Stati Uniti

X-Men: L’inizio (X-Men: First Class), Matthew Vaughn 2011

X-Men: L’inizio (X-Men: First Class)
di Matthew Vaughn, 2011

Il compito di Matthew Vaughn non era semplice: recuperare una saga partita benissimo e poi persasi per strada per colpa di un pessimo terzo capitolo e di uno spin-off sulle origini di Wolverine sgradito ai più, soprattutto viste le sue potenzialità; il tutto inserito peraltro in un contesto del tutto diverso dal passato: se nel 2000-2003 i film di Bryan Singer erano considerabili al di sopra della media dei prodotti simili, la qualità dei “film con i super-eroi” si è alzata notevolmente negli anni successivi; e il tutto, infine, in tempi davvero ristretti.

In questa prospettiva, Vaughn ha fatto un gran bel lavoro: abbassando la levetta dell’epos e alzando quella del pop, ha confezionato prima di tutto un film divertente, davvero ben congegnato anche se non particolarmente originale, e costruito in gran parte sull’ammiccamento nei confronti degli appassionati – sia tramite l’allusione continua al destino arcinoto dei suoi personaggi sia, più sottilmente e probabilmente con una punta di scaltrezza, indirizzandosi direttamente al fandom vero e proprio e allo sterminato mondo della rielaborazione culturale in rete. Questo è il motivo palese per cui l’incontro tra i futuri Professor X e Magneto, al centro del film (con i personaggi secondari, spesso volutamente tralasciati, a raccogliere poco più che briciole), è diventato un vero e proprio bromance, già pronto e impacchettato per diventare il fulcro di innumerevoli fan fiction.

Quindi, nonostante gran parte del cast sia all’altezza della situazione (soprattutto Kevin Bacon, Jennifer Lawrence e Nicholas Hoult: January Jones è invece con tutta probabilità la peggior attrice in circolazione, e non serve la lingua originale per accorgersene) in questo senso è la scelta di McAvoy e Fassbender la più vincente in assoluto: la tensione emotiva tra i due è palpabile, anche se è soltanto il secondo in tutto il gruppo a mostrare uno sforzo attoriale che supera i meriti del film stesso – rischiando spesso di divorarlo, fortunatamente non riuscendoci mai. Che Magneto avrebbe dato più soddisfazioni di Xavier lo si capisce fin da principio, nel montaggio parallelo che apre il film: intenso e drammatico la parte dedicata al giovane Erik (una delle migliori sequenze), svagata e un po’ stucchevole quella di Charles Xavier e del suo incontro con la mini-Raven.

Il compito, dunque, è ben svolto: Vaughn ha dimostrato, come già in Stardust, di saper mettere la sua professionalità al servizio della produzione (non è un caso che Singer sia tornato, e la sua impronta è in qualche modo evidente) e di un progetto ben più arduo di quanto sembri sulla carta. Peccato che il suo potenziale non si sia espresso al meglio come in Kick-Ass, ma in definitiva ci possiamo accontentare. Basta, e avanza: soltanto con lo shipping Erik/Charles ne avremo per mesi e mesi.

I guardiani del destino (The Adjustment Bureau), George Nolfi 2011

I guardiani del destino (The Adjustment Bureau)
di George Nolfi, 2011

Attenzione a non scambiare The Adjustment Bureau per un thriller: l’opera prima dello sceneggiatore George Nolfi, che lo stesso regista ha tratto da un racconto di Philip Dick con grande libertà ma senza tradirne lo spirito, è un’autentica commedia romantica in cui le suggestioni e le paranoie sci-fi e il contesto tipicamente dickiano della scoperta di una realtà nascosta dietro il velo di Maya servono più che altro da pretesto per una convincente e persino commovente love story con contorno di eminenze grigie. Non a caso i punti di forza del film, più che nell’assetto di genere (costruito comunque con classe e con una spiccata predilezione per l’understatement) sono proprio nei molti dialoghi, brillanti ed efficaci, nella recitazione dei due protagonisti (soprattutto un’illuminante Emily Blunt e l’azzeccatissimo John Stallery) e nella leggerezza del tocco di Nolfi nel raccontare un amore talmente potente e necessario da arrivare a sfidare sé stessi, il Fato, e Dio in persona. Quindi, se pure ci sono qua e là alcuni stalli nello script, per il desiderio di spiegare nei dettagli la sua mitologia e di intrecciarla con un discorso più ampio sulla trascendenza, sul caso e sul libero arbitrio, The Adjustment Bureau è un’opera così favolosamente romantica da far perdonare qualche passeggera ingenuità. Un film che si presenta tra l’altro con un ottimo biglietto da visita, ovvero il magistrale incipit che presenta in breve tempo il personaggio di David grazie al montaggio serrato e intelligente di Jay Rabinowitz, e che continua riuscendo a trovare un equilibrio delicato tra quest’anima sentimentale, le necessità della narrazione fantascientifica e la pura piacevolezza del racconto. Bellissima sorpresa.

Nelle sale dal 17 giugno 2011.

Paul, Greg Mottola 2011

Paul
di Greg Mottola, 2011

“Hey fucknuts! Probing time.”

Degli ultimi tre film di Greg Mottola, Paul è forse il meno personale, sicuramente quello meno legato alle ossessioni malinconico-adolescenziali del regista: in verità è più propriamente un film di Simon Pegg e Nick Frost, che firmano infatti la densissima sceneggiatura di un film che vuole essere un omaggio a tutto tondo a una multi-generazione geek cresciuta tra la fantascienza di Spielberg e le avventure di Fox Mulder, tra il culto del Klingon e i Men in Black. Un film, insomma, che comunica a filo diretto con il citazionismo di Spaced più che con la commedia di Seth Rogen (anche se quest’ultimo, con la sua partecipazione vocale, dà una decisa impronta “rogeniana” all’eponimo alieno parolacciaro) con una storia che si appropria di molti cliché della commedia on the road, ma con un umorismo che seppur guardando l’America redneck e integralista dall’alto in basso riesce a mescolare abbastanza sapientemente le sue due anime, cinismo britannico e consapevolezza yankee.

Rimane il dubbio su cosa sarebbe stato di Paul nelle mani più coraggiose e davvero sperimentali di Edgar Wright, antico (e futuro) sodale dei due, ma possiamo accontentarci: se il film di Mottola non è fulminante è comunque vorticoso, spesso delizioso e quasi sempre divertentissimo, un gioco di rimandi che a volte pare sfociare nel nerd trivia (piuttosto facile a dire il vero) ma che riesce nonostante il giochetto cinefilo a non dimenticare mai per strada l’anima e il senso dei suoi personaggi – Pegg e Frost sanno decisamente di cosa parlano, quando parlano di geek – e ammiccante senza ritegno nel sottolineare, sulla falsariga di Hot Fuzz, le pieghe più romantiche del loro bromance. Come spesso accade, la ricchezza del film si trova anche nel cast secondario, tra cui spiccano un formidabile Bill Hader e l’adorabile Kristen Wiig nel ruolo di una cristiana del Wyoming che l’alieno Paul provvede a convertire alla scienza e alle gioie dell’imprecazione.


Nota: ho visto l’edizione estesa, l’ho vista in lingua originale, e di quella ho scritto: non garantisco che l’umorismo prettamente verbale del film sia stato ben adattato nell’edizione italiana, dove Elio ha dato la voce a Paul.

In ogni caso, se volete il DVD inglese è già in vendita.

Drive Angry, Patrick Lussier 2011

Drive Angry
di Patrick Lussier, 2011

“Why don’t you fuck naked?”
“I never disrobe before a gunfight”.

Tra le conseguenze della recente diffusione del 3D c’è la nascita di opere che sembrano perdere ogni senso se private della tecnologia stessa. Fa parte del gioco: se il 3D significa per molti spettatori disincantati il ritorno all’esperienza fisica della sala, è quasi naturale che la tecnologia porti a sviluppare anche un cinema che si avvolge intorno a essa e non solo viceversa. Il succo della questione è: quando l’oggetto di turno viene lanciato verso lo spettatore e questi non si scansa più, cosa resta di quell’idea di cinema? Interessante allora vedere a due dimensioni, pur se in alta definizione, un film come Drive Angry: cosa rimane attaccato allo scheletro spolpato dagli effettacci da luna park? Francamente poco: anche perché il film di Lussier è davvero una stupidaggine scritta (da Lussier insieme a Todd Farmer, che recita nel ruolo inglorioso del fidanzato manesco) sul retro del biglietto da visita di una pessima birreria di provincia, ma non del tutto sciocco nel puntare tutto su un Nicolas Cage divenuto la caricatura di se stesso; un film che tra l’altro si sposta quasi subito nei territori della parodia e del cartoon – la consistenza dei due personaggi maschili viene dritta dai Looney Tunes - e ci rimane fino alla fine. Insomma, Drive Angry non si prende mai sul serio, nemmeno per un momento, è sempre alla ricerca del rilancio esagerato e alla fine la strategia si rivela vincente: impossibile annoiarsi, se si accetta questa premessa. In ogni caso, l’elemento migliore è la bellissima Amber Heard, e la sua Piper, cameriera spavalda e parolacciara, è davvero memorabile: il resto del film è una baraccata fracassona e naif, senza un’idea originale o un effetto che non sembri vecchio di quindici anni, anche se, ammettiamolo, onesta e abbastanza spassosa.

The Tree of Life, Terrence Malick 2011

The Tree of Life
di Terrence Malick, 2011

Terrence Malick schiaccia il pulsante del fast forward sulla storia dell’universo e sceglie di mettere play sulla storia di una famiglia nell’America degli anni ’50; per raccontare, attraverso lo sguardo di un uomo che ricorda la fine implacabile della sua infanzia tra le strade semivuote e le case piene di urla e i giardini tra di esse, un contrasto tra natura e grazia impersonato da un padre duro, inflessibile, cinico e disilluso, e una madre dolce, rassegnata e remissiva; e se la parte centrale del film è questa storia anche piuttosto canonica sulla perdita dell’innocenza, è costruita come una sineddoche del mondo o forse una sua metafora in cui la forma della preghiera, la sua forma assoluta e laica se vogliamo, buttata al cielo e alle nuvole da sotto i rami di un albero, ne diventa il collante facendo assumere al film i connotati di una riflessione cosmica sulla grandezza e insieme sulla dolente fragilità della vita; scegliendo, come già i Coen avevano fatto in tempi recenti, la storia di Giobbe per tematizzare i personaggi messi alla prova di fronte all’assurdità stupefacente della vita e della morte e chiudendo il film con una sequenza misteriosa e affascinante, tra Lost e Fellini, al di là del mondo – o forse al di là del film, dei personaggi, e dei ruoli. E il modus operandi del regista texano non ha nulla a che fare con il cinema contemporaneo: non solo per la struttura narrativa, che con un trucco che ha illustri precedenti fa precedere l’assenza al presagio, facendo camminare i fantasmi sulla Terra; e non solo per la scelta suddetta di alternare la vicenda umana dei suoi personaggi a una stupefacente e frastornante storia dell’universo, dal Big Bang all’esplosione del sole, ma perché segue soprattutto intuizioni del ricordo selettivo che hanno più a che fare con la costruzione musicale e sinfonica che con la narrazione tradizionale. E il film si dipana proprio così, trascinando il pubblico in movimenti musicali e inconsci – in cui il montaggio è tutto, per il modo magistrale in cui sequenze e inquadrature vengono riarrangiate in favore della colonna sonora e non viceversa, e in cui il materiale viene rimodellato, troncato, rimescolato, in modo totalmente estremo dalle mani esperte del regista. Che trova soprattutto nella prima metà del film un culmine del sistema sperimentato nei due film precedenti, ma che non può che scontrare, e forse lo fa volentieri, le sue enormi ambizioni contro le limitazioni del mezzo: tutto sommato  The Tree of Life è un film sostanzialmente irrisolto, ma mai e poi mai irresoluto, perché Malick fa dei propri limiti un vanto, e ha il coraggio di alzare la testa, di porre delle domande, di fornire persino delle risposte, e sa mettere un quadro e una prospettiva vera intorno ai personaggi e all’umanità, e di fare cinema in modo furiosamente personale, come pochi altri. Questo è il (piccolo) prezzo che il film deve pagare: la spettacolare trivialità di una vita qualunque, banalità resa epica, minuscola traccia di sé resa Universo, non avranno mai la potenza espressiva e l’impatto emotivo di un mondo che nasce e muore.

Amici, amanti e… (No strings attached), Ivan Reitman 2011

Amici, amanti e… (No strings attached)
di Ivan Reitman, 2011

La premessa essenziale è che Natalie Portman è in grado di farci digerire qualunque cosa. Sembra una sciocchezza dovuta all’affetto nei confronti dell’attrice o all’avvenenza impressionante della stessa, ma in realtà la Portman è proprio brava: è capace di infondere in un personaggio banale e superficiale come quello della dottoressa anaffettiva quel briciolo di anima in grado di renderla credibile e umana. E non è una cosa da poco. Perché la stessa Portman si sia impegnata personalmente nella produzione del film è invece un mistero: No Strings Attached è una commedia bruttarella ed estenuante che sembra dapprima proporre un ribaltamento dei cliché di genere per poi mettere in campo la risoluzione più risaputa e conservatrice. Un meccanismo scaltro che ha fatto la fortuna di commedie ben più riuscite, ma con l’aiuto di registi più capaci – perché Reitman avrà pure fatto Ghostbusters e Dave, ma sono parecchi anni che non tira fuori un film decente e, ricordiamolo, la sua ultima fatica era stata La mia super ex-ragazza. Grosso errore di valutazione, ancora una volta, su Ashton Kutcher, protagonista assoluto quasi sempre in scena nonostante sia quasi del tutto privo di talento, se siamo ancora in un mondo in cui possiamo discernere il talento dal fatto che uno è molto alto. Secondo errore di valutazione, quello sul cast di non protagonisti – mentre la commedia americana ha insegnato spesso nell’ultimo decennio a fare tesoro dei volti secondari, qui sono meno che sottoutilizzati: meno minuti (ce n’erano in abbondanza) dedicati alla noiosa storia d’amore tra i due ricchi e viziati protagonisti e alle loro fisime borghesi e più Greta Gerwig e Ludacris avrebbero giovato assai alla sopportabilità del film.

Sul titolo italiano del film non ho più parole.

Thor, Kenneth Branagh 2011

Thor
di Kenneth Branagh, 2011

Il dubbio legittimo che un regista come Kenneth Branagh non fosse la scelta migliore per portare sullo schermo le avventure del super-eroe della Marvel svanisce più o meno subito, durante le prime scene ambientate ad Asgard: anzi, se si destreggia bene tra le implicazioni shakespeariane delle trama, Branagh mostra anche una certa dimestichezza con il linguaggio del fumetto e soprattutto con le esigenze dell’intrattenimento hollywoodiano. Ma la sfida più imponente era quella di spostare il progetto The Avengers dal piano più “tecnologico” di Iron Man e Hulk a quello della trascendenza, della magia se vogliamo, o del puro mito, sulla carta più difficile da digerire per un pubblico sempre più restio a sospendere la propria incredulità. Una sfida vinta grazie alla fisicità terrena delle divinità, in primis l’azzeccato protagonista Chris Hemsworth, e grazie a un’ironia serrata e intelligente nel tracciare il contrasto tra i due mondi. Un’ironia che – seguendo l’esempio del primo Iron Man – serve da valvola di sfogo più che da catalizzatore, e se anche non proprio tutto funziona (per esempio l’adorabile Kat Dennings è poco più che un “indie relief” tirato via) il film è davvero una pacchia per qualunque amante dei comics americani – o anche solo dei film da essi tratti, dei quali è uno dei migliori esemplari degli ultimi anni. La sorpresa è che, nonostante la scontata cura delle scene d’azione, il meglio stia quasi altrove: impreziosito infatti in modo definitivo dalla scelta non solo di mettere in campo degli attori veri (Stellan Skarsgård, un ritrovato Anthony Hopkins, ma soprattutto la meravigliosa Natalie Portman) ma anche di dirigerli sul serioThor è un ottimo film spettacolare ma che non dimentica i suoi personaggi, un film di eroi immortali che riesce a emozionare per un bacio d’addio in mezzo al deserto. E in definitiva una notevole spinta in avanti di qualità per quello che è ormai diventato uno dei progetti più grossi e ambiziosi della storia di Hollywood. Ci sarà da divertirsi.

Source Code, Duncan Jones 2011

Source Code
di Duncan Jones, 2011

Dopo aver sorpreso tutti con Moon, il piccolo e bellissimo gioiello da 5 milioni di budget che si è meritato tra gli altri un Hugo Award e la stima dei fan della hard sci-fi, con il suo secondo film Duncan Jones rimane in territori non dissimili ha sfornato un altro film ben più che soddisfacente: l’aumento del budget e il passaggio negli states non ha portato via al regista britannico il talento nel raccontare storie umane che utilizzano al pieno delle loro potenzialità le armi della narrativa fantascientifica, con una compattezza assoluta e circolare che sembra ancora rifarsi alla struttura del racconto breve. E se la sceneggiatura di Ben Ripley riserva poche sorprese perché gioca su snodi narrativi di per sé facilmente intuibili quasi da principio (l’identità dell’attentatore, l’ontologia del “source code”, persino la conclusione necessaria della vicenda), per fortuna non è sull’effetto-sorpresa che Jones vuole giocare la sua partita ma piuttosto sull’abilità di costruire una storia che parte dalle sue idee tecnologiche per finire dritta nel cuore dei personaggi, e non viceversa, rendendo chiaro sempre e comunque che quella è la destinazione definitiva: una rivincita della passione sulla ragione, dell’anima sulla tecnologia se vogliamo. Facendo leva su ossessioni contemporanee (claustrofobie diegetiche, paradossi spazio-temporali cerebrali) e su brillanti citazioni hitchcockiane, Jones è riuscito ad azzeccare un altro gran bel film, forse meno inappuntabile del precedente, ma che è ancora una volta fantascienza intelligente, pulsante e vitale.

Scream 4, Wes Craven 2011

Scream 4
di Wes Craven, 2011

Ciò che non possiamo rimproverare a Wes Craven e al suo Scream 4 è la coerenza di fondo che lo lega ai capitoli precedenti e, ancora di più, a tutto ciò che è successo nel cinema horror, thriller, slasher e via dicendo negli ultimi 10 anni: il regista di Nightmare (e di New Nightmare) continua a raccontare con la medesima ironia di un tempo il cinema di genere filtrandolo attraverso la lente distorta della proliferazione commerciale e del culto cinefilo, e mentre la pratica dei sequel passa il testimone a quella dei remake Craven si ostina a fare un cinema che include la sua critica all’interno della rappresentazione. L’effetto del gioco di specchi può essere tanto esilarante quanto deprimente, a seconda di ciò che vogliamo mettere in cima alle priorità di un film simile: ciò che possiamo biasimare a Craven, semmai, è di avere fatto un film che, come già in Scream 3 (ma almeno senza quell’abbandono totale alla farsa) insiste con malcelata soddisfazione su questi elementi autoriflessivi dimenticando per strada il puro senso del racconto; ed è chiaro fin dal principio, da come apre le danze con un gioco di matrioske indubbiamente stimolante (anche se ingenuo e vecchiotto) che sarà questo il suo interesse, finendo infatti per ficcare molto presto la narrazione in un cul de sac, o meglio in un  loop in cui il martellante turbinio di “spaventi” da manuale smette assai presto di essere efficace, e dietro a cui si intravede un vuoto coperto solo dalle amenità metatestuali, dalla variegata ricchezza del cast – tra cui spicca, come sempre, l’ormai lanciatissima Emma Roberts – e dagli ammiccamenti. Che poi sono l’anima del film, quella che permette sghignazzando senza troppe raffinatezze di passare sopra al senso di noia e di ripetitività di gran parte del film – almeno fino all’ultima mezzora, quella della “rivelazione”, che di per sé è assolutamente improbabile (e difficile da “indovinare”: chissà se di conseguenza o viceversa) ma che funziona alla perfezione per due motivi: perché Craven e Williamson mettono finalmente in campo un tema, un tema forte e preciso, che nell’ora e mezza precedente avevano purtroppo (ma volutamente) tralasciato; e perché è solo in questo punto, con un monologo tanto interminabile quanto necessario agli scopi del film, che si porta a compimento il rapporto strutturale tra il primo e quest’ultimo capitolo, fino ad allora lasciato solo nelle mani di di Kevin Williamson, e della sua logorrea superata e un po’ infantile.

Sucker Punch, Zack Snyder 2011

Sucker Punch
di Zack Snyder, 2011

Sucker Punch ha sollevato ben più che una generale curiosità, nei mesi passati: questo film era l’occasione per Snyder di mostrare finalmente di che pasta era fatto. Il grande risultato di Watchmen, film “impossibile” alla vigilia eppure riuscitissimo, era ancora vivo nella memoria; e le immagini del trailer lasciavano ben sperare, trascinate dall’immediato fascino di una partita senza precedenti di splendide fanciulle ventenni conciate come a una fiera del cosplay e pronte a menare le mani e sparare all’impazzata. Poteva essere un sublime punto d’arrivo dell’action ontologico dell’ultimo decennio, chiudendo finalmente la porta aperta da Matrix, ma purtroppo non è andata a buon fine: Sucker Punch è un film brutto e sgangherato, se non fastidioso e inutile, che spreca l’enorme potenziale visionario di Snyder in favore di una narrazione involuta e di un’estetica plastificata.

Ci sono tanti livelli su cui questo film è malriuscito, fastidioso e sgraziato, e sono curioso di leggere nel prossimo periodo letture diverse dalla mia e che magari non mi appartengono, ma per il momento mi limiterei a sottolineare una considerazione piuttosto basilare: ovvero, che un action adrenalinico dalle venature fantasy possa permettersi di essere un sacco di cose, di essere cretino, ingenuo, prevedibile, risaputo, ma non possa permettersi di essere così mortalmente noioso. Il problema è che, una volta introdotta senza troppi indugi la struttura che lo anima (una matrioska di realtà oniriche che per alcuni tratti ricorda quella di Inception), Sucker Punch “si siede” su un procedimento narrativo ripetitivo allo scopo di introdurre di volta in volta le sequenze puramente action, che riprendono il linguaggio del videogame di oggi utilizzando quello stesso interesse verso il frullato pop-culturale (zombie nazisti, castelli con draghi e orchi, samurai giganti, guardie robot, e via dicendo) ma prendendo dal videogame purtroppo anche l’idea – esplicitata nella trama – di spezzare il racconto in brevi missioni autoconclusive, ognuna con il suo scopo ben definito, affettando così il film in veri e propri “livelli” con una meccanicità tremenda che svilisce i tentativi di Snyder di costruire attorno a queste sequenze una qualsivoglia trama – che, in definitiva, si configura come un mero pretesto all’interno del quale ci si diverte forse un po’ troppo a vestire le proprie eroine come bambole per poi farle prendere a ceffoni (o peggio) dal (moscio) villain di turno.

Per capire quanto sia frustrante tutto ciò per chi fino a oggi ha difeso l’altalenante ma stimolante lavoro di Snyder a Hollywood, basti pensare a quanto è bella e incredibile la sequenza iniziale, con la cover di Sweet Dreams che Snyder fa cantare proprio alla protagonista, la pazzesca Emily Browning. Come sempre accade, l’incipit è il posto dove Snyder mette tutto se stesso, è sempre stato così, e anche stavolta l’apertura è straordinaria quanto riconoscibile: in una manciata di immagini forti e di grande impatto, segnate dai ralenti che sono tra i suoi marchi di fabbrica, Snyder riesce a introdurre uno stile, un personaggio e un mondo senza bisogno di dire una parola. Soltanto che stavolta dopo quei 10 formidabili minuti, quando i personaggi cominciano a parlare, non gli rimane nulla da dire. La colonna sonora infatti rimane un punto fermo del film e di Snyder: ben venga la sempre sublime Army Of Me di Bjork usata in questo modo così aggressivo e liberatorio, e persino la cover di Where is My Mind firmata da Yoav (sia mai che un film ambientato in un ospedale psichiatrico non ci sia quella canzone!). Invece la smania distruttiva e roboante delle sequenze d’azione, tecnicamente impressionanti ma altrettanto monotone e stordenti, finisce per nascondere la bravura più autentica di Snyder, che infatti rimane celata: non per niente il miglior virtuosismo tecnico del film (l’attraversamento dello specchio nel camerino durante un dialogo) rimane nascosto nonostante sia più interessante dei soliti proiettili che cadono dal caricatore o delle solite asce rotanti lanciate nel cranio dei nemici.

Insomma, Sucker Punch è una davvero un film di poco conto, ma quel che è peggio è che dà l’impressione di prendersi un po’ troppo sul serio, soprattutto verso la fine, con un misto abbastanza ridicolo di presunzione semiotica e fondali photoshoppati ipersaturi. A quel punto, tanto vale mettersi all’altezza del film e farsi una top 5 delle cinque battagliere protagoniste – anche perché devo ammettere che la loro presenza scenica e la loro fotogenia indecente spesso aiutano a far passare i minuti tra una mazzata assordante e l’altra.

Rango, Gore Verbinski 2011

Rango
di Gore Verbinski, 2011

“Is this Heaven?”
“If it were, wouldn’t we be eating strawberry Pop-Tarts with Kim Novak?”

Dopo una carriera di una dozzina d’anni passati a prendersi carico con variabile professionalità di progetti radicalmente differenti, alla filmografia di Gore Verbisnki mancava un film che sfruttasse finalmente le sue innegabili doti di mestierante all’interno di un progetto più personale e sentito. Chi l’avrebbe mai detto che sarebbe stato un film animato? Prodotto e co-ideato infatti dallo stesso regista, e realizzato (per la prima volta) dalla Industrial Light & Magic, Rango è un “piccolo” gioiello da 135 milioni di dollari, un inaspettato inno cinefilo che mostra la grande dimestichezza di Verbisnki con i generi e l’amore profondo nei confronti del cinema, non solo western. Un concentrato irresistibile di citazioni, ammiccamenti e omaggi, realizzato con una cura del dettaglio impressionante, con un’inventiva decisamente sopra la media nel disegno dei personaggi e delle scene, con una sceneggiatura vera (di John Logan, lo stesso di The Aviator di Scorsese) e soprattutto con una qualità visiva spettacolare, spesso vertiginosa, a tratti persino visionaria: al di là della citazione esplicita di Paura e delirio a Las Vegas, è facile vedere aleggiare nel film lo spirito di un autore come Terry Gilliam, e non solo quello di Corbucci e di Leone, o del Mel Brooks di Blazing Saddles. In ogni caso, Verbisnki non si limita ad accatastare cliché del cinema western, né si spinge fino a una rilettura critica e completamente intellettuale del genere: affronta invece la materia con una schiettezza fanciullesca, con una passione liberatoria che conosciamo bene, quella di un ragazzo che ha appena scoperto il cinema e se n’è innamorato perdutamente. Ma il vero valore aggiunto è il coraggio di Verbisnki nello sviluppare la storia senza badare in alcun modo alle abitudini spesso ritrite o canoniche del cinema d’animazione contemporaneo; perdendo probabilmente per strada l’attenzione di un pubblico come quello più giovane (probabilmente confuso di fronte alle divagazioni più surreali o esistenzialiste) ma facendo di Rango un oggetto del tutto alieno, un film divertentissimo e un po’ folle, un film di cui, non sapendolo, sentivamo il bisogno.

Il buongiorno del mattino (Morning Glory), Roger Michell 2010

Il buongiorno del mattino (Morning Glory)
di Roger Michell, 2010

Non c’è molto da dire su Morning Glory, anche se non è detto che vada del tutto a suo svantaggio: prima commedia della Bad Robot di J.J.Abrams, il film del capace britannico Roger Michell è costruito in modo banalmente ineccepibile intorno alla scaltrissima sceneggiatura di Aline Brosh McKenna, che riporta in scena meccanismi già visti nel suo Il diavolo veste Prada ammiccando a quello stesso pubblico (e facendo un uso simile del contesto del mondo del lavoro) e li affida soprattutto alla prova d’attrice di Rachel McAdams che, come già nel film precedente, è forse troppo spaventosamente bella per farci credere davvero fino in fondo che possa essere così imbranata e virginale, ma il cui stile leggero e stralunato, caricaturale ma dolcissimo, è davvero la sorpresa più bella del film. Il resto è mera professionalità produttiva: vedete voi se e quanto possa bastare, ma è abbastanza difficile spiegare il suo tremendo insuccesso commerciale. Bravi la Keaton e (soprattutto) Harrison Ford a fare i comprimari e a comportarsi di conseguenza, anche se il personaggio di secondo piano più sorprendente è Jeff Goldblum: è riuscito, chissà se suo malgrado, a estirpare completamente ogni traccia di ironia dal topos del boss cinico, e ha perlopiù l’espressione di uno che si trovava lì per caso o per sbaglio. Infine, controproducente a mio avviso andare a cercare nel film una vera riflessione sull’evoluzione del giornalismo e sul ruolo dell’infotainment: se c’è, è comunque vecchiotta e risaputa oltre che ambigua, meglio considerare Morning Glory una commediola tiepidamente riuscita, gradevole e con alcuni momenti davvero brillanti, anche se il romantic interest del caso (Patrick Wilson) è uno dei più rigidi e noiosi che si possano immaginare.

Rapunzel – L’intreccio della torre (Tangled), Nathan Greno e Byron Howard 2010

Rapunzel – L’intreccio della torre (Tangled)
di Nathan Greno e Byron Howard, 2010

Lo strapotere culturale e commerciale della Pixar negli ultimi 15 anni ci ha fatto gradualmente allontanare dalla Disney: ma Rapunzel è senza dubbio uno dei risultati migliori, forse il migliore, della casa negli ultimi (molti) anni. Caso vuole che sia esattamente il 50° film del “canone” Disney,  e che sia, almeno per il momento, l’abbandono del mondo delle fiabe da parte degli Studios dopo che molti prodotti provenienti dalla concorrenza si sono letteralmente impossessati della tradizione. Ed è proprio nel rapporto con la tradizione che sta la bellezza di Rapunzel: un film che riesce a essere allo stesso tempo al passo con i tempi, con i ritmi e con le esigenze delle nuove generazioni, ma a essere anche ben radicato nel mondo che la Disney ha contribuito a creare in più di 70 anni di storia, abbandonando l’eccessiva consapevolezza sarcastica per un approccio alla fiaba più sentimentale, sentito e sincero. Pochi possono permetterselo ancora, e tra questi c’è la Disney, ma Rapunzel è tutt’altro che un’opera fuori dal tempo: frutto di un lungo lavoro di concept e costato peraltro una cifra impressionante (260 milioni di dollari contro i 180 di Up), il film di Greno e Howard, grazie a uno script semplice ma intelligente ma già a partire dai disegni che sintetizzano in modo tecnicamente ambizioso l’estetica 2D con i vantaggi del 3D, riesce a coniugare in modo perfetto l’ingenuità della fiaba con personaggi realmente tridimensionali: se Flynn è un principe imbroglione senz’arte né parte e piuttosto risaputo, la villain Gothel e il camaleonte Pascal sono davvero riuscitissimi – ma è Rapunzel a essere davvero adorabile, così come è una sintesi ideale del metodo di lavoro del film: una principessa moderna e antica, imbranata ma risoluta, modellata sul cliché dell’adolescente contemporanea. E su un’indole di indipendenza dalla costrizioni degli “adulti” che suona forse anche come un segnale di voglia di rinnovamento all’interno della Disney: potrebbe essere davvero, finalmente, l’inizio di una seconda giovinezza.

Tron: Legacy, Joseph Kosinski 2010

Tron: Legacy
di Joseph Kosinski, 2010

Tra tutti i film più o meno mainstream degli anni ’80 diventati poi con il tempo degli oggetti di culto globale per un motivo o per l’altro, Tron è quello che probabilmente mi appartiene di meno. A dir la verità, non sono nemmeno sicuro di averlo visto: se è successo ero davvero molto giovane, perché non ne conservo alcun ricordo. Detto questo, il sequel era un progetto interessante: come aggiornare per i nostri tempi un film di quasi trent’anni fa che pur avendo colto profeticamente alcuni aspetti centrali del cinema sci-fi degli anni a venire viene ora visto soprattutto come un’opera buffamente naif e superata dalla realtà? Il tentativo della Disney, in mano all’esordiente Kosinski, trova alcune intuizioni interessanti proprio nella rivisitazione contemporanea dell’estetica virtuale di quegli anni così lontani abbinata all’interessante soundtrack dei Daft Punk (debitori di Hans Zimmer più che di loro stessi), ma per il resto affoga completamente nella sua seriosità e nell’incapacità di trovare un equilibrio, di qualunque tipo, tra le esigenze spettacolari odierne e l’impianto disneyano, ma anche e soprattutto tra l’asciuttezza delle scenografie virtuali e la pesantezza micidiale della narrazione, costretta a fermarsi a più riprese a spiegare e rispiegare un intreccio inutilmente complesso, senza il coraggio di abbandonarsi davvero fino in fondo al puro divertimento – quello delle scene action, anch’esse peraltro non sempre irresistibili anche se innegabilmente “belle a vedersi”. Insomma, lo stato dell’arte tecnologico (170 milioni di budget) è una noia mortale: era così anche l’originale?

Let me in, Matt Reeves 2010

Let me in
di Matt Reeves, 2010

Uno degli argomenti su cui insisto in modo più ripetitivo e noioso nell’ultimo periodo è l’assenza di intoccabilità delle opere cinematografiche – argomento che si potrebbe estendere ad altre arti, ma lascio che siano altri a discuterne in altre sedi. Ribadisco stancamente: non esistono film che non vanno assolutamente rifatti o ripensati, sia perché la rielaborazione stessa fa parte dell’evoluzione dell’arte nel tempo (ne è anzi uno dei perni più stabili) sia perché tale rielaborazione non intacca in alcun modo le opere precedenti – un remake non si gira certo cancellando le immagini dell’originale – sia, infine, perché nulla esclude che l’allievo possa superare il maestro. Inevitabile parlarne per Let me in: perché il film di Matt Reeves è arrivato a una tale breve distanza dallo stupendo film di Tomas Alfredson e lo richiama spesso in maniera così diretta da risultare una sorta di punto di non ritorno nella pratica del remake americano di un cult movie proveniente dai vecchi continenti – insomma, il materiale perfetto per diventare capro espiatorio nelle mani seguaci di una sacralità ormai superata: non a caso i media anglosassoni non ci sono cascati e hanno gradito moltissimo, mentre da noi (se mai uscirà) verrà probabilmente e ingiustamente disprezzato. Sarebbe bello però parlare di Let Me In come di un’opera a sé, si potrebbe sottolineare con più onestà – e meno banalità tipo “è più/meno bello di” – come Let Me In sia effettivamente uno degli horror americani più inusuali e interessanti degli ultimi tempi: al di là della riproposizione innegabile e spesso pedissequa delle immagini di Alfredson, Reeves fa soprattutto tesoro della sua piccola lezione di cinema, prendendo spunto da quello importandone le suggestioni, lo spirito silenzioso e doloroso, reinventando la location spazio-temporale in modo intelligente e non fine a se stesso (l’inospitale, freddo e inedito New Mexico del 1983), lavorando con una cura inaudita sul sonoro (incluse le musiche del bravissimo Michael Giacchino), per realizzare infine un film autenticamente originale, un horror laterale, straniante, violento e curiosamente romantico. E con uno dei cast più azzeccati che si possano immaginare, data la nota difficoltà di mettere in scena due ragazzini: Kodi Smit-McPhee è un meraviglioso Cillian Murphy in miniatura e con una faccia così non poteva che fare cinema, mentre Chloe Moretz, da tempo una delle favorite di questo blog grazie alla sua prova miracolosa in Kick-Ass, mostra non solo di essere ancora una volta una delle attrici più brave e promettenti in circolazione ma anche una professionista in grado di mettersi alla prova in così breve tempo in due performance così radicalmente, drasticamente differenti senza alcuno sforzo apparente. Niente male, per una che ha compiuto 14 anni da pochi giorni.

Il film è stato comprato per la distribuzione italiana da Filmauro; lo scorso dicembre Aurelio De Laurentiis ha “minacciato” di volerlo distribuire nei primi mesi del 2011 con il titolo incredibilmente stupido di Amami, sono un vampiro. Ma per il momento non è ben chiaro quando e se arriverà nelle nostre sale. Nel frattempo su Play è disponibile in dvd e in blu-ray a pochi euro.

The Green Hornet, Michel Gondry 2011

The Green Hornet
di Michel Gondry, 2011

Quanta gente potrà far incazzare un film come The Green Hornet? Ci sono i fan duri e puri di Bruce Lee e/o della serie originale, che non vogliono saperne che a prendere le redini del film sia un regista “fighetto” come Michel Gondry. Ci sono i fan duri e puri del personaggio, che non vogliono saperne che a raccontare le avventure del Calabrone Verde e di Kato siano quei “fattoni” apatowiani di Seth Rogen e Evan Goldberg. Ci sono i fan duri e puri di Michel Gondry, che non vogliono che il regista di Eternal Sunshine abbandoni l’eterea oniricità e la delicata genialità dei suoi primi film (e dei suoi videoclip) per un film – orrore! – “così hollywoodiano”. A cose fatte, l’informazione è passata di mano in mano, incrociandosi a metà strada: The Green Hornet fa schifo. Se tutti si fossero rilassati un po’ di più, magari avrebbero scoperto che in verità The Green Hornet è un film davvero spassoso e soprattutto ben realizzato, per niente squilibrato tra la sua anima action e quella più “demenziale”; un film enormemente ingenuo se volete (basti pensare a come inizia, sbattendo daddy issues in prima pagina) ma che non gioca sporco e intrattiene da dio – al di sopra delle premesse, considerando che si tratta di un barile scaricato per vent’anni e realizzato quasi per sfinimento. Certo, non è rispettoso degli originali, non è delicato né struggente, non è un film scritto in punta di penna: è un film di puro intrattenimento, con gli inseguimenti e le arti marziali e la gente che spara e i cattivissimi cattivi, in cui il sempre bravissimo ed elasticissimo Gondry si diverte a infilare (e molto più di quanto mi aspettassi) le sue giocose invenzioni visive in una trama normalizzata – ma in cui la vera anima è la terza sceneggiatura di Rogen e Goldberg che, dopo quelle riuscitissime di Superbad e Pineapple express, puntano ancora una volta su un personaggio immediatamente sgradevole e ignorante, intuendo bene il potenziale corrosivo della “antipaticità” del protagonista. Il che significa anche che se Rogen e Goldberg vi danno il nervoso potete starne alla larga: sono loro a dare il tempo al film, anche se la costruzione perfetta – a volte “gondryana”, a volte meno – delle sequenze d’azione vale, come si diceva una volta, il prezzo del biglietto. Se n’è parlato tanto male, invece è un film da recuperare. I fan duri e puri di questo o quest’altro “mito intoccabile e tradito”, va da sé, ne usciranno comunque insoddisfatti.

Ladri di cadaveri – Burke & Hare, John Landis 2010

Ladri di cadaveri – Burke & Hare
di John Landis, 2010

Tra il 1977 e il 1985 John Landis, ai tempi all’incirca trentenne o poco più, ha realizzato un pugno di film amatissimi e che hanno condizionato il cinema americano in modi che intere filmografie di colleghi più fortunati di lui non hanno saputo fare; e a parte opere seminali e imprescindibili come The Blues Brothers e Animal House, o la commedia perfetta e chirurgica di Una Poltrona Per Due, alcuni di quei film erano di fatto autenticamente sperimentali: basti pensare al modo in cui commedia e horror si incontravano in Un lupo mannaro americano a Londra e senza cui forse non avremmo la horcom contemporanea; oppure ai cambi di registro di Tutto in una notte, quasi coeniani ante litteram; al sodalizio epocale con gli ZAZ in Ridere per Ridere che è stata la radice di tutto il cinema demenziale successivo; a quella vetta della storia del videoclip che fu Thriller nel 1983. Il lascito di quegli anni così lontani, a un quarto di secolo da Spie come noi, è ancora enorme e pesantissimo, e nonostante la decadenza implacabile degli anni ’90 e la dozzina d’anni di pausa dall’ultimo lungometraggio, Landis è davvero uno dei cineasti della nostra vita. Si attendeva da tempo un ritorno del regista di Chicago, come già quello di altri suoi colleghi, ma Landis è tornato dietro la macchina da presa in vesti inaspettate e inusuali – una produzione britannica, con cast britannico, per una vicenda profondamente britannica: Burke & Hare è infatti la storia di due assassini irlandesi che negli anni ’20 dell’ottocento uccisero 17 persone in Scozia per poter poi rivendere i corpi a illustri anatomisti. Tra le mani di Landis e degli sceneggiatori, le vicende di Burke e Hare diventano un film allegro e allegramente violento, nerissimo anche se leggero come l’aria, che utilizza al meglio le doti dei due interpreti (Simon Pegg e Andy Serkis) per recuperare il gusto puro della black comedy: tant’è, che il film è realizzato con uno stile e uno spirito narrativo e produttivo drasticamente fuori dal tempo. Ma non sempre dire di un film che è “vecchio” significa un insulto, non fino in fondo- soprattutto quando sotto alla polvere che si alza soffiando sulle pagine appare ben in rilievo la mano sicura di un grande professionista. Il cui talento, scopriamo con malcelata gioia, non è stato del tutto smorzato dall’inattività. Certo, ogni risveglio dal coma necessita una proporzionale convalescenza: insomma, c’è ancora tanto da lavorare. Ma come primo passo, beh, non c’è male. Bentornato, allora? Bentornato, allora.

Il Grinta, Joel & Ethan Coen 2010

Il Grinta (True Grit)
di Joel & Ethan Coen 2010

Tra i molti elementi che compongono l’ineffabile filmografia dei fratelli Coen e che hanno contribuito a renderla tale, il rapporto con il passato e con la Storia del Cinema (soprattutto americano) è senz’altro uno dei più discussi, ma anche uno dei più complessi: la verità è che i fratelli Coen sono tra i pochi cineasti a proporre un cinema cinefilo ma che non si nasconde tra le pieghe del citazionismo blando, dell’ammiccamento ironico e irrisorio. Per loro il cinema è una cosa seria, e allo stesso modo il loro continuo rimaneggiare la tradizione dei generi e dei classici vuole essere non il malinconico ricordo di un mondo decaduto ma il segnale della sopravvivenza della tradizione stessa: il loro Grinta (pur essendo ufficialmente tratto dal libro originale) è un film che dialoga senza dubbio con il film di cui è il rifacimento, e con il western in generale, se vogliamo con quello già più crepuscolare di quegli anni, ma che non vuole e non può vivere alla sua ombra, che deve anzi sostenersi con la dignità dei classici. In tal senso se Il Grinta è forse uno dei film meno sorprendenti e frastornanti tra gli ultimi titoli della loro filmografia, è anche uno dei più trascinanti e persino commoventi, che concede meno spazio allo scherzo (Cogburn che prende a calci gli indiani) o alla trovata surreale (il dentista con la pelle d’orso) per concentrarsi sulla compattezza del racconto e sul disegno preciso e immediato di tutti i personaggi. Scritto con una sicurezza e un grande talento nel giocare con i ricorsi e i rimandi, affiancando quindi all’orizzontalità del western un gioco d’autore che si incarna nella struttura a flashback e nel rimbalzo iconografico tra l’incipit e la chiusa, il loro film è tra le altre cose (ma in cima a esse) di una bellezza visiva tanto semplice quanto accecante: l’immagine iniziale del portico notturno quella finale nel cimitero, entrambe non a caso caratterizzate dalla presenza ineliminabile dell’implacabilità della morte (tempus fugit, a proposito di topoi coeniani) fanno da cornice all’incredibile lavoro del direttore della fotografia Roger Deakins, che sia in piena luce o in una notturna cavalcata iperrealista – suo ennesimo capolavoro ed ennesima volta che l’Academy non sembra accorgersene. L’interpretazione di Bridges e, soprattutto, della giovanissima stupefacente Hailee Steinfeld, che si prende sulle spalle non solo tutto il minutaggio del film ma l’intero suo punto di vista, l’obiettivo insieme spietato e impaurito attraverso cui i Coen ci portano a vedere il mondo di Cogburn e Chaney, non sono che il fiocco superbo su un altro regalo che i due registi hanno fatto al Cinema e, per estensione, anche a noi spettatori.

Ieri ho chiesto su Twitter di scrivermi con una reply un singolo tweet su questo film. Ognuno ha risposto a modo suo: è stato molto divertente leggerli tutti. Ne ho scelti dieci.

“Un prologo di meno e un epilogo in più per un west e una religione di violenza e morte. I Coen sparano tenendo le briglie in bocca” (gniola)

“Tanto bello quanto snobbato agli oscar. Almeno Deakins meritava la statuetta per la splendida fotografia.” (zonix88)

“Un film impetuoso ed emozionante. Non manca nulla: storia, attori, dialoghi… cavalcate nella notte. Hailee sorprendente, Jeff immenso.” (neodie)

“Lo sguardo di Jeff Bridges quando arriva l’indiano a cavallo vale da solo il prezzo del biglietto e la Steinfeld è la nuova Portman.” (lennyfuckinnero)

“il grinta è splendido. Fotografia e narrazione al top. Attori da cult movie.Però lascia un senso di vuoto,di non aver niente da dire” (EgonSadaiel)

“Mi viene solo da dire che ironia, rabbia, violenza e poesia coesistono alla perfezione! Ma d’altronde sono i Coen… Nulla di nuovo!” (paolinob)

“Matt Damon non faceva sangue da 15 anni. Grazie fratelli Coen.” (atta)

“Un film di Grazia spietata.” (mmcasetti)

“Un gangster movie con le frange.” (TobWaylan)

“Western. Jeff Bridges. Fratelli Coen. Serve altro?” (momodarabia)

Megamind, Tom McGrath 2010

Megamind
di Tom McGrath, 2010

La fama di mezze seghe che quelli della DreamWorks Animation si sono fatti nel corso degli anni sembra andare sempre più inesorabilmente a loro vantaggio. Prendiamo ad esempio Megamind, un film che dalle prime battute era stato già bollato come uno dei prodotti dal peggior potenziale della casa, vuoi perché diretto dallo stesso regista dei mefitici Madagascar, vuoi perché in ritardo di una manciata di anni sugli Incredibili, vuoi perché puntare tutto sulle “voci famose” è un procedimento che ha fatto il suo tempo – tanto che persino alla DW se ne sono accorti, confezionando così il loro primo vero Bellissimo Film, How To Train Your Dragon. Ecco, in definitiva, tutto sommato, Megamind non è poi così male: se pure non ha il vantaggio competitivo dei minions, i cazzilli gialli che rubano la scena a tutti nel cugino minore Cattivissimo Me, quello di McGrath è un film d’animazione sufficientemente riusciuto – nonostante sia famigliare, sciocco, risaputo, estremamente derivativo (le ottime idee non sono poche ma spesso non sono che ottime rielaborazioni di idee già viste altrove) e pieno di faccette ammiccanti come al solito. Ma è anche innegabilmente divertente, pur essendo probabilmente il film d’animazione meno necessario di sempre. Sempre meglio questo che un altro Shrek.

It’s Kind of a Funny Story, Anna Boden e Ryan Fleck 2010

It’s Kind of a Funny Story
di Anna Boden e Ryan Fleck, 2010

“Do you like music?”
“Do you like breathing?”

Spesso se un film mi piace mi metto giù quei cinque minuti e mi spiego perché mi piace. A volte un film mi piace e basta. Lo riconosco, It’s kind of a funny story è un film quasi programmaticamente ruffiano, persino un po’ paraculo se lo si mette a confronto con Half Nelson di Boden e Fleck, ed è un film che non sceglie certo la via più tortuosa per parlare della malattia, della terapia, della cura: così come le sue soluzioni narrative non puntano certo a stravolgere alcun punto di vista. Ma forse perché non trovo personalmente nulla di sbagliato nell’affontare una storia o un tema con un po’ di propositività, in barba a quel modo diffuso e un po’ distorto di guardare ai film che premia solo e soltanto chi “fa vincere i cattivi” e disprezza a prescindere la pratica dell’happy end, It’s kind of a funny story è un film che mi ha totalmente, indistricabilmente incastrato. La verità è che Boden e Fleck hanno realizzato poco più che un’opera armoniosa e gradevole, ma che compie il mezzo miracolo di chiudersi dentro un reparto psichiatrico per un’ora e mezza senza risultare patetico nemmeno per un minuto, dando magari al bravo Keir Gilchrist un ruolo ruvido e difficile da amare (troppo intelligente, troppo furbo, troppo sensibile) ma azzeccando completamente quello che è, per sua definizione, uno dei casting secondari impossibili per eccellenza: appunto, il reparto psichiatrico. In particolare la sorprendente Emma Roberts, la cui bellezza non deve trarre in inganno sulla sua bravura (la ragazza ha un futuro che va ben oltre i meriti del suo DNA) e Zach Galifianakis, usato finalmente in modo brillante e originale – ovvero sottolineando l’espressività geniale della sua fase calante e non solo del suo lato più rabbioso e incontrollabile, giocando tutto sulla sottrazione invece che sull’accumulo: un rischio visto il contesto, certo, ma del tutto premiato da risultati. Il film è poi realizzato con una grazia ineccepibile, anche nella messa in scena, anche se alla fine a conquistare è soprattutto l’affetto e l’empatia davvero contagiosa nei confronti dei suoi personaggi, e non solo quando esprimono timori o paure. Chiude il cerchio la musica, sempre fondamentale per Boden e Fleck, che ritrovano ancora una volta i Broken Social Scene nel ruolo di curatori della colonna sonora – tra cui spicca la versione per solo piano di Where Is My Mind dei Pixies realizzata da Maxence Cyrin: assolutamente omicida.

Insomma, un film che mi piace e basta.

Il film è uscito negli USA lo scorso ottobre. Non ha ancora una data d’uscita italiana.

Nel frattempo è uscito in dvd Regione 1.