C’era una volta in Anatolia – Once upon a time in Anatolia (Bir zamanlar Anadolu’da)
di Nuri Bilge Ceylan, 2011
Un dottore che viene dalla città, un pubblico ministero con problemi alla prostata, il capo della polizia e alcuni membri delle forze dell’ordine accompagnano nella steppa dell’Anatolia Centrale due fratelli ammanettati, rei confessi, alla ricerca del corpo dell’uomo che hanno ucciso ubriachi. A causa del buio e dei postumi i due però non riescono a riconoscere il luogo dove l’hanno seppellito. Comincia così il film del regista turco Nuri Bilge Ceylan, vincitore del Gran Prix a Cannes (pari merito con i Dardenne), ma è evidente che siamo distanti dai meccanismi del cinema investigativo: le auto si muovono lentamente in uno scenario buio e inospitale, i personaggi si fermano di tappa in tappa parlando di argomenti seri come faceti, fino a quando un dialogo tra il medico e il procuratore spalanca un’inquietante verità sulla vita di quest’ultimo. Aiutato dalla straordinaria fotografia di Gökhan Tiryaki, davvero una delle più ipnotiche e incredibili degli ultimi tempi, Ceylan gira con uno stile formidabile e controllatissimo (un esempio: l’inquadratura che si stringe lentamente sul viso sconvolto dell’omicida, seduto nei posti dietro dell’auto) che a volte sembra avere l’ambizione di avvicinarsi, almeno nei primi due atti, a un’idea di cinema puro: l’ingresso della figlia del sindaco, seguita dagli sguardi increduli dei personaggi quasi catatonici, increduli di fronte alla improvvisa, semplice quanto violenta bellezza, è una delle scene più intense degli ultimi tempi – ma il film è pieno di momenti rivelatori, silenziosi e scioccanti, in cui sono l’immagine e la natura a fare da commento ai turbamenti dell’umanità, come lampi nel buio che rivelano minacciosi volti incisi nella roccia. Nell’ultima parte poi il film si appropria di un punto di vista preciso, quello del medico, concentrandosi sul contrasto tra l’idealismo morente del dottore e la sua graduale, tragica rivelazione di una cecità morale che porta a una duplice perdita dell’innocenza. Un film bellissimo che, nonostante la durata e il ritmo indolente, chiede solo un po’ di impegno – e restituisce dieci volte tanto.