Stati Uniti

Drive, Nicolas Winding Refn 2011

Drive
di Nicolas Winding Refn, 2011

Quello che dobbiamo sapere sul protagonista senza nome del suo film, intepretato da Ryan Gosling in quella che è la definitiva consacrazione del suo inestimabile talento, Refn ce lo racconta in pochi minuti nell’incredibile incipit di Drive: un autista silenzioso, preciso, flemmatico, che si divide tra un’officina, lo stunt driving e le rapine per cui si offre come mercenario. Ma come spesso accade al cinema, l’incontro con una donna cambia le regole del gioco. Senza troppi giri di parole, Drive è uno straordinario, piccolo capolavoro che raccoglie l’eredità del crime movie riducendola all’osso, tra una messa in scena rigorosa ed eccellente la cui imperturbabilità si crepa man mano insieme a quella del suo personaggio e che accoglie suggestioni visive che sembrano provenire da David Lynch come da Michael Mann, e una variazione sul tema dell’onore e una caratterizzazione del personaggio che arrivano dritte dal western oppure, perché no, da un chanbara eiga. Ma la cosa più stupefacente di Drive è la sua incapacità di fermarsi alla realizzazione di un film compiuto a partire da materiali messi in mano da una produzione preesistente: Refn al contrario prende lo script di Hossein Amini e lo gonfia di una qualità percettibilmente metafisica; e lo fa cercando sempre di infondere nelle sequenze, che siano affettati dialoghi o inseguimenti in macchina, ma anche nelle singole inquadrature del film, un costante senso di disperata inevitabilità, che si accompagna alla precisione millimetrica e a volte persino frastornante con cui sono realizzate. Ne risulta un film affascinante e perturbante, che entra nel cuore dello spettatore come un trapano, e senza nemmeno bisogno di far passare il genere dai filtri cerebrali del cinema d’autore: Drive è per sua scelta un film molto lontano dal cinema di intrattenimento americano, ma è anche una parabola eroica immediata e perfetta, una storia d’amore vorticosa e dolcemente affranta, un gangster movie che fa attraversare un autentico senso morale in mezzo agli schizzi di sangue, un film la cui anima è racchiusa in modo infallibile dalla sequenza dell’ascensore – uno degli esempi di pura messa in scena più impressionanti del cinema di questo decennio. Il cerchio di quest’opera così atipica e inusuale, così poderosa e strepitosa ma in qualche modo così intima e onesta, la cui originalità vive anche senz’altro nel contrasto tra l’esperienza europea del regista danese e il tuffo di quest’ultimo nel bel mezzo della tradizione di genere statunitense, è chiuso dalla colonna sonora, pazzesca e instantaneamente persistente, che fa un uso geniale del tappeto sonoro di Cliff Martinez abbinandogli un pugno di canzoni perlopiù semi-sconosciute utilizzandole con una forza espressiva impareggiabile e persino esasperata, sia quando è in tema (“A Real Hero” dei College) che quando è in totale contrasto (“Oh My Love” di Riz Ortolani), sia quando, infine, trova una misteriosa formula magica che unisce in modo necessario le immagini alle note – come nel caso degli indimenticabili titoli di testa su “Nightcall” di Kavisnky. Peccato che Drive sia anche un film facile da fraintendere e, allo stesso modo e ancora di più, un film facile da svendere per ciò che non è: la fortuna è che siamo già in tanti, a esserci innamorati di lui. E saremo sempre di più.

Jane Eyre, Cary Joji Fukunaga 2011

Jane Eyre
di Cary Joji Fukunaga, 2011

L’ennesimo adattamento (una trentina dai tempi del muto a oggi) del più celebre libro di Charlotte Brontë esaurisce di fatto quasi tutti i suoi sforzi inventivi nella prima metà: da principio con un’intelligente struttura a flashback che punta a reinventare la narrazione del testo originale; inoltre, con una regia (e un montaggio) che tendono a enfatizzare palesemente i caratteri più gotici e dark del racconto, avvicinando a volte Jane Eyre a un horror (burtoniano?) più che a un dramma romantico in costume. Da un certo punto in poi però il film, avviato con sicurezza da Fukunaga, va avanti da solo, tra uno spiccato paesaggismo (a dire il vero per nulla disprezzabile: sarà una banalità ma la fotografia di Adriano Goldman è la cosa migliore del film, per come riesce anche a dialogare con i sentimenti dei suoi personaggi) e un racconto che si dipana senza troppi scossoni verso l’inevitabile conclusione – seppure tronca rispetto al libro. Gran parte della forza espressiva del film è in verità buttata sui moltissimi e insistiti primi e primissimi piani, naturalmente fotogenici, di Mia Wasikowska: la sua è una Jane Eyre di straordinario e immediato impatto, capace di esprimere con una recitazione misurata la lotta interiore tra la passione e l’indole più indipendente del suo personaggio. Di fronte a lei il resto del cast, Michael Fassbender incluso, passa inevitabilmente in secondo piano.

Nelle sale dal 7 ottobre 2011

Killer Joe, William Friedkin 2011

Killer Joe
di William Friedkin, 2011

Un giovane spiantato e pieno di debiti decide, con la complicità del padre e della sorella, di uccidere la madre per incassare l’assicurazione. Per farlo assolda il poliziotto corrotto Joe Cooper, ma come da copione sottovaluta la posta in gioco. Nel suo ultimo film, il regista di classici come Vivere e morire a Los Angeles e Il braccio violento della legge, oggi 76enne, appare in forma come non era da tempo: il suo è un un gioco al massacro squisitamente amorale, una tragedia americana traboccante di ironia e di disperazione in cui personaggi tanto decadenti e sgradevoli quanto i luoghi che abitano (il film è ambientato alla periferia di Dallas, ma è stato girato a New Orleans) cercano di sopravvivere alla propria banalità lasciandosi alle spalle ogni barlume di umanità. Incappando in un killer senza rimorsi, in cui convivono tratti quasi cartooneschi e una diabolicità metafisica, che funge da catalizzatore – e infine da contrappasso – della loro stupidità. E qui sta l’autentica sorpresa del film, ovvero Matthew McConaughey: uno degli attori più derisi del cinema americano dà vita a un personaggio indimenticabile con un’interpretazione monumentale; il resto del cast sta al gioco: e per Gina Gershon e Juno Temple, entrambe perfette, non è una sfida da poco. Girato con una precisione e un gusto compositivo impareggiabile, Killer Joe è un sorprendente crime-gone-awry che si inserisce nel percorso coeniano aggiornandolo con una dose massiccia di cinismo, e con un umorismo spietato che nella parte finale sfiora (e gioca con) i confini del rappresentabile. Decisamente non per tutti; ma per chi decide di starci, è uno dei film più belli e incredibili dell’anno.

Il film ha vinto il Mouse d’Oro, il premio della critica online alla Mostra del Cinema.

Al momento non è prevista una data d’uscita italiana.

Red State, Kevin Smith 2011

Red State
di Kevin Smith, 2011

Red State non sembra aver molto in comune con la precedente filmografia di Kevin Smith: messa ancora una volta da parte la sboccacciata commedia generazionale dopo Cop Out, in cui aveva cercato di rinverdire i fasti del buddy cop film con armi da cinema mainstream fallendo miseramente, Smith prende una direzione radicalmente opposta – si autoproduce e “autodistribuisce” (sulla polemica di Smith contro il sistema delle major bisognerebbe scrivere un post a parte) per girare un violento e agguerrito piccolo film dalle venature horror che si configura più che altro come un attacco esplicito, prima all’integralismo religioso di matrice cristiana (e repubblicana), poi in modo più diretto e spietato agli Stati Uniti del Patriot Act. In verità la satira di Smith, più grottesca che raffinata, non è particolarmente ficcante (anche perché non ha il coraggio di spingersi fino all’empatia con i suoi personaggi più sgradevoli, limitandosi a osservarli dall’esterno)  ma la sua sfrontatezza non può lasciare indifferenti. In ogni caso il lato migliore di Red State non è tanto quello politico quanto quello di genere: Smith si diverte come un matto, spiazza e tira schiaffi in faccia allo spettatore e, libero da molte delle convenzioni che lo avevano allontanato da molti suoi fan della prima ora, torna a fare quantomeno un cinema “tutto suo”. Tirando fuori di fatto, al di là della riuscita del film in sé, una delle sue migliori prove come regista: basta guardare le concitate e tesissime scene d’azione per rendersene conto. Peccato che il film duri così poco (circa un’ora e venti) e che Smith non abbia quindi il tempo di esprimere al 100% queste potenzialità; ma forse è meglio così: ci sarebbe stato anche il tempo per mandare tutto a monte.

Non è ancora prevista un’uscita italiana.

Win Win, Thomas McCarthy 2011

Win Win
di Thomas McCarthy, 2011

Un avvocato del New Jersey, che nel tempo libero allena la squadra di wrestling della scuola, crede di trovare una possibilità di respiro dalla crisi (economica, e non solo) che lo attanaglia in un anziano abbandonato dalla famiglia, la cui custodia è nelle mani del tribunale; ma la comparsa del giovane nipote di questi, silenzioso, spiantato e con uno spiccato talento per il ring, lo costringerà a rivedere il suo piano, e forse tutta la sua scala di valori. Il terzo film di McCarthy, non a caso presentato al Sundance, sembra inserirsi in un filone ben preciso della “dramedy” indipendente americana – storie di provincia, personaggi marginali e antieroici, pezzo indie rock favoloso sui titoli di coda (The National, in questo caso) – ma quantomeno evita gran parte dei cliché del film “sportivo” concentrandosi perlopiù sul rapporto tra i due protagonisti: e Giamatti, come al solito eccellente, riesce a infondere nel suo personaggio la fragilità e la paura di una bugia scappata dalle mani, e la scoperta della voglia di fare qualcosa per tornare a essere umani. Il risultato è un film gradevolissimo che schiva il patetismo con grande abilità e che grazie a un ottimo cast (giusto Bobby Cannavale è un po’ fuori posto) riesce a imporre con leggerezza e stile una storia quotidiana ma irresistibile di riscatto da sé stessi. Edificante? Perché no.

Il film uscirà in italia a dicembre con il titolo Mosse Vincenti.

Super 8, J.J. Abrams 2011

Super 8
di J.J. Abrams, 2011

“Bad things happen, but you can still live”

Una volta assicurato lo spettacolo, perché J.J. Abrams ha già dimostrato con i suoi film precedenti di saper essere un regista ben più che capace e non solo un abile e scaltro produttore, un film come Super 8 poteva al massimo correre il rischio di risultare una fredda operazione commerciale a mero appannaggio di un target di riferimento. Dopotutto, si tratta di una dichiarata operazione-nostalgia, in cui si mette in scena una riproposizione di un modo di fare cinema hollywoodiano per ragazzi-senza-età reso immortale soprattutto (ma non solo) dalle produzioni di Spielberg e della Amblin (il logo in apertura regala il primo di una lunga serie di brividi) in modo quasi filologico, a partire dagli snodi narrativi fino ai singoli movimenti di macchina – facendo inoltre rientrare questa passione vorticosa e quasi ossessiva per il cinema nel racconto stesso, con i ragazzini del film alle prese con un film di zombi girato, appunto, in super 8, e con le camerette (siamo nel 1979) piene di poster di Romero, Carpenter e Star Wars.

Ma per nostra grande fortuna Super 8 è un film che non si limita a ripetere meccanicamente la lezione dei grossi nomi del passato a cui fa abilmente riferimento né a giocare con la vacua consapevolezza che spesso caratterizza il meta-cinema, e se il suo tributo a film come I Goonies, E.T., Explorers, eccetera è anche la dimostrazione della loro inflessibile attualità, il valore aggiunto di Super 8 è il suo essere un film che butta il cuore al di là della palizzata, proprio come facevano i suoi predecessori, un film che sfida il cinismo degli spettatori contemporanei con la fluidità del racconto e con l’ingenuità della meraviglia: ed ecco la dote inedita di Abrams, questo senso dell’incanto che lascia stupefatti, eccitati – e se si trattava di un passaggio di testimone tra Spielberg e il regista di Star Trek, possiamo dire che è andato a buon fine. Per chi è cresciuto guardando storie di ragazzini che diventavano grandi sfidando il proprio coraggio, Super 8 è un film che fa quasi scoppiare il cuore; per tutti gli altri è “semplicemente” un bellissimo film da non perdere.

Impossibile non citare, all’interno di un cast perfetto (inclusi tutti i ragazzini), l’intensa performance della spaventosa tredicenne Elle Fanning: la scena in cui guarda insieme a Joe i filmati della madre è davvero commovente, ma quella in cui prova la sua parte di fronte agli sguardi attoniti dei suoi coetanei è da applausi a scena aperta.

Le amiche della sposa (Bridesmaids), Paul Feig 2011

Le amiche della sposa (Bridesmaids)
di Paul Feig, 2011

“It’s called civil rights. This is the nineties.”

Per chi conosce il cinema di Judd Apatow, un film come Bridesmaids (da lui prodotto, ma diretto dall’ex sodale Feig, creatore della sublime serie tv Freaks & Geeks) non dovrebbe suonare particolarmente inaspettato: non si tratta ovviamente di una commedia demenziale, ma più propriamente di una commedia romantica che, nell’abbinare uno sviluppo romance tradizionale (da Wiig-Hamm a Wiig-O’Dowd) a quello del triangolo (asessuale) Wiig-Rudolph-Byrne, si prefigge lo scopo di declinare al femminile una serie di meccanismi che Apatow ha sviluppato e contribuito a diffondere nella commedia americana, con risultati a volte esaltanti, spesso deludenti.

Ma senza scavare tra le intenzioni, visibilmente ottime, del film e della sceneggiatura firmata dall’adorabile Kristen Wiig insieme ad Annie Mumolo, Bridesmaids dichiara già dalla superficie questa continuità – e non è certo una considerazione positiva: il film è lunghissimo e interminabile come già furono Knocked Up e Funny People, come questi nasconde (maluccio) la sua natura conservatrice tra le gag triviali e scatologiche, sbilanciato tra un’ambizione quasi da dramedy e la necessità (commerciale?) di costruirci attorno dei crescendo comici, ed è purtroppo caratterizzato da un’anemia registica e produttiva che abbandona quasi sempre le attrici a sé stesse, a briglia sciolta, e che non riesce quasi a sfruttare i suoi elementi migliori (insisto, il cast) affogandosi in un’assenza di mordente talmente estenuante da rendere quasi inspiegabile l’enorme successo che ha avuto presso il pubblico americano.

Peccato, perché il soggetto meritava più attenzione e cura: Annie è un personaggio autenticamente disturbato, inquieto e “sgradevole”, i dialoghi divertenti non mancano, e la Wiig possiede una ricchezza e una profondità espressiva innegabili, ma se sulla carta il film sembra giocare bene con il ribaltamento del “chick flick” e sulla rappresentazione dei personaggi femminili nella commedia, alla fine dei conti si riconduce quasi tutto a semplificazioni e cliché (per esempio la madre frustrata vs la neo-moglie entusiasta, due personaggi destinati peraltro a dire quattro battute e sparire quasi del tutto dal quadro per lasciare Melissa McCarthy a tutto campo: nel caso della meravigliosa Wendi McLendon-Covey si tratta di uno spreco bello e buono), non si riesce quasi mai a graffiare a causa della suddetta carenza di una guida forte, i personaggi minori (la madre di Annie, i fratelli britannici) sono dei meri riempitivi, ci si imbarazza molto e si ride poco, spesso colpendo basso, e in definitiva si torna sempre là, a una rigida ricetta per la felicità che non ha davvero nulla di originale, tantomeno di rivoluzionario.

Bad Teacher, Jake Kasdan 2011

Bad Teacher
di Jake Kasdan, 2011

“I’ll tell you what I know. A kid who wears the same gymnastic sweatshirt 3 days a week, isn’t getting laid until he’s 29. That’s what I know.”
“Sweatshirt was my dad’s. It’s all he left me, when he left me.”
“There’s a reason he didn’t pack it. Just saying.”

Ci sono molte eccezioni, ma molte delle commedie americane il cui protagonista è sgradevole o “cattivo” contemplano una sorta di percorso redentivo che porta il personaggio a una rivalutazione dei propri ideali o del proprio stile di vita. Uno dei punti di forza di Bad Teacher è proprio l’inflessibilità della scorrettezza di Elizabeth: professoressa per caso, spavalda e parolacciara, è costretta a insegnare nonostante il disprezzo per la scuola dopo che il suo piano di farsi mantenere da un uomo ricco è andato a farsi benedire. Semmai è il pubblico che è portato ad avvicinarsi sempre più al suo punto di vista cinico sul mondo, rigettando le ipocrisie borghesi dietro alle quali si celano contraddizioni, nevrosi e follie di fronte alle quali l’atteggiamento spudorato e diretto di Elizabeth è un’autentica boccata d’aria. Allo stesso modo il film di Kasdan, che torna alla regia dopo l’eccezionale Walk Hard dimostrando ancora una volta di saper maneggiare la trivialità con classe, è una commedia volgare e liberatoria, che azzecca gag e dialoghi con irresistibile dimestichezza, ma che riesce a trovare persino una sua morale peculiare e del tutto coerente. Il tutto, va detto, funziona anche e soprattutto grazie al formidabile cast: prima di tutto Cameron Diaz che torna in gran forma (in tutti i sensi) come non era da anni, Jason Segel azzecca una performance quasi casuale ma stranamente autentica, Phyllis Smith (che viene da The Office come i due sceneggiatori) è una macchietta ma è innegabilmente uno spasso, Timberlake è impagabile; ma la migliore del gruppo è Lucy Punch nel ruolo della professoressa perfettina che dichiara guerra a Elizabeth: come al solito, bravissima.

Nei cinema dal 31 agosto 2011

(image via)

Tucker & Dale vs Evil, Eli Craig 2010

Tucker & Dale vs Evil
di Eli Craig, 2010

Si parte come un tipico film horror adolescenziale: un gruppo di studenti del college abbandona la città per campeggiare e in una stazione di servizio incontra due “hillbilly” che in un altro film sarebbero probabilmente due pericolosi assassini. A quel punto c’è la svolta che definisce l’intero film: i due protagonisti sono proprio loro, e i “campagnoli” sono ingenui ma buoni come il pane e sono intenti a passare un periodo di tranquilla villeggiatura nella loro cascina – ma i ragazzi equivocheranno ogni loro mossa (in buona o cattiva fede) finendo per trasformare la vacanza in una carneficina. La cosa più interessante di Tucker & Dale vs Evil è che sembra ambientato in un mondo in cui esiste una sorta di consapevolezza interna dei cliché del cinema horror ma che questa coscienza non sembra aver alcun risultato positivo: nonostante alcuni (pochi) personaggi cerchino in tutti i modi di comportarsi in modo ragionevole (come si comporterebbe “uno spettatore”, per intenderci), la severa violenza del caso ha quasi sempre la maggiore. Ma se gli stessi cliché vengono puntualmente ribaltati, non vengono mai derisi: Craig ne conosce il potenziale e lo sfrutta a dovere, pur mantenendo un distacco ironico che passa con agilità dall’arguzia alla farsa. Il risultato è un horcom davvero divertentissimo: forse perde un po’ di mordente quando, verso la fine, si prende un po’ troppo sul serio, ma per gran parte del tempo non sbaglia un colpo. Tyler Labine e Alan Tudyk (entrambi volti ben noti agli appassionati di serie tv) sono gustosi, anche se le attenzioni vanno più spesso in direzione di Katrina Bowden (Cerie di 30 Rock) che va in giro per metà film conciata così.

Il film, presentato al Sundance 2010 e vincitore dell’Audience Award al SXSW 2010, non è mai uscito in Italia. L’edizione britannica in dvd e blu-ray esce il 26 settembre.

Cedar Rapids, Miguel Arteta 2011

Benvenuti a Cedar Rapids (Cedar Rapids)
di Miguel Arteta, 2011

L’aspetto più interessante di Cedar Rapids è che non cerca in tutti i modi di sfuggire dai cliché ma cerca di trarre proprio da essi il massimo beneficio, dal Candide di Ed Helms fino alla prostituta dal cuore d’oro di Alia Shawkat. Ma pur accogliendo dentro il racconto modelli psicologici e narrativi ben definiti e riconoscibili, Arteta riesce a restituire un piccolo affresco di irresistibile umanità davvero riuscito, lavorando proprio sul contrasto tra lo squallore della convention annuale degli assicuratori e l’ingenua meraviglia con cui il protagonista osserva l’evento e diventa adulto, giocando sui pedali dei toni tra tenerezza e volgarità e azzeccando tutti i tempi – compreso il ridotto minutaggio. Una sorta di buffo e divertente romanzo di iniziazione tardiva che si fa notare, come si poteva prevedere, soprattutto per le prestazioni del cast: ovviamente Ed Helms e John C. Reilly (perfetto il primo, forse un po’ troppo sopra le righe il secondo, ma non stona) ma anche Isiah Whitlock Jr. nei panni di un quieto ed educato assicuratore con una viscerale passione per The Wire e soprattutto una formidabile Anne Heche per la quale è consentito perdere la testa. La già citata Shawkat, già vista in Whip it, è una di quelle attrici a cui bastano un sorriso e quattro parole per riempire lo schermo e buttare fuori tutti gli altri: un vero talento (pressoché inutilizzato) della commedia americana, con un grosso futuro davanti a sé.

Meek’s cutoff, Kelly Reichardt 2010

Meek’s cutoff
di Kelly Reichardt, 2010

Presentato in Concorso a Venezia lo scorso anno, il film di Kelly Reichardt, ambientato a metà del diciannovesimo secolo, è davvero uno dei western più inusuali che si possano immaginare all’interno del cinema americano che negli ultimi anni (o decenni) ha saputo affrontare i canoni del genere quasi soltanto nella forma della rivisitazione o della contaminazione. La presa di posizione della Reichardt è evidente fin dalla scelta del quadro: la aspect ratio (4:3) è un elemento solo apparentemente casuale, che le permette in realtà di reinventare la composizione dei corpi nello spazio, di fare in qualche modo riferimento a un cinema originario e spoglio proprio come il luogo in cui è ambientato, ma anche di rinchiudere i personaggi all’interno di confini serrati e angoscianti, stringendo il deserto in una scatola e togliendo all’orizzonte dei panorami americani la loro infinita profondità. Allo stesso modo, Meek’s cutoff procede su un crescendo anticlimatico in cui al fascino del viaggio si sostituisce l’immutabilità spietata dell’ambiente: anche in questo caso una lunghissima dissolvenza incrociata all’inizio del film è una dichiarazione d’intenti sul resto della pellicola, facendo incontrare da una parte all’altra dell’ellissi due panorami pressoché identici. Il viaggio verso il West e il mito della frontiere vengono così privati della loro stabilità iconografica, spalancando il cuore dei protagonisti su una voragine di paure ataviche, di fronte alle quali si proporrà inevitabilmente un duello morale, tutto racchiuso negli sguardi tra Emily Tetherow e l’indiano. L’assenza di un vero contesto narrativo in capo al film e quella (necessaria) di una vera e propria conclusione danno l’impressione di un esperimento che si avvicina al teatro dell’assurdo, ma pur portando a termine una visita del tutto personale all’altare del western, la Reichardt si riallaccia comunque alla tradizione raccontando non soltanto la paura dell’elemento alieno ma anche quella della propria alienazione rispetto alla natura; i coloni guidati da Meek, poi, mostrano un misto di timore, arroganza, fiducia, violenza e coraggio che appare come una sorta di DNA di una nazione ancora tutta da inventare. Popolato di volti perfetti come quelli di Michelle Williams e Paul Dano (una nota anche per la promettente Zoe Kazan), Meek’s Cutoff è un bellissimo film, tanto impegnativo e ambizioso (quasi impossibile da vendere al pubblico odierno?) quanto visivamente ipnotico ed estremamente suggestivo.

Il film dovrebbe essere nel listino della Archibald Enterprise Film, ma non mi risulta ci sia una data italiana. Intanto, il film è già disponibile in edizione UK, solo in dvd. L’edizione americana, anche in Blu-Ray, uscirà a metà settembre, e a quanto pare è “all regions”.

Hanna, Joe Wright 2011

Hanna
di Joe Wright, 2011

Dopo Espiazione, Joe Wright si è fatto la fama di uno a cui piace sfoggiare la sua tecnica (nessuno scorda l’interminabile carrello sulla spiaggia di Dunkirk) e anche in Hanna non se lo fa certo dire due volte. Non c’è nulla di così sfacciato, ma il piano-sequenza alla stazione (che si conclude con un combattimento) e tutte le fughe della protagonista (come la prima nei sotterranei e, soprattutto, quella tra i container) sono senza dubbio dei gran pezzi di bravura che contribuiscono a impreziosire il film e a controbilanciare in qualche modo le sue debolezze. Hanna non è infatti tutto appassionante come i suoi momenti migliori (oltre ai già citati inseguimenti, c’è un incipit davvero fulminante), è più interessante nei suoi singoli elementi che nello sviluppo narrativo, conosce qualche momento di stanca e qualche personaggio fuori tiro (l’adolescente logorroica di Jessica Barden, il personaggio di Martin Wuttke) e verso la fine Wright, cede alla tentazione di parlare e di spiegare un po’ troppo. Ma al di là della confezione eccellente (ottima la fotografia di Alwin Kuchler) le sue virtù superano di gran lunga i suoi problemi – e in cima tra tutte ci sono la strabiliante Marissa Weigler di Cate Blanchett (Tom Hollander, che si sforza un po’ troppo per tirare fuori un tipico villain da cult movie, rimane nella sua ombra) e la colonna sonora dei Chemical Brothers, uno score capace di diventare, soprattutto nelle sequenze più concitate, molto più di un mero accompagnamento alle immagini. Infine, tra le altre cose, la conferma della bravura e del talento di Saoirse Ronan: sembra sempre nata per quel ruolo, qualunque ruolo interpreti.

Super, James Gunn 2010

Super
di James Gunn, 2010

Abbiamo visto Defendor, c’è stato il Kick-Ass di Matthew Vaughn e Mark Millar, senza dimenticare Special con Michael Rapaport: quanti film con premesse così simili possono uscire nel giro di pochi anni prima che l’argomento sia da considerarsi esaminato sotto ogni prospettiva? L’ultimo film di James Gunn, simpatico e un po’ folle regista di uno cult movie come Slither, dimostra che dove c’è talento e visione non c’è saturazione che tenga.

La trama di Super è apparentemente risaputa: Frank, interpretato da un allucinato e perfetto Rainn Wilson, ha subito angherie e derisioni per tutta la vita, ultima delle quali l’abbandono da parte della moglie tossicodipendente Liv Tyler a favore del violento spacciatore Kevin Bacon. Da lì alla decisione di indossare un costume da super-eroe passa poco: giusto il tempo dell’ennesima visione mistica della sua vita. La differenza con gli altri film di questa sorta di sotto-genere sta tutta lì: cosa succede quando a vestire la calzamaglia di turno non è un tenero emarginato e/o un individuo dalle ridotte capacità intellettive ma un personaggio che al di là delle buone intenzioni è autenticamente squilibrato?

Nonostante il film giochi dai primi minuti con i meccanismi del cinema indie, titoli di testa animati inclusi, è presto evidente che Gunn vuole fare un passo più in là, o meglio di lato, abbandonando il rassicurante realismo dei dramedy sundanciani per un tono acceso, feroce, quasi surrealista: le danze si aprono con un’allucinazione che mescola hentai e deliri di possessione divina, e continuano con Frank che, non avendo un progetto morale ben chiaro nella sua lotta al crimine, nel dubbio comincia a spaccare crani a colpi di chiave serratubi, quale che sia la colpa. E se il film da principio è così bizzarro da rendersi quasi indigesto, è decisivo l’incontro con Libby (una graziosa e fenomenale Ellen Page), fumettara ventenne squilibrata quanto e più di Frank che trova molto eccitante l’idea che qualcuno abbia indossato sul serio un costume da giustiziere.

A dispetto dei pregiudizi, il film di James Gunn (che si ritaglia il ruolo del diavolo in un’improbabile trasmissione del network cristiano All-Jesus) è quindi tutt’altro che prevedibile: è un film genuinamente disturbato ma spassoso (a patto di avere lo stomaco adatto), estremamente violento eppure dolcissimo, un film radicale e pop al tempo stesso.

Presentato nel 2010 a Toronto e poi al Festival di Torino, il film è nel listino della M2 Pictures e dovrebbe uscire in Italia il prossimo autunno.

Per il momento, si trova già in vendita l’edizione britannica in DVD e Blu-Ray.

Your Highness, David Gordon Green 2011

Your Highness
di David Gordon Green, 2011

Se il film precedente dell’ex prodigio del Sundance convertitosi alla commedia, ovvero Pineapple Express (uscito da noi con lo sfortunatissimo titolo Strafumati), ha rappresentato una sorta di punto di arrivo della tradizione popolare della “stoner comedy”, una sintesi ideale e non priva di una sua autonoma dignità, è difficile considerare Your Highness come un superamento, bensì come una deviazione dimenticabile.

Danny McBride e Ben Best, autori del sorprendente piccolo film The Fist Foot Way e della stupefacente serie tv della HBO Eastbound and Down, prendono un canovaccio fantasy e vi applicano ancora il loro umorismo ormai inconfondibile (nonostante sia vicino a quello di Will Ferrell e soci) costruito interamente intorno all’attore-personaggio McBride e allo stampino ormai cristallizzato dell’antieroe egoista, sessista e vanaglorioso. E l’idea, come già in passato, non è quella di fare una parodia o uno spoof del fantasy, bensì un vero fantasy che faccia ridere: la differenza è enorme.

Ma nonostante le (buone) intenzioni, è paradossalmente proprio il lato comico del film quello a lasciare più interdetti. Il film di David Gordon Green è infatti girato e realizzato con grande cura (non si diventa un pessimo regista dal giorno alla notte), può contare sulla presenza ipnotica di Natalie Portman e sull’immediata simpatia di James Franco (che come ai vecchi tempi recita completamente a casaccio, visibilmente divertito), e soprattutto su production values di tutto rispetto: sarebbe quasi un bel fantasy, insomma, se gli sforzi dello script non fossero tutti indirizzati a una serie interminabile di sciocchezze triviali.

Ma ciò che caratterizza di più il film, e che segna la sua sconfitta, è la sovrapposizione assai maldestra dei toni: alcuni personaggi si comportano sempre e comunque in modo serissimo (la stessa Portman, per esempio), altri in modo totalmente ridicolo o parodistico, e anche nel racconto l’ambizione è quella di far convivere inventive scenografie e belle scene d’azione con idiozie come il vecchio saggio (una specie di Muppet fattone e pedofilo) o come il cazzo del minotauro portato al collo come un trofeo, senza che le due anime si divorino a vicenda: va da sé, è un proposito malfondato.

E poi c’è Danny McBride che con il suo cinismo sgradevole e volgare funge da catalizzatore e da osservatore esterno di questo caos, apparendo però, in definitiva, del tutto posticcio: se il protagonista assoluto del tuo film risulta non solo volutamente fastidioso ma accessorio e fuori posto non è una buona notizia per nessuno. Non è tanto il personaggio-McBride a non aver più molto da dire, si potrebbe dire, ma è il contesto fantastico a essere inadatto allo scopo: il meccanismo iconoclasta non funziona più se non c’è una realtà da sovvertire.

Non mi risulta sia ancora prevista un’uscita italiana, per il momento. In ogni caso, non voglio nemmeno pensare a cosa diventerebbe questo film doppiato e a quale titolo imbecille riuscirebbero a inventarsi stavolta.

Captain America – Il primo Vendicatore, Joe Johnston 2011

Captain America – Il primo Vendicatore (Captain America: The First Avenger)
di Joe Johnston, 2011

Curiosamente, quando si parla di Captain America si parla soprattutto di The Avengers. La scelta di aprire e di chiudere il film in questo modo, se non altro, rende inequivocabile come in nessun altro dei film precedenti la sua natura episodica all’interno di un progetto seriale, ed è piuttosto inutile a posteriori mettersi a fare ulteriori riflessioni su quanto sia maggiore l’appeal di un film sui Vendicatori di Joss Whedon rispetto a un film su Capitan America diretto da Joe Johnston – che, dal canto suo, fa un lavoro onesto anche se pressoché invisibile. Tutto il film che sta in mezzo tra il suggestivo incipit e quel finale tronco ed emozionante, con una frase lanciata su stacco al nero che è anche l’unico vero guizzo della sceneggiatura di Markus e McFeely (gli stessi della saga di Narnia), è approssimativamente quel che ci si poteva attendere ma allo stesso tempo è una virata necessaria dallo stile dei predecessori. Captain America dialoga soprattutto con il linguaggio del cinema di guerra più che con quello del film di super-eroi, scansa le tentazioni goliardiche e ammicca il meno possibile (anche se lo Stark senior di Dominic Cooper è divertente), si mantiene su un registro semiserio che rispecchia la gravitas del suo protagonista, e sembra volersi rifare a un intrattenimento più “classico”, tra virgolette, pre-Iron Man per intenderci, con la presenza di un respiro patriottico meno calmierato dal sarcasmo (ma anche meno insistito di quanto si dica in giro), oppure la costruzione di gran parte dei personaggi, la “hawksiana” Peggy Carter di Hayley Atwell o Tommy Lee Jones, un soldato duro-dal-cuore-morbido fatto a occhi chiusi. L’elemento di disturbo è ovviamente il Teschio Rosso di Hugo Weaving, stilizzato e quasi surreale, una macchia saturata sbattuta sullo sfondo di un film fantabellico che senza di lui avrebbe sofferto di allergia alla polvere. In definitiva, il film di Johnston regala un intrattenimento validissimo, meno sbruffone e compiaciuto della media e del tutto accettabile – se non ci fossero stati, a così breve distanza, Kenneth Branagh e il suo Thor a mostrarci che, anche all’interno di un progetto industriale colossale come il Marvel Cinematic Universe, un regista vero fa ancora la differenza.

Harry Potter e i doni della morte – Parte 2, David Yates 2011

Harry Potter e i doni della morte – Parte 2 (Harry Potter and the Deathly Hallows: Part 2)
di David Yates, 2011

Il capitolo finale della saga cinematografica tratta dai libri di J.K. Rowling, una delle più lunghe e produttivamente impegnative di sempre, oltre che tra le più radicali nel contesto del cinema cosiddetto mainstream, è a tutti gli effetti una “seconda parte” – ma è talmente riuscito da far brillare di riflesso anche l’altra metà: così come il film precedente si soffermava per l’ultima volta sulle relazioni tra i personaggi, prendendo tempo e dilatandolo in un’attesa snervante e ricca di dettagli indirizzati soprattutto agli iniziati, in questo film – come ci si poteva aspettare – viene rilasciata l’anima più spettacolare della serie. Deathly Hallows si rivela così, nella sua interezza, la chiusa ideale di un ciclo segnato prima di tutto da un percorso di avvicinamento alla morte che non ha molto a che fare con le impressioni date dai primi due episodi, circa un decennio fa, né con l’iconografia generale del racconto per ragazzi, in cui la simbologia del legame tra Harry e Voldemort, dello scontro inesorabile e infinitamente rimandato tra i due, trova ineccepibili giustificazioni narrative e una sua – altrettanto inevitabile – conclusione. Un finale che, tra i suoi meriti, ha quello di rimettere il personaggio di Potter al centro dell’azione, in una rivisitazione matura e dark del romanzo di formazione in cui il rito di iniziazione definitivo non è più la scoperta della mortalità ma l’accettazione della morte stessa, del proprio ruolo sacrificale tatuato sulla fronte fin dalla prima pagina o dalla prima inquadratura; ma anche quello di dare finalmente il lustro che merita a un personaggio ambiguo e affascinante come quello di Severus Piton/Snape, protagonista di un flashback/backstory autenticamente commovente. Harry Potter è stato in tutti questi anni un esempio di cinema per ragazzi avvincente e intelligente, capace di reinventare se stesso sulle sue pur solidissime basi, di crescere di film in film insieme ai suoi spettatori come un solo, amatissimo quanto ingombrante, progetto: e le quasi cinque ore che compongono la doppietta finale sono probabilmente il punto più alto di questo difficile equilibrio. Forse questo ottavo film è il più diretto, addirittura il meno complicato dal punto di vista dell’adattamento, ma è anche il più appassionante, il più spaventoso, il più intenso, il più trasparente e cristallino, oltre che quello produttivamente più compiuto e meglio realizzato. Abbiamo aspettato, spesso e volentieri ce la siamo goduta, a volte ci siamo lamentati, ma ne è valsa la pena: non a caso questo è uno dei pochi film a potersi permettere il lusso di includere la nostalgia di se stesso.

The Ward, John Carpenter 2010

The Ward – Il reparto (The Ward)
di John Carpenter, 2010

Sono pochi i registi che si sono fatti attendere come si è fatto attendere John Carpenter, inattivo da quasi un decennio nei lungometraggi (nel frattempo ha infatti girato due ottimi episodi di Masters of Horror, tra cui il capolavoro Cigarette Burns), dai tempi del sottovalutatissimo Fantasmi da Marte. Ma era difficile immaginare che il ritorno di un maestro indiscusso e così importante per il cinema di genere potesse essere un film così poco radicale, così sommariamente medio. Non mediocre, si intenda: The Ward è un buon esercizio horror, robusto e “vecchio stampo”, come avete letto da ogni parte – un aspetto dal quale deriva però anche una certa prevedibilità, non solo narrativa: ma dopotutto il film è volutamente costruito su canoni ben definiti, dal setting nel manicomio al meccanismo stesso di svelamento dell’identità (e altro che non possiamo citare senza sfociare nello spoiler). La forza di The Ward quindi, più che nella struttura del racconto o nell’efficacia (irregolare) dei continui “spaventi”, risiede nella forza espressiva che Carpenter riesce a mostrare a tratti, quando viene pizzicato: in particolare l’incipit del film, dalla fuga di Kristen al suo arresto e internamento nell’ospedale psichiatrico, è un piccolo saggio di cinema, davvero magistrale nella scelta delle inquadrature e del montaggio. Ogni tanto il regista sfodera anche qualche marchio di fabbrica, come l’uso della dissolvenza incrociata, ma nella maggior parte dei casi si mantiene su un registro meno personale, non sempre appassionante e apparentemente disinteressato: in verità è un mezzo miracolo che un film di questo tipo funzioni ancora così bene, ed è un risultato di cui ci possiamo accontentare volentieri. Il punto di forza più indiscutibile del film è invece Amber Heard, che conferma il suo fascino selvaggio e violento e la sua impressionante presenza scenica: Carpenter, va da sé, sa perfettamente come usarla.

Take me home tonight, Michael Dowse 2011

Take me home tonight
di Michael Dowse, 2011

All’interno di un’ampia e diffusa fascinazione nei confronti degli anni ’80, non necessariamente quelli “veri” ma anche la loro revisione rimasticata dal processo culturale, il film di Michael Dowse tenta sia la strada del period movie, con un’ambientazione precisa all’interno delle dinamiche sociali del tempo, sia quella dell’omaggio retrò a un determinato modo di fare commedia tipico di quegli anni, sia nei toni e nei temi – riti di passaggio compresi – che (a tratti) nello stile. Purtroppo l’apparato di malinconia nostalgica mista a una critica non proprio irresistibile del cinismo yuppie, non riesce a celare una sostanziale carenza di idee: di fatto, Take me home tonight non è un film particolarmente sbagliato o noioso, scorre senza troppi incidenti o imbarazzi – ma è una riproposizione meccanica, senza vita, e che al massimo strappa qualche sorriso. Ma l’errore più madornale, dietro al quale si svelano più facilmente le falle che lo circondano, è il cast: non solo quasi tutti gli attori protagonisti hanno infatti circa dieci anni più dei loro personaggi – e si vede – ma anche le loro stesse performance sono assai deludenti. Topher Grace per proporre un personaggio “à la John Hughes” fa uno sforzo sovrumano ma spesso vano, Dan Fogler è sempre sopra le righe ma è una spalla sguaiata e volgare, e persino la deliziosa Anna Faris risulta sospettosamente mutata,  ”gonfia” e inespressiva. Il meglio lo dà qualche personaggio di secondo piano, come Chris Pratt, Demetri Martin, persino Teresa Palmer (che sembra un clone di Kristen Stewart, ma senza le insopportabili faccette) mentre Lucy Punch, nonostante sia una delle attrici più divertenti in circolazione, è praticamente invisibile: non si fa, non si fa.

Nelle sale (forse) dal novembre 2011

(foto via)

Cars 2, John Lasseter e Brad Lewis 2011

Cars 2
di John Lasseter e Brad Lewis, 2011

Ci vuole una sola parola per spiegare come mai, tra tutti i progetti possibili, Lasseter e soci abbiano deciso di produrre un sequel del loro film meno amato: merchandising. Forse, da un’altra ipotetica prospettiva, questo è il primo momento della loro storia in cui dietro alle decisioni degli straordinari Pixar Animation Studios appare l’ombra del compromesso: se volete fare un film come Brave, in arrivo tra un anno, vi conviene fare cassa. E fare cassa nelle sale non basta.

Ma il problema di Cars 2 non è questo: Toy Story 3 (e l’eventuale venturo quarto capitolo) sembrava nato sotto le medesime direttive, eppure si è rivelato persino il migliore dei tre, un capolavoro. Il problema di Cars 2 è che per la prima volta la Pixar si è “accontentata”, rinunciando a sperimentare, limitandosi a proporre meccanismi oliati che dovrebbero funzionare da soli: in un certo senso è così, perché il film scorre bene e con grande facilità – ma il carisma, il cinema, il cuore, stanno da tutt’altra parte. Vero è che la distanza dal primo film, opera senza dubbio minore ma spesso ingiustamente sottovalutata, proviene da un’intrinseca voragine tematica: il contrasto forte tra città e campagna del predecessore diventa qui un banale messaggio di comprensione e accettazione della propria natura inserito in una trama che si rifà al cinema spionistico – come se un personaggio di Peter Sellers fosse finito per sbaglio in un film di James Bond – e mescolato a una riflessione ambientalista spiccia e infantile. Ma se anche Cars era molto semplice, Cars 2 è più che altro semplicistico.

In ogni caso non si tratta certo di un film “brutto”, parola assente dal dizionario della Pixar: tecnicamente ineccepibile, con diverse ottime trovate e un’anima “action” che è indubbiamente la più riuscita (anche se dispiace che ci siano così poche corse e così tanti inseguimenti), il film annoia però ogni volta che sceglie di rallentare e soprattutto – ahinoi – arranca pietosamente quando si sforza in tutti i modi di rendere simpatici i suoi personaggi. Umanizzare macchinine di metallo, nella linea della tipica malinconia pixariana, è un piccolo miracolo che era riuscito a Cars; qui invece ci si concentra solo sul carro attrezzi Mater/Cricchetto, facendo fuoriuscire l’inutilità (quando non l’antipatia) del resto del cast: un’ammaccatura che rovina tutta la carrozzeria.

Dylan Dog – Il film, Kevin Munroe 2011

Dylan Dog – Il film (Dylan Dog: Dead of Night)
di Kevin Munroe, 2011

“Does the word ‘Sclavi’ mean anything to you?”

Ci vuole poco a capire perché confrontare il Dylan Dog di Kevin Munroe e quello di Tiziano Sclavi non possa giovare al film; pare inoltre un esercizio fine a se stesso: i cambiamenti sono stati così numerosi e radicali, alcuni giustificati dalle contingenze produttive e altri francamente inspiegabili – non tanto la terribile voce fuori campo o lo spostamento da Londra a New Orleans, quanto la modifica sostanziale dell’intera backstory di Dylan, divenuto un ex “mediatore” tra umani e mostri – da creare con questo film una nuova mitologia, che riporta alla mente Blade e Underworld, magari Buffy o addirittura Streghe, più che il Romero citato frequentemente nei primi storici albi del fumetto italiano. Una comodità per chi fosse così volenteroso da affrontare Dead of Night come un film a sé stante – nonostante la costruzione narrativa si rifaccia abbastanza fedelmente alla “tipica” storia di Dylan – e non come il fallito adattamento di un grande prodotto editoriale. E così com’è, il film di Munroe è meno orrido di come lo si dipinge: una volta superato il trauma (la prima mezz’ora di film è un facepalm dietro l’altro) questo Dylan Dog appare come un discreto horror di serie B straboccante di cliché che tra il dark e la commedia sceglie più volentieri quest’ultima. Infatti proprio nell’inseguire i toni leggeri Munroe trova i suoi momenti peggiori (ad esempio la sequenza demenziale e sbracata dell’obitorio) ma anche i suoi migliori (il mercatino dei pezzi di ricambio) accomodandosi più spesso su un placido e per nulla sgradevole equilibrio tra le esigenze del genere e l’ammiccamento ironico, anche grazie al comic relief di Sam Huntington – che aveva l’arduo incarico di far dimenticare l’assenza di Groucho e fa un buon lavoro, anche se la sceneggiatura e i dialoghi raffazzonati non sono all’altezza (ma “I look like a dead hooker!” mi ha fatto sorridere). Brandon Routh invece è noto per essere un attore rigido e legnoso, e qui si riconferma tale: molto meglio l’islandese Anita Briem.