Taiwan

Reign of Assassins, Su Chao-Bin e John Woo 2010

Reign of Assassins (Jianyu)
di
Su Chao-Bin e John Woo, 2010

È facile entusiasmarsi all’idea che John Woo abbia diretto finalmente un wuxiapian a quasi un quarto di secolo dalla rivoluzione neo-noir di A Better Tomorrow, soprattutto dopo Red Cliff, prima di cui si tendeva più che altro a dare per spacciata la carriera di uno dei più grandi e importanti registi dell’area cinese. In realtà la vicenda è andata in modo diverso: il film è effettivamente stato scritto e diretto dal taiwanese Su Chao-Bin, ma la consulenza del Maestro sul set è stata tale e talmente continuativa da convincere la produzione ad apporre anche il suo sigillo accanto a quello del regista. L’altra interpretazione è che la mossa sia stata effettuata per vendere meglio il film all’estero: e non c’è dubbio che abbia funzionato, visto la proiezione del film a Venezia e lo stesso incipit di questo post.

Se non sorprende che Woo si sia interessato a un film in cui le marce narrative sono ingranate da personaggi che si rifanno i connotati con tale leggerezza, rimandando immediatamente i fan ai fasti di Face-Off, tolta questa curiosa considerazione autoriflessiva (e magari l’uso delle dissolvenze incrociate, per i più nostalgici) Reign of Assassins è un wuxia davvero divertente e appassionante che riesce a vivere benissimo al di là del marchio apposto o della distinzione di meriti tra il veterano autore e l’allievo alla sua opera terza. Un film che riesce a unire con sapienza sequenze d’azione assolutamente spettacolari ed esaltanti (più per gli amanti del “cavo” che per quelli delle arti marziali “pesanti”) a un racconto che gioca molto sull’ironia e sul romanticismo ma senza buttarla mai nella farsa né sbracandosi nel melò, riuscendo grazie al carisma del cast a costruire anche dei personaggi credibili al di là dell’incredibilità del racconto – in particolare Turqoise, l’assassina ninfomane intepretata dalla stupenda Barbie Hsu, diventata immediatamente uno dei miei personaggi preferiti del cinema di quest’anno.

Da qualche parte se ne dice male, da altre parti si legge che Reign of Assassins sarebbe “il miglior wuxia dai tempi de La Tigre e il Dragone“. Il netto sospetto, ovviamente, è che chi lo scrive non abbia visto altri film di questo genere in questi 10 anni, e io stesso non credo di averne visti abbastanza per giungere a una conclusione così radicale, ma senza dubbio il film di Su e Woo è un’opera valida, che non aggiunge niente alla storia del genere (a parte il movente del villain, che si scopre verso la fine del film, che mi ha sorpreso molto, e che se ve lo raccontassi in due parole rischierebbe di passare per la cazzata del secolo) ma che si inserisce con dignità e con freschezza in uno dei filoni più leggendari del cinema cinese e hongkonghese, senza sfigurare.

Fate molta attenzione ai (bellissimi) titoli di testa animati: raccontano più di quanto non sembri.

L’edizione dvd hongkonghese del film è già in commercio: purtroppo è Regione 3, ma sono sicuro che siete perfettamente in grado di dezonare il vostro lettore.

Su Yesasia trovate anche il blu-ray Regione A.

Non mi risulta prevista un’uscita italiana. Chi sa, parli.

Lussuria (Lust, caution) (Se, jie)
di Ang Lee, 2007

Uno dei film più chiacchierati dell’anno passato, per motivi parzialmente legittimi – un Leone d’Oro forse un po’ azzardato – o meno, appunto, lo è stato soprattutto per le performance erotiche dei due protagonisti, tra cui la sensualissima ventottenne esordiente Tai Weng di cui siamo biblicamente innamorati, che hanno ben poco di simulato: le "scene di sesso" che li vedono protagonisti sono effettivamente clamorose, almeno per un film destinato – pur se "marchiato" NC-17 – a una distribuzione "wide" e quindi mainstream. Ma quello che si dimentica è che Ang Lee non è propriamente un provocatore: è prima di tutto un cineasta, e un cineasta intelligente.

Lussuria è infatti un film basato su questa continua tensione tra la seduzione e la copula, tra la potenza e l’atto, in cui questi pochi minuti di coito sono funzionali a una sorta di furibondo sfogo nei confronti di una regia che è volutamente e progettualmente "rigida", diciamo pure erettiva. Lo mostra benissimo già la splendida sequenza iniziale: una partita di Mahjongg che viene rappresentata con una impressionante cura del dettaglio in ogni singolo movimento di macchina o taglio di inquadratura. E il messaggio che passa è proprio questo, da questa sorta di ineluttabile coercizione visiva: questo film non ha assolutamente alcuna via di fuga.

Così come non ne hanno i protagonisti della vicenda, tratta da un libro di Eileen Chang, divisi tra l’impossibilità di rispondere al desiderio, tra il sospetto e la colpa, tra la redenzione e la sua assenza, in un film che sembra una sorta di remake di Notorius (anche se un poster che appare nel film dice Suspicion), dove Cary Grant è un giovane ribelle dalla cecità eunucoide e Claude Rains ha le fattezze spietate – ma a cui vengono regalati inattesi lampi di empatia – di Tony Leung, secondario ma sempre immenso per la sua indescrivibile capacità di recitare con tutto il volto e con tutto il corpo. Pure quando è vestito, si intende..

Davvero un bel film, comunque. E lo dico facendola suonare come un’evidenza. La questione che sia o meno un film "cinese" solo perché ambientato in Cina e perché parlano cinese non sembra porsi: non lo è, né dal punto di vista produttivo né da quello linguistico. Ma Ang Lee è riuscito a riunire due mondi distanti, con scaltrezza ma anche con onore, come pochi altri sono riusciti negli ultimi tempi. Confezionando un filmone, classico e piuttosto risaputo, ma realmente solidissimo, e di fronte al cui disperato pessimismo – già rivelato in altri suoi film precedenti – è difficile rimanere indifferenti.

Le voyage du ballon rouge
di Hou Hsiao-hsien, 2007
[Cannes a Milano 2007]

Prima di tutto, un’onesta ammissione: non ho mai visto un film intero di Hou Hsiao-hsien. E ne ho pure avuto spesso la possibilità. Tra le altre cose, sono stato portato fuori strada dalla bruttezza di una copia VHS mai terminata di Città dolente, dalla difficoltà di reperire una versione integrale di Millenium Mambo, e via dicendo. il regista taiwanese (a differenza del suo quasi-allievo Tsai Ming-liang) è sempre stato per me un autore conosciuto solo sulla carta, sugli altrui commenti entusiasti, su spizzichi e bocconi di un cinema che avrei potuto amare. Ma la vita è lunga.

Detto questo, in questo suo primo film europeo, Hou racconta una storia che è davvero "di tutti i giorni", riprendendo e riproducendo il quotidiano con una leggerezza – pari a quella del palloncino del titolo – che non può non lasciare affascinati. Come il fatto che pur non succedendo praticamente "niente", in senso canonico – l’interesse di Hou è infatti programmaticamente focalizzato sull’inessenziale, su quello che generalmente rimane fuori dall’inquadratura e quindi dal tempo della visione – Le voyage du ballon rouge riesce a restituire, a piccoli tratti – nella tenerezza di uno sguardo, in una paura, in un ricordo, in una malinconia – dimensioni inspiegabilmente universali. Anche con l’aiuto di una fotografia stupenda (ovviamente zeppa di piani-sequenza) che dà una vera lezione di come si illuminano e come si riprendono i volti umani, come l’espressività quieta e dolcissima di Sang Fong).

Non mi sono strappato i capelli, perché la referenzialità cinefila ("Il palloncino rosso" di Albert Lamorisse) è in questo caso quasi stridente, perché la popputa Binoche è bravissima – davvero, roba da inchini - ma troppo innamorata di se stessa, e – questione del tutto personale – per lo strafogamento di marionette. Ma come ci sia riuscito, a fare tutto il resto, me lo sto ancora chiedendo.

Vive l’amour (Aiqing wansui)
di Tsai Ming-liang, 1994

Il film che, portandosi a casa il Leone d’oro a Venezia nel 1994, fece conoscere a tutto il mondo il cinema di Tsai Ming-liang, regista malese trapiantato a Taiwan, è a tutt’oggi una delle sue opere più famose, e forse la più amata dai suoi fan.

Fa un certo effetto vederlo solo adesso, a 12 anni di distanza, perché pur avendo – classico luogo comune autoriale – al suo interno già tutto lo straordinario cinema prodotto successivamente da Tsai, Vive l’amour è disperatamente bello anche senza la ricorrenza alle visioni apocalittiche di The hole o alle provocazioni porno di Il gusto dell’anguria. Anzi, quello che colpisce ancora oggi di questo film è la sua leggerezza, la sua anima di commedia con quel triangolo amoroso, quasi da pochade, che si tramuta, attraverso i silenzi dei suoi protagonisti opposti al rumore vociante della città triste, in un ritratto tragico commovente e rassegnato dell’impossibilità di comunicare l’indecifrabilità dei sentimenti. Se non attraverso i propri corpi, svuotati di senso, oppure – già qui, anche se non sono rappresentati, ma solo visti e immaginati attraverso le reti di un letto sotto cui ti nascondi – attraverso i propri sogni.

E non mi sorprende che il finale di Vive l’amour sia così famoso. Dopo aver camminato intorno al parco, tenendosi dentro quelle lacrime che per tutto il film erano sottratte dai gesti silenziosi, o da una mosca, o dalle parole sempre forzate, Yang Kuei-mei si siede su una panchina e piange, poi smette, poi ricomincia, poi smette, poi. Sì, anche noi.

[FEFF8]
The Heirloom,

Leste CHEN, 2005,
Horror Day, Italian Premiere

Facciamo così, lo dico subito che The heirloom è molto "bello da vedere", raffinato, curato, fotografato meravigliosamente, così mi metto il cuore in pace. Perché il resto non è che sia proprio una sagra di felicità. A parte l’idea piuttosto inquietante del plot, quella di una famiglia che ottiene potere svezzando fantasmini (cioè nutrendo con il proprio sangue cadaveri di bambini morti: ma ditemi voi), ogni minuto del film è più pesante del precedente, fino ad un prefinale pachidermico dove, per guadagnare minutaggio, Chen reitera fastidiosamente alcune scene già viste in precedenza. Cast privo di personalità, nonostante la figaggine di Terry Kwan. Unico taiwanese al FEFF: ma se ne poteva fare anche a meno. Forse è colpa dell’errore davvero inetto di spiegare tutto a metà film, ma arrivare alla fine senza mangiare le mosche in sala è dura. E non è stupore.

Il gusto dell’anguria (The wayward cloud) (Tian bian yi duo yun)
di Tsai Ming-liang, 2005

I due personaggi di Che ora è laggiù si incontrano di nuovo, per caso ("non vendi più orologi?" è l’unica linea di dialogo tra i due), in una Taipei deserta e apocalittica, seccata dalla siccità, dove ognuno campa come può, chi rubando bottiglie e angurie, chi facendo film porno in uno squallido appartamento. Lo schema compositivo è quello di The hole: la grigia e immobile realtà, caratterizzata dai ritmi dilatati e dai piani fissi per cui Tsai è noto, è spezzata da numeri musical coloratissimi e qui davvero assurdi, che riflettono i sentimenti del personaggi, inesprimibili per definizione. A far da tramite, un frutto che diviene simbolo ora di sensualità, ora di fertilità.

E’ davvero bellissimo The wayward cloud. E’ ancora un film sulla solitudine e sull’incomunicabilità, ed è ancora una conferma di un talento compositivo impressionante, capace come pochi di lavorare – come si dice spesso – sui "corpi nello spazio", e di costruire inquadrature che, pur rimanendo immobili, si sviluppano in profondità (sui lati lunghi del parallelepipedo, siamo portati a pensare). A ciò si aggiunge una non inedita ma qui esplicitata voglia di giocare con il proprio cinema, ironicamente e autoironicamente, abbandonandosi spesso a un "divertimento" – tra virgolette – che esce persino dai confini di quegli irresistibili sogni-musicarello ("il tappo è rimasto nella giapponese").

Qui si pone il problema: lo Tsai dell’interminabile inquadratura muta dell’incontro sull’altalena o lo Tsai che canta quest’amore ritrovato con quattro ballerine e fiorelloni colorati alti due metri? Lo Tsai della scena di sesso negato tra gli scaffali del videoclub o lo Tsai del balletto – splendido – con imbuti, sturacessi e un glande per cappello? La risposta dei distributori (italiani?) è: solo il secondo, visto che il trailer non mostra altro che balletti e amenità, ingannando gli spettatori che, se impreparati, rimarranno delusi. La mia risposta è: perché non entrambi? La musica (e il musical, nella migliore tradizione della fantasmagoria) in The wayward cloud è una sublimazione malinconica, e al di là del colore e dell’allegria (anche scemotta, come il numero musicale sull’appuntamento mancato) non cancella né concilia ciò che nella realtà accade, tra gli individui.

Comunque, quando si tratta di far le cose sul serio, Tsai non guarda in faccia nessuno, e così The wayward cloud è anche caratterizzato dalla componente quasi pornografica di cui tutti parlarono dopo Berlino, che impressiona per quanto si spinge oltre, e che i protagonisti hanno affrontato con ammirevole coraggio. Tsai ha il talento di tenerla in un equilibrio stabilissimo tra squallore, romanticismo e attesa, difficilmente raggiungibile. Peccato che verso la fine il "ritmo" si spezzi con una lunghissima sequenza, coraggiosa ma insostenibilmente prolungata, ma ciò non diminuisce il fascino di un film che, non lo nascond(iam)o, mi/ci è piaciuto da impazzire.

Ma il finale è di quelli che non si dimenticano, perché proprio al sesso, all’organo sessuale, allo sperma, è affidato il compito di riunire due solitidini, capaci fino ad allora solo di guardarsi e di desiderarsi da una parte all’altra di un muro. Come da una parte all’altra del mondo, d’altronde, o di un buco nel pavimento.

Più grevemente: l’incipit fruttofilo è immediatamente da antologia del cinema erotico.

20 30 40 – L’età delle donne (20:30:40)
di Sylvia Chang, 2004

20 30 40 è la storia di tre donne e delle loro tre età (quelle del titolo), che sono gli anni dei sogni infranti e dei primi amori, gli anni della ricerca di una stabilità, gli anni della disillusione e, volendo, della rinascita. Tre storie (scritte dalle stesse tre protagoniste) che vogliono essere particolari e non universali, ma che ricercano anche e in primo luogo un’immedesimazione e un’empatia.

Con un senso dell’humor particolarissimo (il "lui" che per attirare l’attenzione di "lei" le spacca il parabrezza e le lancia addosso una secchiata d’acqua) e con una leggerezza (grazie soprattutto alle tre splendide protagoniste, tra cui la stessa regista) inaspettata per chi abbina il cinema taiwanese a Tsai o a Hou (ma questa è una coproduzione con HK e Giappone), la Chang costruisce un film sincero e affettuoso, realista e impietoso nel mostrare i dilemmi dell’essere donna (come la paura della vecchiaia e della solitudine) ma aperto alla speranza e al sogno.

Magari non troppo originale nei temi e nello sviluppo, ma con una struttura più che solida: a partire da un fatto traumatico e "cittadino" che fa partire le loro storie, le tre donne sono destinate a non incontrarsi mai. Solo ad incrociarsi: e la Chang gioca con abilità e astuzia con la casualità della vita fin dai titoli di testa, e segue con grande partecipazione i movimenti dei personaggi in una Taipei moderna e anglofona, in cui la via di fuga può essere la semplice solidarietà femminile.

Il risultato è che è davvero difficile non affezionarsi, almeno durante la visione. E non commuoversi, come per la scoperta dell’amore nel luogo più ovvio (un addio e un bacio in un aeroporto: lo ammetto, ho banalmente pianto) o in quello più insolito: un sorriso di stupore, in un cimitero.