Drive
di Nicolas Winding Refn, 2011
Quello che dobbiamo sapere sul protagonista senza nome del suo film, intepretato da Ryan Gosling in quella che è la definitiva consacrazione del suo inestimabile talento, Refn ce lo racconta in pochi minuti nell’incredibile incipit di Drive: un autista silenzioso, preciso, flemmatico, che si divide tra un’officina, lo stunt driving e le rapine per cui si offre come mercenario. Ma come spesso accade al cinema, l’incontro con una donna cambia le regole del gioco. Senza troppi giri di parole, Drive è uno straordinario, piccolo capolavoro che raccoglie l’eredità del crime movie riducendola all’osso, tra una messa in scena rigorosa ed eccellente la cui imperturbabilità si crepa man mano insieme a quella del suo personaggio e che accoglie suggestioni visive che sembrano provenire da David Lynch come da Michael Mann, e una variazione sul tema dell’onore e una caratterizzazione del personaggio che arrivano dritte dal western oppure, perché no, da un chanbara eiga. Ma la cosa più stupefacente di Drive è la sua incapacità di fermarsi alla realizzazione di un film compiuto a partire da materiali messi in mano da una produzione preesistente: Refn al contrario prende lo script di Hossein Amini e lo gonfia di una qualità percettibilmente metafisica; e lo fa cercando sempre di infondere nelle sequenze, che siano affettati dialoghi o inseguimenti in macchina, ma anche nelle singole inquadrature del film, un costante senso di disperata inevitabilità, che si accompagna alla precisione millimetrica e a volte persino frastornante con cui sono realizzate. Ne risulta un film affascinante e perturbante, che entra nel cuore dello spettatore come un trapano, e senza nemmeno bisogno di far passare il genere dai filtri cerebrali del cinema d’autore: Drive è per sua scelta un film molto lontano dal cinema di intrattenimento americano, ma è anche una parabola eroica immediata e perfetta, una storia d’amore vorticosa e dolcemente affranta, un gangster movie che fa attraversare un autentico senso morale in mezzo agli schizzi di sangue, un film la cui anima è racchiusa in modo infallibile dalla sequenza dell’ascensore – uno degli esempi di pura messa in scena più impressionanti del cinema di questo decennio. Il cerchio di quest’opera così atipica e inusuale, così poderosa e strepitosa ma in qualche modo così intima e onesta, la cui originalità vive anche senz’altro nel contrasto tra l’esperienza europea del regista danese e il tuffo di quest’ultimo nel bel mezzo della tradizione di genere statunitense, è chiuso dalla colonna sonora, pazzesca e instantaneamente persistente, che fa un uso geniale del tappeto sonoro di Cliff Martinez abbinandogli un pugno di canzoni perlopiù semi-sconosciute utilizzandole con una forza espressiva impareggiabile e persino esasperata, sia quando è in tema (“A Real Hero” dei College) che quando è in totale contrasto (“Oh My Love” di Riz Ortolani), sia quando, infine, trova una misteriosa formula magica che unisce in modo necessario le immagini alle note – come nel caso degli indimenticabili titoli di testa su “Nightcall” di Kavisnky. Peccato che Drive sia anche un film facile da fraintendere e, allo stesso modo e ancora di più, un film facile da svendere per ciò che non è: la fortuna è che siamo già in tanti, a esserci innamorati di lui. E saremo sempre di più.