Thailandia

Lo zio Boonme che si ricorda le vite precedenti, Apichatpong Weerasethakul 2010

Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti (Loong Boonmee raleuk chat)
di Apichatpong Weerasethakul, 2010

Un uomo gravemente malato, una casa isolata, i giorni che lo accompagnano alla morte. Il fantasma di una moglie che appare all’improvviso, così come un figlio tramutato in un essere soprannaturale. Il viaggio in una grotta ancestrale. Intorno, la natura, gli animali, le piante. Le vite precedenti. Una principessa vittima di un’incantesimo che ribalta il mito di Narciso, un bufalo che si libera dei suoi padroni. Me ne sono reso conto subito: non è mica facile raccontare Lo zio Boonmee.

Il problema (e insieme il vantaggio) di Weerasethakul è che non ci sono vie di mezzo, non ci sono compromessi: allo spettatore è richiesto il massimo dello sforzo, un’attenzione estrema, ma non tanto per cogliere dettagli che possono sfuggire (come spesso accade) quanto per concentrarsi sopra ciò su cui il film insiste. Un lavoro “faticoso” di mutuo soccorso tra lo schermo e la sala a cui forse non siamo abituati, ma che ripaga con una favola misteriosa e sfibrante sul cammino verso la morte che, per ammissione di Weerasethakul, ambisce a risuonare come un malinconico canto del cigno di un cinema destinato a morire.

Ma di cosa parla davvero Lo zio Boonmee? È davvero, come suggerisce il titolo (e il regista stesso), un film sulla mutazione continua degli elementi della natura in una concezione del “ciclo della vita” per noi piuttosto inedita? Questo sarebbe pure l’aspetto più intellegibile di Boonmee, che tende spesso a sfuggirci tra le dita, a volte con buon gusto altre volte (la sequenza fotografica, per esempio) snervando la nostra comprensione e costringendoci a rifiugiarci nelle cartelle stampa. Ma se il gioco simbolista funziona fino in fondo, proprio perché ci permette di danzare in libertà tra le dimensioni lasciando da parte gli orpelli e gli artifici del cinema di finzione, Boonmee forse non è tutto all’altezza dei suoi momenti migliori: Weerasethakul ha una grande capacità di rivestire la natura di inquietudini allo stesso tempo opprimenti e liberatorie ma a volte dà la sensazione di potersi concedere qualche lusso di troppo in nome di una missione di cui si sente investito. Ciò nonostante, Boonmee è un viaggio fascinoso, a suo modo ironico, a tratti bellissimo, indubbiamente unico.

Quella del finale è una provocazione che sembrerebbe gratuita, quasi come uno schiaffo definitivo allo spettatore che fino ad allora poteva essersi raccapezzato tra le piccole follie del film: ma in fondo, con il suo girovagare tra il passato e il presente, tra la memoria della propria vita e delle “vite precedenti”, non è anche un film sul viaggio nel tempo? Sui generis. Forse era il modo ideale per chiuderlo: un paradosso sulla fragilità dei confini di ciò che siamo.

Ong Bak 2, Tony Jaa 2008

Ong bak 2
di Tony Jaa, 2008

Attendevamo con una certa apprensione Ong bak 2, non-sequel del film con Tony Jaa che nel 2003, pur con tutte le sue ingenuità, rappresentò uno dei momenti più interessanti del cinema di arti marziali di quel periodo – impressione confermata dal successivo The Protector, sempre diretto da Prachya Pinkaew. Quest’ultimo è poi andato a girare l’ottimo Chocolate, mentre Jaa, adiuvato dallo stunt coordinator Panna Rittikrai (qui sceneggiatore), ha deciso di sviluppare un progetto molto più ambizioso: realizzare quello che non è solo il suo esordio alla regia, ma un film che significhi il salto di qualità per tutto il genere – e quindi anche per l’industria dell’intrattenimento thailandese e per il suo mercato.

Come sia andata a finire, i più attenti lo sanno: Tony Jaa ha dato letteralmente di matto, rendendo le riprese impossibili alla crew (imparando dai maestri), e fuggendo infine nella giungla a piangere per settimane, rischiando di mandare tutto a puttane – prima di tutto per motivi economici, nonostante il budget fosse senza precedenti per i canoni thailandesi, ma anche artistici e psicologici. Ecco perché quando Ong bak 2 ha cominciato ad apparire sugli schermi, ci si credeva a fatica. Che esistesse davvero, dico, Ong bak 2. Ma questo è un riassuntino for dummies: la buona notizia è che, nonostante tutti i casini combinati da Jaa durante la produzione, l’attore-atleta-regista è riuscito perfettamente nel suo intento.

Ong bak 2 è infatti il film che, in assenza di una concorrenza valida o almeno, quantomeno, rilevante – eleva finalmente il contesto thailandese allo state-of-the-art del cinema di arti marziali nel cinema di oggi. E non più solo per motivi meramente acrobatici: questo aspetto, proprio quello che aveva reso così celebri i precedenti film con Jaa viene infatti messo in secondo piano (e la cosa, suppongo, troverà del malcontento) e relegato, se così si può dire, all’ultimo, spettacolare, segmento del film. I combattimenti ci sono, senz’altro: ma sono meno di quello che ci si poteva aspettare, nonché diversi (più tecnici, diciamo pure più specialistici, più legati alla narrazione, meno insistiti che in passato).

Quello che sorprende è tutto il resto. C’è, sì, ancora una vicenda vagamente pretestuale che fa perno su elementi tragico-edipici vecchiotti (ma che ci frega, in fondo: questo è cinema di corpi che danzano, il resto è fuffa ed è giusto che lo sia), ma tutto intorno, tra un combattimento e l’altro, c’è molto altro – c’è una statura tecnica inaspettata, e dei production value che sono (finalmente!) all’altezza del cinema internazionale. Ottima fotografia, scenografie curatissime, bellissimi costumi, musiche perfette, un film che è bello da vedere, che è finalmente degno di accompagnare quello che Jaa riesce a fare con il proprio corpo – e, poveri loro, con i corpi di tutti quelli che provano inutilmente a rompergli il culo.

E una grande (o almeno, relativamente grande) libertà espressiva -  chi si sarebbe potuto aspettare una sequenza di balletto così lunga, peraltro per nulla pretestuale, a metà pellicola? – che aumenta l’aura di bizzarria che già circondava uno dei progetti più assurdi ed esaltanti del cinema asiatico recente. E che, miracolo!, "ci siamo portati a casa" senza fare troppi danni. Anzi.

Cult immediato il combattimento con una sorta di demone femmina sul dorso di un elefante, anche per come interrompe per qualche minuto la tenuta "realistica" del film provocando un improvviso ed esaltante corto circuito con il cinema horror – che potrebbe, chissà, avere qualche riscontro nel sequel. Perché sì, vi avverto, ci sarà un sequel. E il finale di questo vi farà incazzare come delle bestie.

La maggior parte delle cose che ho scritto, e di quelle che avrei potuto scrivere, le ha già espresse – seppur con un pizzico di entusiasmo di troppo, a parer mio – anche Nanni Cobretti su I 400 Calci. Andate a leggervelo.

Chocolate, Prachya Pinkaew 2008

Chocolate
di Prachya Pinkaew, 2008

Dopo essere diventato un guru del cinema di arti marziali grazie ai due film di enorme successo interpretati dall’incredibile Tony Jaa (Ong-Bak e The protector, usciti anche da noi) l’ex architetto, scenografo e produttore thailandese Prachya Pinkaew con il suo terzo film non cambia di certo rotta: anche Chocolate è un film di arti marziali lievissimo e spettacolare, un’altra storia di vendetta e riscatto contro i soprusi di criminali senza scrupoli.

Quello che cambia, prima di tutto, è l’assenza di Tony Jaa, pronto a debuttare a breve come regista con il sequel di Ong-Bak (ne vedremo delle belle). Ma la protagonista di Chocolate, l’irresistibile Yanin "Jeeja" Vismistananda, classe 1984, non è molto da meno: mingherlina campionessa di taekwondo, convince completamente, con una prova atletica ambiziosa e faticosissima (si vedano i soliti impressionanti titoli di coda), ma assolutamente esaltante. Se l’ingenuità coraggiosa e spavalda di Jaa si trasforma in una forma di autismo, narrativamente più scontata e insieme più rischiosa, la tenerezza ispirata dal suo faccino lascia presto il posto al tifo più sfrenato. E nella sequenza in cui Jejaa – che ha imparato le arti marziali proprio guardando Ong-bak - incontra l’altro ragazzo disturbato, che combatte con uno stile a lei (e a noi) sconosciuto, Pinkaew riesce persino a "superare", con autoironia (e autocritica?) il dilagante "modello Jaa".

C’è un’interesse maggiore di Pinkaew per la storia e per lo sviluppo dei suoi personaggi: è evidente già dal fatto che le sequenze d’azione vengano rimandate così tanto, in favore di una lunga prima parte introduttiva e anche, in un certo senso, che lo script sia stato stato affidato a terzi, con una quantità di pieghe melodrammatiche che cercano di andare oltre agli elefanti morti di The protector. Ma tutto viene in secondo piano di fronte a sequenze d’azione che – come al solito – lasciano senza fiato: l’alchimia delle due parti arriva a tanto così da fare di Chocolate il miglior film thailandese di genere mai visto finora. E se The protector aveva "quel famoso piano sequenza delle scale", Chocolate ha un combattimento finale davvero senza precedenti, che merita già un posto nelle antologie del genere: una vera e propria "verticalizzazione" dello scontro, che butta alle ortiche per 10 minuti il modello del picchiaduro contemporaneo mettendo in scena una sorta di live action platform che si rifà all’antico modello di Donkey Kong – oppure, se preferite, a Snakes and ladders.

Non si pretenda quindi un capolavoro di scrittura, e nemmeno – per dire – una profondità che vada al di là di ciò che qualcuno potrebbe definire pretesto: il cinema di Pinkaew è effettivamente un cinema di corpi danzanti che riempiono lo schermo con i loro balletti di calci e di lividi. Ed è così, che il suo cinema ci piace da matti.

Visto il successo e la notorietà dei film precedenti del regista, non escluderei un’uscita italiana. Nel frattempo, l’edizione thailandese del DVD (è in circolazione da un mesetto, e si può comprare qui. Non avendo mai avuto tra le mani un DVD thailandese non garantisco nulla: ma costa davvero pochi euro, e si legge in tutte le regioni.

The protector (Tom Yum Goong)
di Prachya Pinkaew, 2005

Spiace dover aspettare a parlare del film per mettere chiarezza sul trattamento che al film stesso è stato riservato, ma è necessario: Tom Yum Goong ha subito grossi tagli "autorizzati" per la distribuzione internazionale (la versione "europea", curata da Pinkaew, è più breve e meno violenta), ma quello compiuto dalla Weinstein Company per l’uscita negli USA è un vero e proprio stupro che ha accorciato il film di mezz’ora, modificandolo profondamente nelle sue linee artistiche, narrative, e persino morali: potete leggerne accuratamente qui.

Al momento, non mi è dato sapere quale sia la versione distribuita in Italia ma, da alcune voci giuntemi dalle sale, è fortissimo il sospetto che sia proprio l’orrida versione americana. Bisogna tenere quindi conto che vedere The Protector può essere un’esperienza molto diversa a seconda della versione che ci si trova tra le mani. Indispensabile, da parte mia, recuperare quella originale (lunga 108 minuti e parlata sia in inglese che in thailandese), e di quella parlerò.

Detto questo, il film. Chiunque abbia visto Ong-bak (il film precedente di Pinkaew) sa cosa aspettarsi, approssimativamente: ovvero, un film scritto sul corpo sovrannaturalmente atletico di Tony Jaa, intorno a cui il resto appare come un mero pretesto, e nemmeno dei migliori. Ma – oltre al fatto che basti Jaa a tenere in piedi il film, e lo fa, il che non è affatto poco – la regia di Pinkaew, oltre a essere tecnicamente su un altro livello, è innegabilmente molto più consapevole che nel film precedente, sfrutta ogni movimento di Jaa a suo vantaggio, continuando a rifiutare i "trucchi" del montaggio e mettendoci pure dentro (forse inconsapevolmente, ma l’impressionante e ormai notissimo piano-sequenza sulle scale fa pensare esattamente il contrario) una riflessione autogenerante sullo stesso modo di rappresentazione della lotta.

Non si arriva comunque a cose come una trama vera (c’è più una concentrazione sui moventi che non una decorosa consequenzialità), un ritratto completo dei personaggi coinvolti (anche se il villain transessuale è davvero un colpaccio, e forse meritava più spazio), un controllo totale dell’operazione che prescinda dai balletti di Jaa (ne è dimostrazione l’imbarazzante sequenza onirica animata in un preistoricissimo 3D), e The protector è pur sempre un film in cui un tizio spezza le braccia a tutti i 100 tizi che lo assalgono uno alla volta perché gli impediscono di piangere il suo elefante morto.

Ma di roba così, in giro, ce n’è sempre meno: The protector è un film dove fai sanamente il tifo per il protagonista, e ti sbracci e urli verso lo schermo sperando che li atterri uno per uno, fino alla risoluzione finale. Ed è quasi tutto merito di Tony Jaa, che combatta contro il gigantesco Nathan Jones oppure contro una trentina di teppistelli armati di bici e pattini. Uno come Tony Jaa (che non per niente "sbatte" letteralmente contro Jackie Chan all’aeroporto di Sidney) dobbiamo tenercelo stretto. Quando non mettere delle icone pagane del suo corpo danzante nella nostra cameretta, e adorarlo come un dio.

[FEFF8]
Chi ben comincia

ovvero due film da cui sono scappato dopo 10 minuti
la direzione si dissocia da ogni responsabilità su sì tanto affrettati
giudizi

Superkid,
CHA Chuen-yee, 2006,
action comedy drama, International Festival Premiere

Divertimento per bambini che sembrerebbe cerebroleso anche a un embrione. Al primo vagito di suoni da cartoon in un combattimento di arti marziali del reparto pediatria, ho avuto bisogno di aria. Ho già chiamato il mio analista per una pronta rimozione. Il messaggio sarebbe: quanto è brutto essere intelligenti e soli, e quanto è bello avere tanti amici. Cha, chiunque sia, è un idiota.

Hello Yasothorn,
Petchthai WONGKAMLAO, 2005,
retro-musical-comedy, International Festival Premiere

Fotografia e scenografie iperrealiste e coloratissime, in omaggio al cinema-thai-che-fu (?). Null’altro. L’attore e regista è la spalla di Tony Jaa in Ong Bak, ma il suo cazzuto amichetto avrebbe dovuto dargli una gomitata sul cranio ai tempi. Una scemenza tale che in confronto Joyce Bernal è Charlie Chaplin. E non fatevi ingannare dalle preview: non fa nemmeno ridere. Vanziniano.

[FEFF8]
Ghost of Valentine,

Yuthlert SIPPAPAK, 2006,
Horror Day, International Festival Premiere

Il regista thailandese che l’anno scorso mi fece divertire parecchio con l’assurdo Pattaya Maniac, quest’anno apre l’horror day. E a discapito di una locandina che, campeggiante da giorni nell’atrio del Teatro, aveva incuriosito tutti e fatto "sperare" in un film incontrollato e delirante, Ghost of Valentine è invece un horror abbastanza tradizionale, o meglio abbastanza in linea con le tendenze globali. Con l’aggiunta ovviamente di un po’ di cultura thai (filosofia del karma e spiriti dalle forme alquanto bizzare). Nonostante gli elementi per urlare al ridicolo ci siano tutti (effetti speciali cheap compresi), Sippapak dimostra un inaspettato senso della misura e il film – nonostante sia faticosetto, soprattutto alle nove di mattina – si regge in piedi con notevole equilibrio, arrivando persino a livelli più che discreti proprio nel pericolosissimo finale iper-melò.

[FEFF8]
M.A.I.D.,
Yongyoot THONGKONGTOON, 2004,
spy comedy, European Premiere

Il regista di The iron ladies continua il suo percorso fatto di film del peso dell’aria: dopo aver saccheggiato la sport comedy con i suoi due fortunatissimi film sui pallavolisti transgender, Thongkongtoon si rivolge all’action comedy, sfornando un film che parte maluccio – con imbarazzanti gag da cartoon – ma che migliora procedento e che comunque si fa guardare per tutta la sua durata senza eccessivi traumi nervosi. Anche se si perde tutta la comicità verbale – doppi sensi e giochi di parole intraducibili nei sottotitoli – mentre passa alla perfezione il buon ritmo e le intepretazioni del cast, non si può negare che sia sommariamente divertente. Già pronto in potenza per le videoteche italiane, verrà inevitabilmente massacrato in fase di doppiaggio.

[FEFF8]
Dear Dakanda,
Khomkrit TREEWIMOL, 2005,
youth melodrama, International Festival Premiere

Dear Dakanda è un film thailandese, eppure non è ridicolo, né esagerato, né macchiettistico. Non ci sono sparatorie, non si danno gomitate sulla testa, non si imita Hong Kong, non si imita il giappone. Dear Dakanda è un film thailandese che vuole solo raccontare la sua storia, una storia d’amore tra ragazzi e di passaggio all’età adulta, come tante altre, e lo fa con i mezzi e con i linguaggi più semplici. Un film leggerissimo, magari banale e senza personalità – a parte la trovata narrativa dei due "tempi" narrativi, passato e presente, che tendono ad incontrarsi – ma almeno sincero e innegabilmente piacevole.

The iron ladies (Satree lek)
di Youngyooth Thongkonthun, 2000

Quattro pallavolisti gay (più un transessuale, nonché drag-queen), messi ai margini della società e del mondo dello sport, decidono con l’aiuto di una coach lesbica e di un capitano carino e talentuoso ma dubbioso, di mettere insieme una squadra di pallavolo per sfidare gli "uomini veri" e dimostrare il loro valore, in campo e nella vita.

Uno dei pochissimi film thailandesi arrivati nelle sale italiane (con l’ausilio del Gender Bender di Bologna) è in effetti abbastanza masticabile: da commedia sportiva, segue tutti ma proprio tutti i cliché della commedia sportiva, e ne ribadisce esplicitamente anche le modalità retoriche, gli stereotipi casistici, i sorrisi e le lacrimucce. Nonostante ciò, non è così male come può sembrare, grazie alla verve dei protagonisti, a una regia che scarta i tempi morti, a alcuni eccessi programmatici (come il sogno di Jung verso la fine).

Ci si aspettava forse di più, vuoi perché è un film molto chiacchierato e poco visto, vuoi per la curiosità che suscita l’ormai espanso cinema thai, ma Satree lek è un film lieve come una bolla di sapone, chiaro negli intenti e sincero nelle intenzioni (soprattutto perché la storia – vera – è quanto di più esemplare si possa trovare in una società fortemente fallocentrica), insomma fresco e piacevole. Niente di che, ma ci si diverte. I titoli di coda mostrano i veri pallavolisti, ed è quasi uno shock.

Stentiamo a credere che la bellissima Kokkorn Benjathikoon sia un uomo, ma è così.

Bangkok loco (Tawan young wan yoo)
di Pornchai Hongrattanaporn, 2004

Come si può solo concepire una pellicola che è allo stesso tempo un film di arti marziali, un thriller comico e un musical kitsch? Questo conferma la vitalità della cinematografia thailandese che, se pur non produce capolavori (ancora, e almeno per quanto ho visto), ha dalla sua una libertà espressiva che altrove si trova ormai di rado. Bangkok loco è, a tutti gli effetti, una cretinata. Ok. E mettetelo lì, da parte. Però nel concepirlo, l’innominabile regista ha dimostrato con talento e spregiudicatezza che a volte quello che importa è la coerenza tra idee e azione.

E così, dimentichiamo la stupidità del concetto, e ci tuffiamo volentieri in un iperattivo trip demenziale, tra maestri divini e ringostarr infernali, effetti digitali impensabili, piccoli batteristi con tutine da brucelee, canzoni di commovenza infettiva, stregonerie proiettive, prati blu e enormi labbra rosa, aspiranti suicidi illuminati, una tremenda – nel bene – scena di sesso "a tema", e un commissario-panda con un cagnolino dal fiuto incredibile. Divertentissimo l’inseguimento al Luna Park, ma anche la lunga sequenza iniziale, con il bagno di sangue e la fuga nei vicoli, titoli di testa inclusi, è da capogiro. Tanto più se si pensa che Don stava nella stanza accanto.

Ovvio duello terminale bene vs. male esplosivo, e un finale tra i più assurdi immaginabili: che boiata, mio dio, ma che risate.

Il trend di questo film l’ha lanciato Ohdaesu qui. Si attendono altre vittime illustri.

Bangkok dangerous
di Danny e Oxide Pang, 1999

Per me che non avevo amato The eye, l’esordio thailandese dei Pang Brothers è stata davvero una bella sorpresa: la storia di due fratelli killer, uno ferito e incazzato con il mondo, l’altro sordomuto e gentile ma gran talento con la pistola. Entrambi con una donna da proteggere e un destino di morte scritto sul corpo. Un noir metropolitano "hongkonghese" in piena regola, in cui i Pang strizzano infatti l’occhio al miglior cinema della loro terra (permettendosi pure una trasferta omicida nell’ex-colonia) ma che non sfigura troppo al cospetto dei modelli, o almeno non sa di stantio o di ricalcatura.

I Pang dimostrano anzi di avere un talento, tecnico ma non solo, non indifferente: esagerano spesso in ideazione (come Kong che va a vendicare il fratello "accompagnato" dal fantasma di quest’ultimo) e in post-produzione (il montaggio, dei registi stessi, è complesso e stratificato), ma è forse questa assenza di "pudore" a rendere bella e/o interessante la loro opera prima: altrimenti, sequenze come quella citata – tra le più belle del film – oppure l’assurdo l’inseguimento "velocizzato" non risulterebbero così ben riuscite.

Così, Bangkok dangerous è sì un film barocco e videoclipparo, ipermontato e ipertrofico, e rumorosissimo – per quanto silenzioso come il suo protagonista – ma anche un film ricercato e curatissimo, nonché appassionante (dopo un po’ di necessaria carburazione) e disperatamente romantico. Gran bel finale.

Da molto tempo, il film è disponibile in dvd in Italia, in un’edizione più che dignitosa. Lo si trova pure a noleggio, basta un po’ di pazienza. Il doppiaggio italiano non l’ho nemmeno provato. Come al solito Gokachu ne aveva già parlato anni fa.

Last life in the universe (Ruang rak noi nid mahasan)
di Pen-Ek Ratanaruang, 2003



E’ importante premettere che il film di Ratanaruang è innegabilmente bello. Un protagonista con lo charme di Tadanabu Asano, una bellezza come Sinitta Boonyasak, la splendida fotografia del maestro Christopher Doyle, una storia che con pacato e maturo senso del dramma intenerisce, sconforta e infine commuove. In più, un bel ritmo dilatato che permette di avvicinarsi ai due personaggi con una quiete sommessa talvolta travolta da visioni (la scena del frutto e dell’incidente, quella – meravigliosa – dei libri volanti), una sottile ironia che pervade tutto il film, e un gran finale tronco.



Eppure, forse per idiosincrasia nei confronti della lingua thai (e del doppiaggio) aggiunta alla confusione dovuta alla mescolanza con il giapponese, forse per la solita scomodità fisica (modo di stare seduti, cose così) che attanaglia certe mie visioni unita alla qualità medio-bassa del "formato", o forse perché non capisco cosa ci trovino di così spassoso i fan nelle citazioni miikiane, perché il nipponismo del film è evidentissimo ma funziona molto meglio in altri momenti rispetto alle situazioni yakuza eiga semiparodistiche.



Eppure, dicevo, per una o per tutte queste ragioni, forse indipendenti dal film, ho fatto davvero una gran fatica a vederlo tutto di un fiato. Però alla fine ce l’ho fatta, e riguardando alcune foto di scena e captures (cercando la locandina, capita sempre) mi rendo conto che forse ho sbagliato io, e che quindi, presto o tardi, gli darò una seconda chance. Per, finalmente, conquistarmi.

[FEFF2005]

Art of the devil (Khon len khong)


di Tanit Jitnukul, 2004

Terzo film dell’horror day, giornata dedicata a 7 film "de paura" panasiatici, più che un film dell’orrore è un orrore di film.

Storia di vendette e stregonerie, il film di Jitnukul (nomen-omen) è girato, scritto e recitato come un soft-core, ma purtroppo non c’è nemmeno il sesso. Spaventi nemmeno a parlarne, solo qualche schifezzuola come vomitare anguille, o vomitare lamette, o vomitare altre cose che non ricordo, perché sono in piena rimozione.

Una sola bella trovata visiva (la madre che accarezza i figli morti sul divano, ripresa dall’alto) e una sola bella trovata narrativa: la bambina-fantasma albina, una anti-Sadako perfetta per tempi in cui gli schermi sono saturi di capelli lunghi neri. Il resto è più o meno spazzatura, ma nemmeno così trash da essere almeno divertente.

Orribile.

[FEFF2005]

Pattaya maniac (Sai loh fah)


di Yuthlert Sippapak, 2004

Il mio primo (e solo, per ora) midnight movie di quest’edizione è una specie di plot alla Guy Ritchie trapiantato sulle coste thailandesi di Pattaya, e i cui protagonisti ragazzi debosciati che passano le loro serate a cantare nei karaoke facendosi buttare fuori per i pessimi gusti musicali.

Due di loro sono grandi amici: uno esperto di amuleti timido e sensibile, l’altro sfacciato e apparentemente idiota, ma una vera miniera di aforismi colti. Ovviamente ci si mette la (s)fortuna: un innamoramento sbagliato, una piccola truffa, un rapimento, milioni di bath che passano di mano in mano, fino al ricongiungimento finale.

Canzonette stonate, inseguimenti e spari, bellezze impressionanti e dialoghi surreali: Sippapak non ha paura di mescolare i generi, e cogliendo a destra a manca da quello che una volta qualcuno chiamava "cinema tarantinato" (e quindi un po’ fuori tempo massimo), azzecca un piccolo film stralunato e divertente, pieno di trovate e con un ritmo invidiabile.

Lungi dall’essere il miglior film del festival, né in assoluto né tra quelli che ho visto qui, è il mio piccolo cult personale.

[FEFF2005]

Zee-oui


di Nida Sudasna e Buranee Ratchaiboon, 2004

La storia di un serial killer di bambini nella thailandia degli anni ’50 è alquanto sorprendente: nulla di nuovo o particolarmente originale, ma ben venga un film capace di sbattere in questo la violenza del mondo e della Storia senza mezzi termini e mezze misure, e di scioccare un pubblico non abituato a una tale franchezza.

Inusuale anche lo sguardo sulla psiche dell’assassino: si tende ad un’empatia che sarebbe impensabile in un film occidentale, ma mai alla giustificazione. E il fine del film è comunque quello di analizzare i modi in cui il marcio della società, soprattutto la guerra fratricida e il razzismo nei confronti del diverso (Zee-oui è un cinese in Thailandia), per arrivare alle superstizioni cannibalistiche, possa davvero crere un mostro. Punto di vista alquanto discutibile, ma espresso con vigore e con un talento visivo sopra la media.

Peccato per la parte dedicata alla giornalista fichissima: sembra uscita da un soft-core patinato di vent’anni fa, i suoi traumi di perdita non interessano a nessuno, e l’impressione di posticcio infastidisce.

Il primo finale sa comunque buttare anche un velo di dubbio sul valore della verità di cacce alle streghe e di capri espiatori, e il finale vero (che spiega l’ossessione del protagonista per il brodino di cuore umano) è una sana e vigorosa mazzata nello stomaco.

Three (San geng)
di Registi Vari, 2002

Per qualche misterioso intervento divino è comparso nelle videoteche italiane questo film a episodi, celebre coproduzione tra Corea, Thailandia e Hong Kong. Distribuisce Eagle Pictures: vuoi vedere che prima o poi metteranno fuori anche Three extremes? I tre segmenti non hanno quasi nulla in comune, quindi ne parlo separatamente.

Memories, di Kim Ji-woon (Corea del sud)
Un piccolo esercizio di stile (ma anche qualcosa di più), opera del regista che avrebbe poi realizzato Two Sisters, a cui la breve durata serve per sperimentare e giocare un po’ con i linguaggi, e per trasmettere una vicenda sull’abbandono e sulla memoria. Non propriamente horror, ma davvero pauroso, se si è predisposti: interessato in modo quasi teorico alle meccaniche dello spavento (l’inizio fa davvero saltare sulla sedia), Kim costruisce una tensione palpabile che resta per tutto il film e che alla fine si scioglie in un sorriso amaro. Bene, bravo, bis.

The wheel, di Nonzee Nimibutr (Thailandia)
Il segmento thailandese, a dispetto delle mie aspettative ricolme di curiosità, è quello che mi è piaciuto meno. Anzi, posso dire che non mi sia piaciuto. Nimibutr, produttore proficuo, e regista del Jan Dara di cui tanto male si è detto (ma mi riservo di vederlo comunque, visto che anch’esso è uscito da poco in dvd) costruisce una storia che mescola tradizione thai e ghost-cinema contemporaneo, annoiando però troppo spesso, o addirittura non suscitando alcun interesse: un dramma, vista la durata esigua. Il finale ricompatta il tutto, reimmette l’opera in un binario circolare, e azzecca qualche "visione": niente male. Peccato.

Going home, di Peter Ho-sun Chan (Hong Kong)
Nonostante il primo segmento sia molto bello, è questa la vera perla del trittico. Il segmento di Chan segue un binario e poi ne imbocca un altro, all’improvviso; sembra quindi prendere una sbandata narrativa, che è però solo apparente. Al di sotto di una bizzarra storia di paure infantili, ossessione necrofila, e medicina cinese, il risultato è una storia struggente e dolcissima sull’amore che sconfigge il dolore, la malattia, la morte. Peter Chan mostra una sensibilità incredibile e un senso notevole sia del dettaglio che dell’insieme. E poi fotografa Christopher Doyle: non serve dire altro. Un gioiellino.

Ong-Bak
di Prachya Pinkaew, 2004

Cinema dal peso dell’aria, certo, e di un’ingenuità sconcertante. Ma non è detto sia per forza un male. La storia del giovane che ricerca la statua trafugata, come metafora di un conflitto tra le tradizioni buddhiste e una modernità individualista fino all’autoidolatria, è comunque un pretesto per le impressionanti esibizioni di Tony Jaa. Per di più, Pinkaew è capace persino di sopravvalutarsi, nonostante si vedano bene le sue radici video.

Ma Tony Jaa è una vera forza della natura, e ogni volta che si muove compie (veri) miracoli. Il masochismo del corpo scenico "alla Jackie Chan" arriva a vette forse mai raggiunte: impossibile non divertirsi, almeno nella seconda parte.

E comunque la si veda, l’inseguimento "ad ostacoli" tra i vicoli della città (con Perttary Wongkamlao a far da contraccolpo comico ai "voli" di Jaa) è uno spettacolo di puro divertimento, da vedere e rivedere, degno dei capolavori di questo genere.

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