexy in una notte di mezza estate (A Midsummer Night’s Sex Comedy)
di Woody Allen, 1982

Allen, nel mezzo di alcuni tra i suoi capolavori, si prende una pausa divertita (forse solo in apparenza, vista la cura formale) e racconta una storia di amore e sessualità, riportando all’inizio del secolo le sue nevrosi metropolitane (dando alla campagna e a Mendelssohn il compito di scioglierle) e ragionando sul contrasto tra razionalismo e irrazionalismo, ovviamente con il sorriso sulla bocca.

Non propriamente il mio Allen preferito, ma abbastanza in forma e sempre divertente. E capace di momenti di magia che da lui non ci si aspetterebbe (la palla magica, deus ex machina che ricorda la sessopalla del Dormiglione).

E poi c’è Mary Steenburgen, ancora nel fiore nella sua inspiegabile bellezza.

The aviator
di Martin Scorsese, 2004

Howard Hughes è un giovane e ricchissimo industriale con la fissa del volo e del cinema. Ma Howard Hughes è (soprattutto, per Scorsese) un uomo sociopatico e paranoico, dilaniato da una patologia multifobica di matrice infantile, che affronta con sfrontata e assurda tenacia il mondo (e il modo) americano, rifuggendo l’idealismo e le dicotomie politiche (basta pensare alla figura che ci fa la democratica famiglia Hepburn) e dedicando la sua vita alla realizzazione di un sogno, o meglio di un’ossessione.

Intorno a lui si dipana la storia di almeno trent’anni di Stati Uniti d’America, dalla depressione al dopoguerra, attraverso lo sviluppo del cinema da una parte e della tecnologia (del volo) dall’altra, che camminano di pari passo ed appartengono entrambi a un immaginario che a che fare con memorie ataviche e irrazionali.

Tali movimenti storici sono comunque trasversali, perché pur nella grandiosità dell’affresco storico e con le ovvie ripercussioni metafilmiche, come il "ruolo" (in tutti i sensi) che star come la Hepburn o la Gardner (o lo spassoso Flynn di Jude Law) hanno nella sua vita, Aviator è soprattutto la storia di un uomo incapace di reagire alle pressioni degli altri e della società, incapace insomma di una catarsi "scorsesiana".

Perché al di sotto delle luci dei flash ci sono i cocci rotti delle loro lampade (forse la scena più bella del film), e al di fuori della realizzazione di uno o più sogni (possibili, ed effettivamente realizzati), meta in cui Howard vede forse la possibilità di poter sconfiggere la sua malattia, c’è sempre la frustrazione e l’impossibilità di liberarsi di un fantasma bambino immerso in una vasca, e il suo ineluttabile travaglio che corre sotto la pelle, e nel sangue.

Aviator è un bellissimo film, ed è davvero difficile da attaccare, sia da un punto di vista tecnico (dove, al di là della perfezione della regia di Scorsese, c’è anche un’insolito e riuscitissimo uso del digitale), sia da un punto di vista artistico: oltre alla bellezza di scenografie (di Ferretti) e costumi, è un film compatto nella sua frammentarietà, appassionante, divertente ed inquietante in egual misura, nonostante la lunghissima durata.

Miracoloso inoltre l’apporto del bravo, anzi bravissimo, Leonardo di Caprio, capace di sostenere per quasi tre ore il suo viso (e il suo corpo) perennemente fisso sullo schermo, mostrando una matura pienezza di e una grande sensibilità attoriale, ma senza strafare o strabordare. Forse quello è anche merito della guida dello zio Martin.

Però, nonostante troppe poche ore siano passate da un film così lungo e complesso, e quindi sia difficile giudicare, questo è inevitabilmente uno Scorsese minore, forse non raggiunge nemmeno il precedente sottovalutatissimo Gangs of new york (parere del tutto soggettivo), ed è quindi lontano dai suoi veri capolavori. Non si creda tuttavia che sia amarezza: non sono disposto a credere in nessuna ipotesi di decadenza autoriale (per chi scrive Scorsese è ancora il più grande regista vivente), e inoltre Aviator è comunque un gran film, assolutamente da non perdere.

Molti, in ogni caso ed inevitabilmente, i lampi di genio: dalle scene di volo all’inizio, a certi piani lunghi che solo ad immaginarli viene il mal di testa (come l’impressionante panoramica circolare negli studi cinematografici di Hughes, per citarne uno), tutta la lunga e angosciante sequenza dell’autoreclusione (bottiglie di urina comprese), e ovviamente l’inizio e il finale speculari. Il resto è (purtroppo, o no), solo gran bel cinema.

Seduti accanto a me, un blogger non-del-tutto-convinto e un Andrea estasiato. E poi una birra: no comment sulla musica alta…

Gigi
di Vincente Minnelli, 1958

Gigi è imperfetto e invecchiato, un po’ immobilizzato nella sua ambientazione d’interno parigino e dalle sue (bellissime) sgargianti scenografie. Insomma, nonostante gli americani e Parigi, non è Un americano a Parigi.

Però il cinema di Minnelli è comunque una piacevole boccata d’aria (soprattutto in giorni così stressanti), anche questa anacronistica storia d’amore e di convenzioni, malinconicamente rivolta a un sentimento schiacciato dall’ipocrisia sociale e infine, ovviamente, trionfante.

E poi, ci sono le musiche di Loewe & Lerner (soprattutto The night they invented champagne e I remember it well cantata da Chevalier e la Gingold sulla terrazza). E Leslie Caron è deliziosa, ancora: basterebbe lei.

Orizzonti di gloria (Paths of glory)
di Stanley Kubrick, 1957

Rivisto ieri sera perché il dvd giuntomi nelle mani a natale era ancora sigillato, e perché Orizzonti di gloria si rivede sempre volentieri. In più, l’altro giorno era la giornata della memoria, e forse ieri era il giorno giusto per vederlo. Questa è stata la mia visione personale, perché la memoria dev’essere memoria di ogni passato.

E ricordare quel terribile passato, sì. Ma è importante anche non dimenticare il presente.

"There are few things more fundamentally stimulating that watching another man die"

Una passeggiata tra le bombe, l’attesa della morte, un canto mormorato di sottile e tragica speranza. Difficile scriverne, impossibile dire altro. La perfetta sintesi tra forma e contenuto, film di guerra forse insuperato, capolavoro kubrickiano. E assoluto.

Alexander
di Oliver Stone, 2004

Dunque, continua la cannibalizzazione della storia antica da parte di Hollywood. Con dei distinguo, però: Alexander non è il disastro che fu Troy, e nemmeno la delusione che fu (a mio parere) Gladiator.

Prima di tutto, il film è sorretto da una sceneggiatura che, se non ottima, è almeno dignitosa, e dalla felice scelta narrativa di Stone di concentrarsi sul rapporto di Alessandro Magno con la madre, e di mostrare un Alessandro scisso dal conflitto edipico, decidendo con intelligenza di posticipare il perché di questo conflitto con un flashback posto nel punto giusto. Con un personaggio così, era difficile fare cilecca del tutto.

In più, non solo nella bisessualità di Alessandro, ma anche nella bella sequenza del banchetto nuziale di Filippo, il recupero della promiscuità dei rapporti sessuali permette a Stone di dare una dimensione nuova, o comunque meno reazionaria, alla sfera sessuale dell’eroismo, cosa di cui Troy aveva una paura fottuta mentre Stone ci sguazza come un’anatra.

E poi Stone ha ancora uno stile che, seppur appiattito e banalizzato rispetto a lavori del passato ben più validi, Scott aveva già perso da tempo, per tacere di Petersen che non l’ha mai avuto: lo dimostra la battaglia di Gaugamela, il colpaccio di genio del "volo d’aquila" sul campo di battaglia, un massacro a sassate che ha una carnalità difficile da trovare nell’epica softcore di Troy.

Ma Gaugamela non è l’unico bel momento del film: anche gli occhi furiosi di Alessandro che si scagliano contro l’elefante indiano, la scena intensissima dell’omicidio di Clito, e soprattutto la sequenza quasi visionaria della sua morte, in cui Stone coglie nel segno proprio nell’esagerazione simbolica e nell’accumulazione che lo identifica come autore.

Purtroppo, il film ha alcuni notevoli difetti. Cedere in più di un momento a perdonabili convenzioni da soap; presentarsi come bignamino della storia occidentale, quando non dovrebbe avere pretese di veridicità assoluta, bensì di rilettura epica; e soprattutto uno: è troppo lungo. E non solo nel totale dei suoi 175 minuti, ma anche nelle singole sequenze: Stone si perde via in un bicchier d’acqua, in dialoghi tirati a lungo, prolissi e inutili.

A dispetto delle aspettative (basse) e dei precedenti, ed elencati (ed altri) difetti a parte, Alexander non è affatto male, e dimostra che Troy non era un fallimento per un’idea nata sbagliata (la volgarizzazione nordamericana dell’epica ellenica), ma solo la pessima realizzazione di un’idea sostenibile (la rilettura popolare del mito precristiano).

The chronicles of Riddick
di David Twohy, 2004

Riddick è la conclusione di una saga iniziata con Pitch Black, gioiellino della fantascienza di serie B, e inframmentata da un cartone, Dark fury, che non ho visto.

Rispetto al "capitolo uno", Twohy ha molti più soldi, forse per la guadagnata notorietà del protagonista, il ruvidissimo e appropriato Vin Diesel. E si sente come un bimbo con un buono per la fabbrica del cioccolato: gli effetti speciali, davvero straordinari anche se un po’ PS2, sono esibiti in ogni inquadratura con una veemenza che neanche Lucas, e che mette simpatia.

Peccato che Riddick non sia bastardo come in PB, che si scada a volte nella tamarrata, che manchi un po’ di ironia (carenza a cui sopperisce Diesel) e che i suddetti ottimi effetti speciali soffochino a volte l’interesse di un contesto narrativo, quello di una "nuova crociata" per il livellamento spirituale, tutto sommato molto interessante.

Senza dubbio però ci si diverte, forse più di quanto pensavo. La parte sul pianeta Crematoria, con la lunga fuga dalla luce solare, è una sequenza davvero spettacolare ed appassionante, e fa il paio con la "fuga dal buio" di PB. Insomma niente per cui morire ma nemmeno per cui uccidere.

LInk: i voti dei Cinebloggers

FFF2005
Shark tale

di Bibo Bergeron, Vicky Jenson e Rob Letterman, 2004

Ammetto un briciolo di pregiudizio: l’ho detto decine di volte che sono un "pixiariano". Non quindi una delusione, bensì una conferma: Shark tale è anche carino, sicuramente divertente, decisamente ben fatto, ma siamo lontani anni luce dai capolavori della Pixar. Non è una questione grafica, che poi è quella su cui la Dreamworks si accanisce: è proprio una questione di scrittura.

La casa di Spielberg e-compagnia-bella, dopo il progetto Shrek che ormai vive di vita propria, ha affrontato lo scontro del 2004 con gli Incredibili con questa "storia di squali". Un po’ fuori tempo massimo: se gli squali mafiosi, con la catena alimentare metafora delle violente gerarchie sociali, è un’idea divertente, non sfiora quella dei "carnivori anonimi" di Nemo. E tutto si riduce, solito dramma della Dreamworks, a un semplice spoof cinefilo.

Colpo azzeccato è quello di ritornare su binari narrativi più rassicuranti, accantonando il cinismo (tra virgolette) di Shrek per una classica storia di ascesa e declino. Un po’ troppo classica, forse, e non c’è nulla di nuovo: ma se è ammirevole il tentativo di restituire un messaggio universale di onestà e collaborazione sociale invece di continuare a giocare solo con il pubblico "adulto". Per quanto il finale sia davvero troppo edificante, e dimentichi tutto d’un tratto di cosa sia fatta la vita vera.

Dopo un inizio davvero straordinario e pieno di gag, le trovate si fermano irrimediabilmente, e la cosa peggiore è che maggior parte di esse sono scritte apposta per far sganasciare un pubblico come quello americano, con molti riferimenti alla mtv culture, e mille giochi di parole per cui probabilmente gli adattatori italiani hanno passato notti insonni. Will Smith dal canto suo ce la mette tutta, ma era quasi meglio Chris Rock in Osmosis Jones.

Davvero brava invece la personalissima voce della Zellweger (perché mi piace tanto quella voce?) e uno spasso Martin Scorsese in guisa di pesce-palla. In fondo le mie risate me le sono fatte, ma non posso dire di essere uscito soddisfatto dalla sala. Non oso comunque immaginare il disastro della versione italiana: mi asterrò as long as possibile.

Chinatown
di Roman Polanski, 1974

"I goddamn near lost my nose. And I like it. I like breathing through it."

Nel costruire il suo appassionato omaggio al genere noir, nonostante molti degli elementi introdotti dalla sceneggiatura di Robert Towne siano piuttosto dei ribaltamenti di canone o comunque spostamenti di prospettiva, Polanski costruisce un ottimo noir che si sostiene da sè senza nessuna pecca e che regge il confronto con il passato del genere.

Merito della suddetta splendida sceneggiatura, che da un assunto tipico costruisce un plot che segue un doppio binario: da una parte l’immagine sociale della corruzione e della menzogna, dall’altra una storia dolente di violenza familiare e di abbandono, che Towne e Polanski ci fanno intuire poco a poco con incredibile tensione fino alla parte finale, che prima sconvolge e infine agghiaccia. Probabilmente la più bella chiusa del cinema di Polanski, e tra le più crudelmente morali del cinema contemporaneo.

Girato magnificamente, con un’attenzione incredibile ai dettagli e con una cura maniacale dell’insieme visivo e narrativo, il film deve però molta della sua celebrità alle interpretazioni degli attori. E non a caso: un Nicholson gigantesco (soprattutto in lingua originale), un Houston grandissimo, ma soprattutto Faye Dunaway, vero perno della vicenda, bellissima e sofferente, affascinante e fragile. La sua interpretazione più bella.

Insomma, un signor classico.

"As less as possible"

Fuga da Alcatraz (Escape from Alcatraz)
di Don Siegel, 1979

Uno delle pietre portanti del genere carcerario, tra i più celebri del suo genere, e forse il più famoso del suo autore.

Secchissimo ma terribilmente efficace, a partire da una storia talmente vera da essere incredibile, scritto con intelligente consapevolezza dei cliché, e diretto in modo misuratissimo e rigoroso. Eastwood è al meglio delle sue forze (in)espressive, e Frank Morris è uno dei suoi personaggi più riusciti.

Nonostante io non ami particolarmente questo sottogenere, e lo ritenga un oggetto (solo un pochino) sopravvalutato, apprezzo quello che vedo, con oggettività: un gran film.

La tomba di Ligeia (The tomb of Ligeia)
di Roger Corman, 1965

L’ultimo degli adattamenti cormaniani dai racconti di Poe è un bellissimo piccolo film, che sa trattare la materia dell’angoscia e dell’ossessione con mezzi spartani, sa stupire (come l’efficacissimo incipit), anche osando a tratti (la scena onirica). Davvero adorabile, a patto di ignorare del tutto le derivazioni (stilistiche e drammaturgiche) dall’opera di Bava. Tanto per fare un esempio da ignorante, La frusta e il corpo.

Di grande fascino le interpretazioni, e geniale la scelta hitchcockiana del doppio ruolo affidato a Elizabeth Shepherd. Che comunque nulla può contro l’immensa statura di Vincent Price.

Shrek 2

di Andrew Adamson, Kelly Ashbury, Conrad Vernon, 2004

Pur avendo apprezzato Shrek per quel che è (necessariamente, un gran bell’oggettino), non nutro una spassionata simpatia per l’orco verde di Andrew Adamson. Un po’ per la mia predilezione per i prodotti Pixar, sempre spanne sopra a quelli Dreamworks (e quello era pure l’anno di Monsters, Inc.), un po’ per i difetti che il film riscontrava, già dalle "seconde visioni".

Nel suo insieme, il secondo capitolo è, non di molto ma in maniera evidente, superiore al primo. Superati con professionalità i seri problemi di ritmo di Shrek, l’evidente interesse degli autori per una maggior profodità e coralità dei personaggi porta buoni frutti. Il discorso sbocciato nel film precedente viene sviluppato: da valore da rispettare, la diversità diviene un valore da conservare, e da difendere a tutti i costi. E il lieto fine è davvero convincente per la coerenza con cui chiude questo dittico (e che ci permette di liberarci dell’orco per almeno tre anni). Senza contare il "solito" divertentissimo numero musicale alla fine (che sta a questo film come i "corti" stanno alla Pixar).

Ancor più del primo, questo secondo Shrek si rivolge a un pubblico disincantato e adulto, che riconosce gli ammiccamenti cinefili, quelli scatologici e (in misura controllata) sessuali. Qualche cosuccia non funziona, è irrimediabile: l’eccesso citazionistico non è più riferito solo (o soprattutto) al mondo delle fiabe e dei cartoon, ma questa volta in modo massiccio al cinema hollywoodiano: gag irresistibili, ma il metodo non convince del tutto. Così come la colonna sonora, un paio di volte persino irritante. Ma Capitan Uncino che suona il piano nella bettola cantando con la voce di Nick Cave è la trovata più geniale di tutto il film.

Mostruosi passi avanti nella tecnica: si vede nei grandi spazi e nei paesaggi (durante il viaggio verso il "land far far away"), ma soprattutto si nota nel personaggio della fata madrina (tra l’altro, azzeccatissimo), che raggiunge una verosimiglianza e un’espressività impressionante.

Infine, impossibile non nominare la vera star del film. l’impagabile personaggio zorresco del Gatto con gli Stivali. Al di là delle scene mostrate negli spot (purtroppo tra le migliori, come quella della palla di pelo), tiene davvero testa a tutti, tiene persino in piedi molte scene da solo, e fa sganaciare ogni volta che apre la bocca, ma anche solo standosene in disparte. Oppure aprendo i suoi occhioni dolci.

Il fantasma dell’opera (The Phantom of the Opera)

di Joel Schumacher, 2004

Versione originale

Essenziale segnalare che questo post parla dell’edizione originale con sottotitoli: l’edizione italiana è doppiata. E quindi, trattandosi di musical, è un disastro: una scelta insensata, squallida, fuori dal tempo. Peccato che anche su questa versione non si possa dire molto di buono: Il fantasma dell’opera è un film confuso e disordinato, caotico e inessenziale, noioso e interminabile.

Schumacher inoltre si dimostra come uno dei peggiori tra i meglio-foraggiati registi contemporanei, e fa dubitare con questa prova persino della buona fede mostrata in Tigerland. È buona l’idea proustiana di far scaturire il ricordo dall’oggetto materiale, con il lampadario che si innalza e rinasce, e fa rinascere dalla sua luce e dal suo vento il teatro dell’Opera com’era nel passato: ma la stessa cosa c’era, uguale identica, nel Titanic di Cameron. E là era migliore, ed è tutto dire.

E poi finisce tutto lì, in quella frame-story bianco/nero e richiamata ogni tanto a dare spessore emotivo al ricordo, come se servisse. Il resto è un’altalena tra la sua solita insopportabile spocchia postmodernista (un paio di svolazzi, la scena degli specchi, le inquadrature sghembe della prima parte) e un diffuso e squallido piattume. Unica eccezione, la sequenza del cimitero: piacevole, ma davvero non basta.

Certo, colpa parziale va anche al materiale di partenza, perché The Phantom of the Opera non è il miglior musical di Andrew Lloyd Webber. Nessuna canzone veramente memorabile, e un metodo di richiamo tematico che, altrove affascinante, qui stanca in fretta. Forse a teatro era un’altra cosa, impossibile giudicare: ma qui di cinema stiamo parlando.

E nonostante lo sforzo tecnico-artistico davvero notevole (bellissimi i costumi e le scenografie), nei tempi del musical luhrmanniano, Il fantasma dell’opera è un cinema nato vecchio, bolso e senza alcun interesse, che vale forse come cometa di una stella già consumata sui palchi, ma non vale molto di più.

Batman – Il ritorno (Batman returns)

di Tim Burton, 1992

Rivedendo questo film, per la prima volta in lingua originale, mi sono reso conto (o ho scoperto?) una cosa nuova: a discapito delle perfette interpretazioni di tutto il cast (DeVito, Walken, persino Keaton), il miglior giocatore in campo è, chi l’avrebbe mai detto, la catwoman di Michelle Pfeiffer. Con quella tutina di pelle aderente e "zippata" e quegli occhi, neanche a farlo apposta, da gatta.

Nessun vero rivale. Il suo "miao" seguito dall’esplosione è uno di quei momenti che riescono ad essere cult quasi senza volerlo (o almeno senza mostrar di volerlo). Per non parlare del ballo con Keaton, alla festa mascherata. E la sequenza in cui la Pfeiffer macchia e brucia i suoi vestiti, i suoi peluche, quella geniale doll’s house: brucia e macchia letteralmente la sua infanzia, determinando il passaggio allo statuto (sessuale) di donna. Donnagatto, si intende.

Sul film non spendo nemmeno parole: credo che si sia capito con chiarezza quale sia la mia opinione. Meraviglioso.

internal links: ho parlato anche di Big Fish, Planet of the apes

Stalag 17

di Billy Wilder, 1953

"I don’t know about you, but it always makes me sore when I see those war pictures… all about flying leathernecks and submarine patrols and frogmen and guerillas in the Philippines. What gets me is that there never was a movie about POWs – about prisoners of war.

Now, my name is Clarence Harvey Cook: they call me Cookie."

Il film si apre così, con una dichiarazione d’intenti: "non so voi, ma mi irrito sempre quando vedo quei film di guerra", i film in cui è descritto solo l’aspetto tecnico e spettacolare della guerra, ed è tralasciato l’aspetto umano. Così Wilder si rinchiude in una sorta di non-luogo ante litteram: lo stalag, il campo tedesco di prigionia militare, e più in dettaglio la baracca in cui si svolgono quasi tutte le vicende. Per parlare non per forza di come si viveva realmente dentro uno stalag (forse un po’ peggio?), ma di come un gruppo di uomini può sopravvivere in uno stalag.

Wilder si spinge anche oltre, grazie a una sceneggiatura scritta con Edwin Blum, bella ma non brillante come quelle scritte con I.A.L. Diamond, e trasforma il film bellico in una delle sue corrosive pièce, vera e propria commedia drammatica in cui la caccia alla spia è pretesto per una ricca incursione nelle relazioni umane, arricchita da spunti originali sull’amicizia virile e sul tradimento, sui valori antimilitaristici della fratellanza e dell’onestà, e soprattutto da uno sguardo cinico sul valore e sui compromessi dell’individualismo ("dog eat dog").

Grande la regia, come al solito, per come riesce a sfruttare gli spazi ristretti a sua disposizione. In questo, almeno due scene da ricordare: un virtuoso carrello in avanti (richiamato da un "controcarrello"), che richiama un gioco di sguardi tra due personaggi; e la scena in cui Sefton scopre, grazie all’ombra penzolante di una lampadina, il metodo con cui la spia comunica con i tedeschi, mentre nella baracca tutti ballano e cantano.

Davvero eccezionali le prove di William Holden (premiato quell’anno con l’Oscar, e come negarglielo), e di Robert Strauss & Harvey Lembeck ("animal" e Shapiro), che forniscono il respiro farsesco dell’intero film.

Internal links about mister Wilder: L’appartamento.

[remainder]

Esce domani nelle sale "Birth", il film di Jonathan Glazer con Nicole Kidman e Lauren Bacall, presentato all’ultimo Festival del Cinema di Venezia, in Concorso. Come già altri film presentati in laguna, ho già avuto la fortuna di vederlo (con quella donna meravigliosa seduta a pochi metri da me), e vi rimando quindi al mio breve commento.

Birth è un film alquanto problematico sul piano narrativo, e forse non del tutto riuscito. Ma è un film formalmente formidabile, originale e raffinato, e spaventosamente coerente. Non un grandissimo film, ma è almeno un’interessante alternativa, soprattutto da un punto di vista ritmico, riflessivo e curato in maniera molto "autoriale" (questo potrebbe far imbestialire molti) e con una grandissima Kidman.

Ma sì, andate a vederlo e poi ditemi. Tanto non vi piacerà, sono io che sono stupido.

Ultimo importantissimo avvertimento: come capita spesso, non date retta alla pubblicità in tv, altrimenti finirete per odiarlo. Già mi vedo la gente che esce dalla sala incazzata. Se avete voglia delle emozioni horror che gli spot promettono, andate a vedere un altro film.

Essi vivono (They live)

di John Carpenter, 1988

Essi vivono è uno dei film più sottovalutati di John Carpenter, trasmesso in tv con svagatezza ma diventato con gli anni un oggetto di culto. E meritatamente, perché è uno dei film dove il regista statunitense riesce in modo migliore (come nello splendido e anch’esso sottostimato Fantasmi da Marte) a congiugare due delle sue vene.

La prima è quella carnale e diretta da regista di serie B, con una struttura originalissima (in cui un terzo di film è mera premessa), e un ritmo rilassato e blues (bellissima colonna sonora inclusa – ovviamente dello stesso Carpenter) che nessun produttore finanzierebbe mai con generosità. Mentre è il suo punto di forza.

La seconda vena è quella più propriamente politica: la non sottilissima metafora del film sull’emergenza prepotente della classe dirigente legata alla minaccia della subliminalità della cultura dell’immagine, vista tra l’altro dall’ottica inusuale della "classe operaia" in un progetto più che socialista, non solo calzava perfettamente nel periodo in cui venne prodotto (quasi un baratro nella cultura yuppistica anni ’80), ma si presenta ancora oggi come un modo intelligente, magari grezzo e legato al "cinema puro" che tanto piace a Carpenter, per parlare di verità e menzogna nella cultura postmoderna.

They live è anche uno dei film più dickiani mai prodotti, sia per il modo in cui la paranoia e le riflessioni sul dubbio ontologico (più che simili a quelle di Dick) si uniscono a una narrazione di genere caratterizzata da un estremo realismo, sia per le citazioni letterari: il titolo viene da una scritta su un muro ("They live, you sleep") che viene direttamente da Ubik (lì era "I am alive, you’re dead").

Per la mia esperienza personale, è autenticamente cult nell’accezione più precisa e positiva del termine, l’interminabile sequenza in cui i due protagonisti, in un vicolo, si prendono semplicemente a pugni per diversi minuti. L’uno per preservare inconsciamente la sua visione della realtà, l’altro per avere un partner (sacrificale, come il vero eroismo è, alla fine) con cui lottare per la verità. Sempre strabiliante.

Internal links on mister JC: Dark Star, Christine.

Closer

di Mike Nichols, 2004

"Lying is the best thing a girl can do without taking her clothes off. But it’s more fun if you do."

L’ultimo film di Mike Nichols è la storia delle vicende, o meglio di alcuni momenti essenziali, separati da ampissime ellissi (settimane, mesi, anni), nelle vicende di quattro personaggi. Due uomini inglesi e due donne americane nella Londra odierna, travolti un po’ dal caso e un po’ dai loro stessi sentimenti.

Closer è un film sul rapporto che l’opposizione vero/falso intraprende con i sentimenti e con le relazioni amorose. E’ quindi un film sull’amore e sulla menzogna, sull’inizio e sulla fine dell’amore, quasi antropologico nell’affrontare i dettami dei violenti litigi, dei tradimenti e delle riappacificazioni. Con un finale curioso e a tono, che non fa che ristabilire, con un briciolo di cattiveria, la condizione iniziale di solitudine: la coppia non può che essere che apparenza se il tutto (il film, l’amore, il mondo) è generato dal falso.

Nonostante l’idea sia buona, o almeno interessante, il film non lo è più di tanto. Sconta infatti pesantemente la sua origine (un buon testo per il teatro di Patrick Marber), che rende inutilizzabile a scopo morale quanto è detto, in quanto la ricerca della perfezione teatrale mina seriamente la credibilità. Inoltre, i quattro personaggi, categorializzati rispetto alle loro vite professionali, sono insopportabili senza essere sgradevoli (che sarebbe stato meglio), incoerenti senza uno sguardo che vada oltre il particolare, cinici senza essere davvero credibili.

Il film è ovviamente girato in modo gradevole, soprattutto quando la linearità ellittica lascia strada all’incastro dei flashback, in cui non sappiamo il grado di verità – ancora lei – di ciò che stiamo guardando. E interpretato bene, ma non quanto si vorrebbe: lo stile si china con troppa umiltà (e poche trovate) alle esigenze attoriali, e in qualche momento persino gli attori deludono. Tranne forse Natalie Portman, la migliore dei quattro. Il doppiaggio, comunque, non aiuta (soprattutto perché qui ci sono in ballo due accenti che sono due culture).

Closer è un film da camera freddo e depressivamente misantropo, agghiacciante e a volte persino irritante, che spreca scene molto buone (come il primo incontro tra la Roberts e la Portman, con quella foto di lacrime) con un erotismo borghese che, dopo essere stato irriso (nella scena del cybersesso), torna subito a farsi strada: ma è il linguaggio, la parola, ad osare tutto, mentre il sesso vero, la carne e il fuoco della passione, è tenuto pruriginosamente fuoricampo.

Non c’è più insomma tempo per l’amore, e nemmeno per la passione: se siete d’accordo, accomodatevi.

Dracula cerca sangue di vergine… e morì di sete (Blood for Dracula – Andy Warhol’s Dracula)

di Paul Morrissey e Antonio Margheriti, 1974

Prodotto e girato in Italia dalla cricca warholiana con due lire e un cast davvero surreale, Blood for Dracula (titolo decisamente più sobrio di quello affibbiatogli in Italia) è un film che cerca di declinare il racconto stokeriano nell’ordine della riflessione storico-politica. Il film si svolge presumibilmente in un’italia prefascista, dove il puritanesimo cristiano nasconde altarini sessuali basati su consapevoli menzogne, e la cultura della verginità non è che una malata ipocrisia.

Ma la variante è soprattutto politica: infatti il vampiro viene scoperto (e annientato in un bel finale sanguinolento) da un bel contadino: colto, marxista, e gran scopatore. Che lo odia a morte non perché è un mostro succhiasangue, ma perché è un aristocratico rumeno. Al di là dell’ideologia, qui è davvero impossibile non fare il tifo per il vampiro, interpretato da un affascinante Udo Kier, piuttosto che per il solito Joe Dalessandro, aitante e antipatico.

Qualche bizzarria, come lo spassoso utilizzo di De Sica, qualche scena violenta ed eccessiva, come le due crisi di vomito, qualche guizzo visivo (il conte che si aggira in sedia a rotelle per la casa), e tutto sommato, girato benino.

Per il resto, tecnicamente è un semplice horror, perché purtroppo non esplode il livello parodico, e per essere solo un horror non fa paura e a tratti è persino un tantinello noiosetto. Però, se davvero si vuole, c’è da divertirsi.