Stati Uniti

The village

di M. Night Shyamalan, 2004

Contro ogni aspettativa, e contro il parere freddino riservato dalle platee americane, il nuovo film di Shyamalan è forse il suo capolavoro, capace di superare in un colpo la geniale ricerca di Unbreakable (finora il suo film migliore), e di ampliare un discorso metaforico già introdotto dal non del tutto riuscito (ma sottovalutatissimo) Signs.

Il regista indiano riprende quindi molti dei suoi temi, e in primo piano c’è ancora il contrasto tra identità e alterità, ma li arricchisce con una profonda iconografia fiabesca (il babau, cappuccetto rosso), una dimensione della paura atavica e ancestrale, e uno stuolo di straordinari personaggi, tra cui spicca la vera protagonista, la straordinaria e bellissima Bryce Dallas Howard.

La fotografia è basata su un’assenza cromatica, perché il rosso è un colore vietato. Si crea così una condizione amorfa ed inusuale, e un’atmosfera irreale e sospesa (nel tempo come nello spazio) basata sull’ocra e sul verde, che crea una sensazione di ansia e di insoddisfazione che aiuta a entrare letteralmente nel quadro e che serve a riportare a galla in ogni momento la metafora: il villaggio come regno di una sottrazione. Lo stile è straordinario, ed è quello che ormai conosciamo: ancora i piani lunghissimi e fluidi, ancora la persistenza dello sguardo, ancora la cura maniacale del sonoro.

Impossibile, o comunque molto difficile, trattare e sviscerare i molteplici livelli di lettura di questo film senza rivelare quello che è il "solito" ribaltamento finale: onnipresente in Shyamalan, non è mai un ruffiano impatto, bensì è un trauma spettatoriale che serve per acuire il potere lancinante della sua metafora. Tanto di più in questo film, dove il messaggio ha anche una valenza politica: è infatti un’acuta e lucida riflessione sull’America contemporanea, che getta una luce ombrosa sul presente, e che nasconde la disperazione sotto utopiche speranze.

Si vede che lo sguardo del regista è esterno: ci parla della (ormai sua) America, ma da non-americano. La sua apparizione (riflesso in un vetro, nel finale) è emblematica di ciò, e rimescola decisamente le carte sulla visione politica della vicenda, ponendosi in una posizione "di mezzo", sconcertata e disillusa ma tutto sommato con un briciolo di speranza nelle nuove generazioni, ammorbidendo lo sguardo spietato sul villaggio, e spostando esplicitamente la critica sul presente.

Ma d’altra parte, è anche una storia d’amore complessa e romanticissima, di un’amore che per essere realizzato supera consciamente le proprie paure e sporca la propria innocenza, ma sa anche rompere i giuramenti, gli argini, i confini, per portare il caos (il rosso, che è irrazionalità, ma anche passione, ma anche sangue) all’interno di un idillio basato sull’ipocrisia. Certo deluderà chi si aspetta un horror: ma quando mai Shyamalan ne ha fatto uno?

Starsky & Hutch

di Todd Philips, 2004

Se questo film dimostra qualcosa, è che Ben Stiller e Owen Wilson, seppur entrambi bravissimi (soprattutto il secondo), non bastano a se stessi. Se non c’è dietro un impianto immaginativo coerente (anche demenziale, come quello di Zoolander), se non addirittura il genio di un Wes Anderson (vedasi alla voce Tenenbaum), il film cola a picco. Per queste ragioni non stento ad attribuire la colpa per la mala riuscita di questo film al regista, già responsabile dell’orrendo Road trip. Si fa spesso così, adattiamoci.

Starsky e Hutch è insomma un’occasione sprecata. D’accordo, la si butta sulla parodia e sulla demitizzazione, più che sulla malinconia cultural-televisiva; e sarebbe anche un bene. Ma poi alla fine puntare solo sullo charme di coppia ormai consolidato dei due attori, davvero stavolta non basta.

A parte qualche bel momento (come la scena della cocaina-zucchero, dove Stiller dà tutto se stesso, il filologico inseguimento finale, o l’incontro paradossale con Glaser e Soul), non ci si diverte nemmeno un granché: noiosetto e inessenziale.

[amore a seconda vista]

 

 

 

 

(tralasciamo ogni polemica sul titolo: si è già fatta…)

Eternal Sunshine of the Spotless Mind

(Se mi lasci ti cancello)


di Michel Gondry, 2004

"Joel, nascondimi nell’umiliazione!"

Il viaggio all’interno di un uomo, della sua mente addormentata. Joel è un uomo che cerca in tutti i modi di tenere vivo un ricordo. Il senso di colpa, la seconda occasione. Ma non solo. Alla visione unitaria del corpo (il corpo pieno, il cervello e il cuore) si sovrappone e si oppone una visione atomistica, se vogliamo informatica, per cui i ricordi sono particelle monadiche pronte ad essere rimosse.

Lo dico a scanso di equivoci: Eternal sunshine è un capolavoro. Il cult screenwriter Charlie Kaufman supera decisamente lo stupore neosurrealista di Essere John Malkovich e si innalza, raggiungendo una sorta di vetta poetica che non tocca solo il suo cinema ma anche l’intero cinema americano contemporaneo, imponendosi autorialmente per la ricerca estrema all’interno e all’esterno dei linguaggi che costituiscono il mezzo-cinema. Il suo è un cinema rischioso, ma pieno di coraggio e di vita, e che finalmente è maturo, liberato delle catene letterarie di Adaption.

I tempi narrativi: il mondo fuori dalla mente in "fase di candeggio" di Joel procede lineare, con i suoi traumi e le sue scoperte. Intanto, il mondo dentro la sua mente, dove si corre (letteralmente) a ritroso, con uno spirito random che spiazza (il complesso edipico/erotico infantile), mentre intorno (gli oggetti, gli individui, tocchi geniali come i titoli dei libri o le scritte) perde ogni sua forma e sparisce come risucchiato. L’azione del rimosso, "come una sbronza", colpisce l’individuo intaccando o cancellando i piccoli spunti. Ma sono proprio queste particelle di memoria, ricollegata al cuore da un filo preciso mai spezzato, a rendere tale un essere umano.

Basterebbe, per amare questo film, anche solo il lavoro che Michel Gondry fa sulle prolessi, distruggendo ogni statuto linguistico sul flashback, e ricreandone di nuovi, riuscendo a tradire le aspettative temporali del pubblico ma dandogli sempre precisi riferimenti che gli permettono di non perdersi tra le acque. I fiumi dell’infinita letizia sono perigliosi e ingrati solo in apparenza: sotto al delirio di superficie c’è una lucidità registica e narrativa che non ci si sarebbe aspettati da un regista di videoclip. E chiudendo il film senza deus ex machina, ma con ammirevole coerenza.

La condizione del corpo attoriale, poi: sgretolata. All’interno della mente di Joel "tutti sono lui", la Winslet è un fantasma, e molto di ciò a cui si assiste è una sorta di paradossale soliloquio. E più semplicemente, Gondry riesce in quello che già era riuscito a Jonze e Kaufman in Essere JM, ma lì solo per qualche istante: carpire in modo solido e visionario al tempo stesso "la natura stessa di cui sono fatti i sogni".

Questo film è stracolmo di spunti ed è di una complessità imbarazzante. Ma non vorrei strafare…

Ma non basta la ricerca kaufmaniana sui procedimenti narrativi (già presente in modo molto maturo nelle due collaborazioni con Jonze), e nemmeno quella gondryana sui canoni linguistici. Il motivo ultimo per cui questo film è un capolavoro, è che contiene ciò che nel Ladro di orchidee era tralasciato per eccesso di sceneggiatura, ciò che era solo tratteggiato, e calpestato dal simbolismo, in Essere John Malkovich: l’emozione.

L’esasperato romanticismo è così diretto, sincero e istintivo da essere inappellabilmente alternativo: al freddo e intellettualizzato rapporto di coppia post-alleniano così come alla carnale e (spesso) deficiente sessuofobia post-aids. L’amore in Eternal sunshine è invece inusuale, perché è accettazione, perché nasce dal dolore, dalla condivisione del male altrui, con una risata finale che è anche triste e malinconica, e con una lacrima che è anche liberatoria e piena di speranza, individuale e collettiva.

Lo ammetto: mi sono innamorato.

Io, robot (I, robot)

di Alex Proyas, 2004

Va detto: nonostante l’ispirazione letteraria dichiarata (nei credits) e quella spirituale mostrata (nel film: le 3 leggi della robotica, l’evoluzione e la rivoluzione), Asimov è molto lontano. Era più presente nell’uomo bicentenario di Columbus, che tuttavia era una porcheria.

Invece questo I, robot non è un film stupido (era la mia maggior paura), e ci si diverte parecchio. E se, come sembra davvero, questo era l’intento, non si può non promuovere il film, davvero godibile, con un sottofondo ironico che non annoia, nonostante Will Smith sia veramente troppo se stesso e le sue frasi ad effetto siano fuori dal tempo.

Senza menate melodrammatiche, senza sottotesti non richiesti. Ma, viste le premesse e i nomi coinvolti, senza entusiasmi. Proyas infatti sembra dimenticare molte delle sue doti: Il Corvo era un bel fumettone dark (a mio avviso sottovalutato) e Dark City uno dei film essenziali per capire l’istituto del dubbio sul reale nel cinema degli anni ’90: un mezzo capolavoro, iconograficamente inarrivabile e copiatissimo. Qui non c’è nè particolare fumettizzazione (e non si esce quasi mai dal territorio del puro cinema fantironicaction) nè cura iconografica (ricalcata da artifizi altri, postlanghiani, come quelli di Minority report).

In I, Robot, Proyas ha preferito la strada (lastricata d’oro) di una competente e lucida professionalità. Anche se qualche volta ne viene fuori: l’inizio anti-tecnologico (con il corpo nudo gonfio di Smith, la musica di Stevie Wonder e le il feticcio delle Converse All-Star), la scena in cui si scontrano in strada l’esercito di robot e gli umani (che sembra cascata lì per caso ma non stona affatto), e l’anarchia frastornante e vorticosa del finale, che fa persino perdonare al finale il suo essere così fracassone.

Provaci ancora, Sam (Play it again, Sam)

di Herbert Ross, 1972

Questo film di Woody Allen porta la regia di Ross. Ho forti dubbi che il già grandissimo comico americano avrebbe saputo gestire una forma complessa come questa, fatta di realtà e sogni, satira e cinema, visioni distorte della vita e fervide immaginazioni che prendono vita.

E forse è davvero un bene che si perda la vena caricaturale e naif dei suoi film di quegli anni (quella di Bananas e Sleeper…). La forma più stabile e professionale aiuta a godersi una tra le sceneggiature più geniali scritte da Allen, spiritosa e intelligente, acuta e romantica , e stracolma di amore per il cinema.

L’adattamento italiano è tra i più vergognosi, e foriero di celebri aneddoti: il protagonista infatti si chiama Allan, non Sam, che è invece il pianista di Casablanca. Quando gli editori ci prendevano per il culo. anche se ora lo fanno soprattutto i distributori [vedi i recenti casi di Zhang, Panahi, Kaurismaki...].

Il segno degli Hannan (Last embrace)

di Jonathan Demme, 1979

Uno dei primi film di Jonathan Demme dopo l’uscita dalla Corman factory (in cui aveva firmato due o tre operette deliranti che cercherò invano a vita) è semplicemente un omaggio ai canoni del cinema Hitchcockiano.

Questo Last embrace è infatti narrativamente (e in alcuni passaggi in modo sottolineato) una sorta di semi-remake di Vertigo (c’è persino la torre, e altro che non voglio rivelare); le musiche (bellissime) di Ròsza si rifanno ad Herrmann; c’è qualche tocco di North by northwest (l’uomo braccato, le cascate del Niagara come Rushmore); lo stesso stile nel tratteggio dei personaggi (lui ha superato un trauma, lei nasconde un segreto); c’è persino una citazione da Psyco (la doccia, ovviamente).

Tutto questo è interessante, ma il film com’è? Non c’è solo citazionismo: c’è un enorme talento nella costruzione della suspence (quello che sfrutterà al meglio nell’attualmente insuperato Silenzio degli Innocenti), nella direzione d’attori, e una capacità di utilizzare canoni già sperimentati, ma riuscendo a plasmarli e a riempirli di nuovo senso. Non c’è che dire, un gran bel film.

Il dvd della Alan Young Pictures è ottimo (tra gli extra una chicca mica da ridere). Il film è preceduto da un annuncio in cui la produzione si scusa se la colonna audio italiana fa schifo. Pazienza, tanto io l’ho visto in inglese. Però, che modello di umiltà. Imparate gente, imparate!

Gli invasati (The haunting)

di Robert Wise, 1963

Recuperato in biblioteca dopo qualche ricerca (in inglese senza sottotitoli: basta un po’ di attenzione, no?), spinto ulteriormente alla scelta da Final cut, il film di Robert Wise si è rivelato degno della sua enorme fama: uno splendido gotico americano, con ambientazioni e caratterizzazioni perfetta, una capacità raggiunta poche volte di raggelare senza l’ausilio di effetti speciali.

Basta una tecnica imprescindibile (con un’immobilità quasi teatrale rotta da improvvisi movimenti di macchina), i volti impauriti dei protagonisti (grandissime la Harris e la Bloom), i micidiali battiti sulla porta chiusa. E in più, una fotografia notturna e intelligente, e una dissertazione completa e affascinante sulla paranoia e sul senso di colpa (perfetto, e non è facile, l’uso della voce fuori campo).

L’incipit è da antologia della storia del cinema. Un vero gioiello. Non mi sorprende che Nicola Moroni lo ami tanto

Collateral

di Michael Mann, 2004

“Mi dispiace”

“Mi dispiace non ricompone i pezzi di Humpty Dumpty”.

Finalmente, ancora, Micheal Mann. Collateral non è un semplice thriller, non è un mero film d’azione: è un bellissimo, complesso, nerissimo ritratto della città di notte, e dei suoi abitanti. Dopo una partenza sinuosa, tra soul e Bach, arriva Vincent sulla vettura dell’ottimista tassista Max. E il mondo di Max crolla “come corpo morto cade”, interrompendo la “aria sulla quarta corda” e ingranando una marcia (rock) che non si fermerà più.

Già dai primi scambi tra Cruise e Foxx (il protagonista vero è comunque solo il secondo, nonostante lo charme di Tom Cruise), dove Vincent racconta la storia di un uomo morto in metropolitana ignorato da tutti, si comprende il tema portante del film: la città, metonimia del mondo, è il luogo dell’indifferenza e dell’individualismo.

Sarà compito di Max rompere questa convenzione, in cui è inserito suo malgrado e inconsapevolmente: la madre lo descrive infatti solitario e silenzioso, e un tassista non è che la quintessenza della solitudine urbana, con i suoi microrapporti incapaci di andare oltre quei finestrini che ti proteggono dal mondo vero. E Vincent, non a caso, è un appassionato di jazz, che, oltre che improvvisazione (come si dice nel film), è il genere solipsista per eccellenza..

Per quanto io continui a preferire la pellicola, Mann fa un uso sublime del digitale: d’altronde, il film è filmato tutto di notte, e la pellicola, ovviamente, non gli avrebbe permesso di lavorare con una tale libertà, e con qualche marchio di fabbrica (i piccoli zoom nervosi, le riprese appiccicate alle nuche dei personaggi) che mostra ancora una volta la sua indipendenza espressiva e la sua enorme personalità. In più, due protagonisti bravissimi (nonostante siano fuori ruolo o proprio per questo?), e un amore di colonna sonora: (bellissimo il pezzo dei Green Car Motel sui titoli di coda).

Non manca l’ironia e i momenti di quiete, ma con la senzazione viva di una quiete prima della tempesta. Sono queste forse le scene più belle del film, come quella buffa ma tesissima dell’ospedale (che si conclude in una fuga) e quella geniale del locale di jazz (che termina con uno sparo). E comunque il ritmo è sempre elevatissimo: Micheael Mann, oltre che grande autore americano, si riconferma (se ce ne fosse stato bisogno) un grandissimo regista d’azione: e lo dimostra l’ultima lunghissima sequenza, emozionantissima e senza un momento di respiro.

Forse Mann non è ai livelli sublimi di Manhunter (ancora il suo capolavoro?) ed è apparentemente meno ricercato di meraviglie come Alì o Insider (su Heat non mi pronuncio: mi manca), ma Collateral è davvero un bellissimo film. Francamente inattaccabile.

Interiors

di Woody Allen, 1978

Gruppo di famiglia in "interni (interiors), così perfetti e controllati, ma privi di una stanza per le emozioni", con una messa in scena che è davvero il cuore dei personaggi, intellettuali asciugati e rinchiusi nelle loro stesse ossessioni.

Scritto in modo rigoroso e perfetto, e girato con uno straordinario senso dell’assenza e del vuoto. Geometrico e teatrale, è tanto glaciale da risultare spesso insostenibile. Ma non si risparmia i brividi, come il primo incontro con Pearl, in cui i protagonisti si dimostrano già cadaveri di fronte a quella che è la vita vera (e l’America vera); e qualche colpo di genio: come la scena del matrimonio, autentico turning point in cui tutte le certezze collassano in un ballo jazz e in un vaso rotto.

Il primo film "bergmaniano" (e ibseniano) di Allen, un tantino ombelicale, non è il Woody che preferisco (quello di Amore e guerra, di Io e Annie, di Hannah e le sue sorelle). Ma se le sue ultime opere avessero anche solo la metà dello spessore di Interiors, non saremmo così disperati per la perdita di un genio. Forse non irrimediabile: Anything else ci ha dato una flebile speranza.

Hulk

di Ang Lee, 2003

Film, a mio avviso, sottovalutato. Uscito in sordina rispetto al rumore del film di Raimi, gli era persino superiore (ma inferiore al secondo capitolo…). I materiali su cui Ang Lee lavora sono infatti più interessanti, com’è più affascinante il personaggio stesso dell’omaccione verde, e l’interesse del regista taiwanese (che non posso che amare per lavori come La tigre e il dragone e Tempesta di ghiaccio) è quasi tutto catalizzato sul livello metaforico di un contrasto edipico inesauribile (il confronto finale tra il padre-fulmine-Saturno ed il figlio mette i brividi, ed è splendidamente esagerato).

Lo stile è intoccabile, proprio perché in perfetta simbiosi con il sistema in cui è prodotto. Ma la semplicità hollywoodiana è solo un’apparenza, il film (se osservato con attenzione) si distacca con forza dalla produzione blockbuster contemporanea. Lo dimostra il montaggio, assolutamente geniale: invece di un lavoro di adattamento del fumetto al linguaggio filmico, c’è un processo di implementazione del linguaggio dei comics sullo schermo. Lo split-screen viene usato per tutto il film (in modo protagonistico ma mai gratuito) e si trasforma in una vera e propria tavola di vignette.

Fahrenheit 9/11

di Michael Moore, 2004

Fahrenheit 9/11 è un film importantissimo, e ammirevole per la tenacia (non il coraggio) con cui è stato scritto e girato da Moore. La maggior parte delle cose che vengono dette sono sotto gli occhi di tutti, altre cose si possono sapere senza problemi ma nessuno ne parla, altre ancora (in piccolissima parte) sono mezze novità, almeno agli occhi di un europeo disinformato. Andrebbe visto da tutti, e in fretta, per avere anche questa visione del mondo in cui viviamo.

Ma. Ma il mio giudizio vuole (e DEVE) essere cinematografico, non civile. Dunque, daccapo.

Se l’ultima fatica (e che faticaccia) di Moore non funziona del tutto, o non come vorrebbe, ma soprattutto non come potrebbe, non è per la sua natura documentaristica. Sfalsiamo un mito: Fahreheit 9/11 è un film, ed è anche un documentario. Le due cose non si escludono a vicenda. Ora, è un buon documentario? Ed è un buon film? Le pecche spuntano come funghi da entrambi i lati.

La cosa che convince di meno è l’impressione di trovarsi di fronte a un prodotto senza una linea precisa, senza un’idea di fondo che non sia onnicomprensiva, che affastella (prima parte) fatti e opinioni incontrovertibili con una straordinaria furia iconoclasta, suscitando vergogna, indignazione e risate in modo perfetto.

Per poi buttarsi in una seconda parte assai legittima ma estremamente ricattatoria. E’ davvero l’unico modo di raccontare l’occupazione irakena, questa pornografia del dolore? Non ne sono sicuro, ma non credo proprio, sempre per il discorso sull’etica della rappresentazione. Insomma, inizia con la testa, vorrebbe svoltare sul cuore, ma finisce ahimé con lo stomaco.

Personalmente, preferisco la testa. Anche perché Moore ce l’ha eccome, la testa: lo dimostrano la non-visione audiofonica della strage delle Twin Towers, la colonna sonora, l’ironia, lo stile beffardo con cui si rivolge alle autorità. E la prima parte è ottima. Ma anche lì l’autore a mio avviso fa un piccolo errore: la premessa di Moore (l’illegittimità presidenziale di Bush, che non mettiamo certo qui in dubbio) è tirata via senza troppa attenzione, e con una confusione che porta a farla scomparire in fretta nel buio.

Riassumendo… Insomma, mi ripeto in modo pedissequo: andate a vederlo tutti. E’ una buona alternativa all’informazione mainstream. Ed è anche piuttosto divertente, e (se cedete a un piccolo ricatto) anche parecchio commovente. Se invece volete un giudizio da "giovane cinefilo", è un documentario realizzato con troppa furia e con poca cura, con un ritmo altalenante e con parecchie cadute di stile.

Spider-man 2

di Sam Raimi, 2004

C’è una montagna di ragioni per cui, a mio avviso, questo sequel supera il film precedente. Cercherò di essere breve, per quanto possibile. Sono solo opinioni, dopo tutto.

Prima di tutto, di vede ad ogni respiro, in ogni attimo del film, che quello che interessa a Raimi è il lato umano del supereroe. Ma questa è un’ovvietà, ed è un carattere insito nel fumetto stesso. Stupisce però positivamente il modo in cui il team di lavoro tiene fede a questa premessa, amplificando le insicurezze del primo capitolo, e mostrando un eroe scisso almeno quanto i suoi avversari, ricco di sfumature e di incertezze, aumentando la piacevole sensazione che si stia osservando un grande e spettacolare romanzo di formazione. Le sequenze d’azione, seppur perfette, sono meno presenti di quanto si possa immaginare, e destano più interesse quelle in cui viene fuori l’ottima sceneggiatura di Sargent, migliore di quella precedente di Koepp. E Tobey Maguire è nato per essere Peter Parker.

Secondo motivo, è la sequenza della metropolitana, e la sua conclusione. Il tema del sacrificio era già principale nel primo episodio (la necessaria manfrina su potere e responsabilità), e vista la ricorrenza biblica di questo tema (in un film assolutamente occidentale, come dev’essere), si ricorre a un’episodio evangelico (la deposizione del Cristo) per potenziare questo tema. E miracolosamente la suddetta scena della deposizione non è pacchiana né ridicola, ma è la più forte e commovente del film: quelle mani sul petto, quella delicatezza e riconoscenza negli sguardi. Da brividi.

La terza ragione ha un nome: Octopus. I cattivi dei fumetti sono personaggi difficili da portare sullo schermo (pensiamo ai disastri di Schumacher…), tanto più quelli dell’uomo-ragno. Raimi e compagnia-bella riescono a dare credibilità all’incredibile, non cercando la verosimiglianza (non sia mai!), ma quella psicologica, tratteggiando in modo davvero profondo (grazie anche al bravissimo, ma davvero bravissimo, Alfred Molina) e mostrando, ancora una volta, un uomo in preda ad un trasalimento tragico, vittima di un ybris scientifica.

Infine, Raimi. Qualcuno lo aveva accusato, ingiustamente, di aver abdicato la sua personalità creativa a favore del facile intrattenimento. Ora quelle voci potranno tacere? Basterebbe la scena dell’ospedale, in cui il suo giocoso background esce violentemente, e sembra di rivedere i suoi ormai preistorici esperimenti sul thrilling. Cosa bizzarra: un corto horror alla Raimi infilato in un film di Raimi. E ci sta un gran bene.

E chi crede che sia più consolatorio, più riconciliante del primo (forse solo per la commozione, e perché finalmente c’è spazio per un briciolo di felicità), ripensi bene alle sfumature del finale, allo sguardo attonito di Harry e a quello malinconico e rassegnato di Mary Jane. Eh sì, nel mondo sacrificale di questo splendido newyorkese in calzamaglia non c’è spazio per un vero happy ending. Solo una nuova apertura verso nuove responsabilità, nuovi conflitti (interni ed esterni), nuovi traumi che già stanno nascendo ed esploderanno (?) in un terzo episodio, si spera altrettando bello. Qui non si vede l’ora.

Spider-man

di Sam Raimi, 2002

Devo proprio rispettare le mie stesse volontà: un film visto, un post scritto. Rivisto in funzione del secondo (per schiarire la memoria). Confermo l’entusiasmo di due anni fa. Ma Raimi si è superato nel sequel… Tutto qui.

Secret window

di David Koepp, 2004

Si vede da lontano che Koepp è uno sceneggiatore: il film è costruito in funzione dei 10 secondi finali (uno sberleffo prevedibile). E su quello, sulla coesione, non perde un colpo. Koepp è un buon scrittore, e non diciamo il contrario: infatti il film inizia molto bene, come fosse un bel racconto. Poi, si comincia a desiderare che il film finisca in fretta.

Lo scioglimento dell’enigma è anticipato volutamente, certo, ma la cosa non giova. Anche perché il cinema contemporaneo è ormai strapieno di simili "sorprese", e quella di Secret window non è di certo tra le più riuscite, e funziona solo sulla carta. Anche perché il regista non ha un briciolo di misura o rigore nell’utilizzo degli effetti speciali, che "staccano" dalla pellicola in modo abbastanza pacchiano e fastidioso, e ridicolizzano il pre-finale.

Cosa resta? Turturro che parla con l’accento del Mississipi: spassosissimo. Depp: bravo, ovviamente. Una sceneggiatura ben congegnata e piena di indizi, e un lavoro interessante sugli specchi e i vetri. E il piano-sequenza iniziale, da capogiro. Tutto qui. Da King, su temi ed atmosfere simili, Reiner aveva fatto di meglio: tanto vale recuperare Misery e lasciare stare le finestre segrete.

The terminal

di Steven Spielberg, 2004

Dispiace un po’, a chi come me, non ha pregiudizi nei confronti dello zio Steven, e ama almeno la metà (se non di più) della sua filmografia, dire che Terminal è forse un film senza infamia e senza lode. Intendiamoci però: è proprio un bel film.

Impeccabile e riuscitissimo, impossibile da odiare e (quasi) da criticare: ma salta agli occhi che le premesse erano un po’ diverse. Lo spunto è davvero geniale: un uomo che si trova ad abitare il non-abitabile. A vivere insomma nel non-luogo per eccellenza, l’aereoporto (leggasi Marc Augé). Nel soggetto, di quel geniaccio di Niccol, era prevista forse un’immagine più critica dell’America e della sua politica sull’immigrazione, e più profondamente delle politiche interculturali nordamericane.

Il film invece si eleva a metafora solo in alcuni momenti, per lasciare spazio più che altro a un’elogio delle minoranze solidali e ad un’appiattimento notevole dei caratteri (soprattutto di Hanks e Tucci), anche se il personaggio della Zeta-Jones è interessante e complesso, e fa il paio con l’aereoporto JFK: mutevole e inesistente. La regia di Spielberg è, manco a dirlo, perfetta, anche se imbriglia più del solito il magnifico talento del fotografo Kaminski, lasciando l’espressione più ai volti e alle parola che alle luci, e pensando soprattutto a gestire quello spazio così limitato in modo eclettico, e per più di due ore: scommessa riuscita.

Insomma, anche se non è all’altezza di Prova a prendermi (quella sì, una meravigliosa metafora dell’america del novecento), il film scorre via come un buon bicchier d’acqua, lasciando solo allo spettatore la libertà di cogliere la profondità critica del progetto (come in quella malinconica frase finale nel taxi), ma rischiando che non esca affatto, e si assista a niente di più che una commedia sentimentale, anche se complessa e sfaccettata.

Un altro film ad episodi, un altro breve post dedicato (e l’unico film visto ieri).

Eros

di Wong Kar-Wai, Steven Soderbergh, Michelangelo Antonioni

Fuori concorso

Non ci voleva certo una conferma: Wong è un grandissimo regista, Doyle un grandissimo direttore della fotografia. E The hand è un affascinante, raffinato, bellissimo mediometraggio, capace di uscire dal semplice esercizio di stile e regalare grandissimi momenti di cinema, la scoperta del sesso e della morte, una magnifica ossessione amorosa, e uno sguardo finale pieno di dolore. Splen-di-do.

Equilibrium è una mezza sorpresa: l’episodio di Soderbergh, per non essere altro (dichiaratamente) che un cinefilo e tautologico divertissement sul sogno, è davvero spassoso: merito soprattutto di Arkin e Downey Jr, attori stupendi e troppo spesso dimenticati. Un piacevole relax dopo le grandi emozioni del capitolo hongkonghese, girata con rigore (chi se l’aspettava?) e fotografata con classe (dallo stesso regista).

L’episodio di Antonioni, The dangerous thread of things, è ridicolo, recitato da cani, scritto peggio (Tonino, Tonino…), con qualche notevole svolazzo del buon Marco Pontecorvo, ma nulla più. Senza timori reverenziali: seriamente imbarazzante.

Some gossip…

Ho conosciuto questa blogger e questa blogger. Ciao, ragazze.

Birth

di Jonathan Glazer, USA

Venezia 61 Concorso

Birth è un film che racconta una crisi altoborghese causata dall’avvento del soprannaturale e dell’inspiegabile. Raffinato, perché Glazer sceglie con intelligenza uno stile in qualche modo "autoriale", ovverosia lentissimo, catatonico, fatto di silenzi e spazi vuoti, concentrando l’attenzione sullo sguardo e sul corpo della Kidman, modellando le scelte su riferimenti a Rosemary’s baby e al cinema europeo. Problematico (e piaciuto davvero poco, forse solo a me e a Kezich) perché non si preoccupa per nulla della credibilità del plot o della costruzione dei personaggi, lasciati vagare un po’ insensatamente. La forma è comunque affascinante, e Nicole è straordinaria: quei minuti immobili sul suo volto che si muta in pianto sono impagabili, e bellissimo il finale marino, in cui la forma si sgretola come le certezza di una donna.

Nemmeno il destino

di Daniele Gaglianone, Italia

Giornate degli autori

Il film di Gaglianone ha due facce: la prima parte, con i tre (poi due) ragazzi, è davvero sorprendente, almeno per la posizione che questo piccolo film occupa nel panorama del cinema italiano: stile personalissimo, scelte registiche coraggiose, un montaggio libero e affascinante che pur modernissimo si distacca dallo stile videoclipparo molto in voga di recente. Ad un certo punto, il film cambia rotta, per esplicito volere del regista: e il film perde mordente, ritmo, interesse, per poi innalzarsi di nuovo nel bellissimo finale in bianco e nero, dolcissimo e pieno di speranza. Nonostante questo problema (non oggettivo), un bel film. Massimo merito degli attori non professionisti (tutti ragazzi simpaticissimi, posso dirlo senza false ipocrisie), tra cui spicca Fabrizio Nicastro: mostruosamente bravo nell’affrontare la difficoltà del suo personaggio e alcune "prove" affidategli da Gaglianone (come un doloroso monologo di fronte a un bicchiere).

Vital

di Tsukamoto Shinya, Giappone

Venezia Orizzonti

E’ incredibile la qualità dei film orientali presenti a Venezia (anche se non li ho visti tutti, sono troppi…). E non è una mia deformazione maniacale, questo fatto è sulla bocca di molti, se non di tutti. Ed è incredibile come sia cambiato lo stile di Tsukamoto dalle sue opere precedenti: se un più deciso apporto formare era già in A snake of june, ma con molti rimandi al suo cinema precedente (la mutazione, il bianco e nero), Vital comporta un un deciso cambio di rotta. Ed è un bene, perché Vital è il suo capolavoro: un film sul corpo, e sul suo rapporto con la mente e la memoria, con il cuore e il sentimento. Visivamente curatissimo ma molto eclettico, fotografato e montato in modo semplicemente geniale, con vette impensabili di poesia, e una malinconia diffusa e disperata. Che si scioglie però nel meraviglioso finale, un funerale e un ricordo: si gioca con il film di Kim Ki-Duk il premio per la "chiusa" più bella del Festival.

Some gossip…

Sarò telegrafico. Ho fatto una foto con Tsukamoto (ora mi mancherebbe Wong Kar-Wai…). Ho sbattuto letteralmente contro Raul Bova all’Excelsior (bell’uomo, barba incolta compresa). Nicole Kidman mi ha fatto ciao-con-la-manina (giuro giuro giuro). E ho fatto una mezza figuraccia con Guido Bagatta (ahah).

Nota

Mi scuso con tutti i fan di Amelio, ma non scrivo del suo film, perché ho dormito per almeno tre quarti d’ora nella seconda parte, svegliandomi sui titoli di coda. Non dipende da lui, il film era bello, ma ero stanco morto. Mi rifarò.

Ferro 3 (Bin-jip)

di Kim Ki-Duk

Venezia 61 Concorso

Ho visto solo 4 film in concorso, ma ho trovato il mio Leone d’oro. Sa essere allo stesso tempo una dolcissima storia d’amore fatta di silenzio e sguardi, un’opera sulla ricerca dell’identità e sulla sua assenza, uno sguardo sospeso e ipnotico sullo stupore del mondo, un film sul visibile e sull’invisibile, sulla parola e sul silenzio. E bellissimo, anche esteticamente, con una fotografia splendida fatta di toni blu e bianchi. Una geniale soggettiva di un occhio dipinto, e un finale incredibile. Probabilmente il miglior film a Venezia quest’anno.

Izo

di Takashi Miike, Giappone

Venezia Orizzonti

Izo è una vera e propria esperienza, più fisica che visiva. Ci vuole pazienza, e stomaco. Ma quello che ne viene fuori, il discorso sull’irrazionalità umana, sulla guerra, è davvero straordinario. Il tutto inserito in una storia che mescola tradizione samurai (con rimandi a Kurosawa), cinema sperimentale (i filmati di repertorio a far da contrappunto) e soprattutto la mitografia nipponica (il rancore, i demoni). A tratti un po’ faticoso, e insostenibilmente violento: ma portatore di una visionarietà geniale, davvero unica e importante nel cinema mondiale.

Palindromes

di Todd Solondz, USA

Venezia 61 Concorso

Sinceramente mi aspettavo di più, da un autore come Solondz: Palindromi non è Happiness, il discorso è più diretto, la provocazione forzata e ricercata. Ma il cinismo coglie nel segno (e diverte) molto spesso, e il regista si conferma uno dei pochi cantori degli orrori americani, uno dei pochi ad avere il coraggio di sparare a zero su tutto e tutti, abortisti e antiabortisti, senza preoccuparsi del buon gusto (che non c’è), con insolito amore per gli inetti e i reietti della società. La Barkin era uno dei miei idoli sexy da giovanissimo: ieri sera l’ho vista, un po’ invecchiata, ma sempre bellissima.

Famiglia Rodante

di Pablo Trapero, Argentina

Venezia orizzonti

Poche parole: un film piccolo piccolo, divertente anche se un po’ scontato. Il bello di Trapero è che sa cogliere piccoli dettagli, regala perle sorridenti di cinema on the road. Affastella le sue storie corali, voci che si sovrappongono sotto l’effetto di una sceneggiatura-canovaccio: niente male.

Some gossip…

Mi sono fatto fare una foto con Takashi Miike e una con Kim Ki-Duk. Emotional.

Meno boria, kekkoz, meno boria.

Mare dentro (Mar adentro)

di Alejandro Amenabar, Spagna

Venezia 61 Concorso

Io adoro Amenabar, e forse solo per quello (o per il sonno dell’altra sera) quest’ultimo film è una sonora delusione. D’accordo, è impeccabile, girato benissimo, ma di un’ordinarietà (e un pelo di ruffianeria) che mi ha irritato e annoiato, come un prodotto confezionato apposta per ricevere premi a frotte. Bardem non mi convince, niente da fare (e dal vivo sembra un animale). Le vette sono davvero poche, come i voli immaginari di Ramon, o la sua camminata sognata (ma a quel punto si richiama l’ultimo Bellocchio…), o un bellissimo flashback all’inizio. Se si fa finta che non sia un brutto segno per quel geniaccio di un faccia-da-topo, è un bel film: ma tutte quegli applausi (un quarto d’ora) e le lacrime di tutto il pubblico e le critiche entusiaste sono a mio avviso un po’ esagerate.

Vanity fair

di Mira nair, USA

Venezia 61 Concorso

L’adattamento della bravissima (almeno tecnicamente) Nair dell’opera di Thackeray inizia molto bene, ritmata commedia in costume, e finisce in modo solare e piacevolissimo. In mezzo, almeno un’ora di mortorio, che segue pedantemente le regole del genere e fa davvero fatica ad interessare. Troppo lungo, in ogni caso, dura non assopirsi. La Witherspoon, per essere del Tennessee, sfoggia un talento posh non da poco.

Un mundo menos peor

di Alejandro Agresti, Argentina

Venezia Orizzonti

Sono rimasto fuori, causa code chilometriche, dal film di Miyazaki (porca vacca) e ho ripiegato su Agresti, imbestialito, e senza aspettative. E invece ho trovato un’opera delicata, sincera, interpretata con garbo e talento, scritta molto bene, divertente, e infine abbastanza commovente da meritare un’applauso e una stretta di mano ad Agresti (molto commosso) e alla bravissima Monica Galan. Oh. La sezione orizzonti, insieme ovviamente alle Giornate degli Autori!, fanno parzialmente dimenticare i tanti problemi (orari, entrate, accrediti) di quest’edizione.

Some gossip…

Segnalo solo quattro chiacchiere con il mio talentuoso compaesano Stefano Cassetti (qui da noi alle Giornate per Il giorno del falco, che ho perso) e un passaggio in macchina (quasi sul mio piede) di Pacino e Irons. Il buon Johnny Depp (un cencio pallido) solo da molto lontano. Julie Depardieu è partita da poco, e ora qui da noi c’è ospite la bravissima e simpaticissima Lili Taylor: vado a pasteggiare. Che faticaccia, eh?