Venezia2006

63ma Mostra del Cinema di Venezia
Un riepilogo

Tutti i post dalla Mostra

VENEZIA 63 – IN CONCORSO
Darren ARONOFSKY – The Fountain - Usa
Allen COULTER – Hollywoodland – Usa
Alfonso CUARÓN – Children of Men – Gran Bretagna, Usa
Brian DE PALMA – The Black Dahlia – Usa
JIA Zhang-Ke – Sanxia haoren (Still Life) – Cina
KON Satoshi – Paprika – Giappone
Joachim LAFOSSE – Nue propriété – Belgio, Lussemburgo, Francia
ÔTOMO Katsuhiro – Mushishi – Giappone
Johnnie TO – Fangzhu (Exiled) – Hong Kong, Cina
TSAI Ming-Liang – Hei yanquan (I don’t want to sleep alone) – Taiwan, Francia, Austria
Paul VERHOEVEN – Zwartboek – Paesi Bassi, Belgio, Germania, Gran Bretagna
Apichatpong WEERASETHAKUL – Sang sattawat (Syndromes And A Century) – Tailandia, Francia, Austria

VENEZIA 63 – FUORI CONCORSO
FENG Xiaogang – Yeyan (The banquet) – Cina, Hong Kong
David FRANKEL – Devil Wears Prada – Usa
David LYNCH – INLAND EMPIRE – Usa
MIYAZAKI Goro – Gedo senki (Tales from Earthsea) – Giappone

Fuori Concorso Mezzanotte
FAZLI Bayram – Baaz ham sib daari? (Have you another apple?) – Iran
KUROSAWA Kiyoshi – Sakebi (Retribution) – Giappone
RYOO Seung-wan – Jakpae (The City of Violence) – Corea del Sud

ORIZZONTI
AOYAMA Shinji – Koorogi – Giappone
HO Yuhang – Taiyang yu (Rain Dogs) – Malesia, Hong Kong
David LEAF, John SCHEINFELD – The U.S. vs. John Lennon – Usa
LIU Jie – Mabei shang de fating (Courthouse on the Horseback) – Cina
Garin NUGROHO – Opera Jawa – Indonesia, Austria
OSHII Mamoru – Tachiguishi retsuden (The amazing lives of the Fast Food Grifters) – Giappone
Mimmo PALADINO – Quijote – Italia

Eventi speciali Orizzonti

Giuseppe BERTOLUCCI – Pasolini prossimo nostro – Italia, Francia
Daniele VICARI – Il mio paese – Italia

GIORNATE DEGLI AUTORI
Faouzi BENSAIDI – WWW, What a Wonderful World – Marocco, Francia, Germarnia
Jesper GANSLANDT – Falkenberg Farewell – Svezia, Danimarca
Jean-Pascal HATTU – 7 Ans – Francia
Diego LERMAN – Mientras tanto – Argentina, Francia
Gianfranco QUATTRINI – Chicha tu madre – Perù, Argentina
Daniel SANCHEZ AREVALO – Azul oscuro casi negro – Spagna
Jorge SANCHEZ-CABEZUDO – La noche de los girasoles – Spagna, Francia, Portogallo
Christoffer BOE – Offscreen – Danimarca
Jessica WOODWORTH e Peter BROSENS – Khadak – Belgio, Germania, Olanda

SETTIMANA DELLA CRITICA
Jean-Pierre DARROUSSIN – Le pressentiment – Francia
Grzegorz LEWANDOWSKI – Hyena – Polonia
Noël MITRANI – Sur la trace d’Igor Rizzi – Canada

LA SIGLA

[un souvenir]

[giorni dell'abbandono]

No, l’ultimo giorno della
Mostra non si può affrontare. Hai passato 10 giorni tra le chiacchiere, le code, gli spintoni, le ascelle (altrui), le notti brevissime, le mattine nebbiose, le chiacchiere, quella tizia che è sempre in coda per la Sala Grande e non fa che urlare, i vip, i semi-vip, i giornalisti, i semi-giornalisti, , le chiacchiere, le montagne di possessori di blog.
No, l’undicesimo giorno no, vuoi solo gironzolare per il Lido e cazzeggiare: dei film della Mostraccia sei stufo marcio, e per di più la sera prima hai visto Lynch e sei satollo. Questo tanto per spiegare come mai l’ultimo giorno non sia riuscito a vedere nemmeno un film intero che sia uno. Dunque, ecco:

Si comincia la mattina con Mushishi (Bugmaster) di Otomo Katsuhiro. Un’ora (circa la metà del film) passata a sonnecchiare e sbadigliare, fino al momento in cui ho deciso di lasciare mestamente la sala. Il film avrà pure le sue colpe, ma mi assumo anche le mie: d’altra parte, è impossibile non rimanere affascinati dall’uso poetico e non invasivo degli splendidi effetti speciali digitali, e nei momenti di veglia ricordo di aver visto immagini di incredibile bellezza. Ma Akira lasciatelo dov’è.

Segue la visione di Pasolini Prossimo Nostro di Giuseppe Bertolucci. E va bene, questo l’ho visto tutto intero, ma più che di un film si tratta di un montaggio (fatto così-così) di materiali su Salò (foto di scena, interviste, backstage) come piace tanto fare al Bertolucci-jr di recente. Belle parole, per carità, ma bah.

Quijote di Mimmo Paladino è un film che Paladino ha trascinato chissà come a fare l’evento speciale a Venezia, sotto la spinta di un patrocinatore eccellente come la Regione Campania. La quale si dovrebbe solo vergognare di aver accettato e promosso un prodotto simile, vergognarsi di averci propinato questo Matthew Barney de noantri, vergognarsi di averci speso anche – si suppone – un botto di soldi. Ma ovviamente, cara Regione, caro Mimmo, questo è tutto uno scherzo: lungi da me parlare davvero di questo film visto che sono scappato a gambe levate dopo 10/12 minuti. Eh, magari poi diventava bellissimo, o semplicemente diventava cinema. Eh, chi lo sa.

Chiude la giornata, dopo le imbarazzanti e improbabili premiazioni collaterali (con perle assolute come il premio degli atei agnostici integralisti al Arevalo il quale ridendo dice "veramente la mia famiglia è molto cattolica", oppure la femminista che sale sul palco con uno scarabocchio e dice "questa è una mia scultura, ma non la assegno a nessuno perché il cazzo domina" o qualcosa del genere), è il momento di quelle ufficiali. Non commento, non posso e non voglio, perché qualsiasi giuria che dia un premio prestigioso come la Coppa Volpi a un tronco di legno con una bocca e un pene non merita nemmeno un mio commento, e perché la maggior parte delle cose premiate fanno parte di quella metà di film in Concorso che non sono riuscito a vedere. Come al solito.

Però alla ri-proiezione del Leone d’Oro Sanxia haoren (Still Life) di Jia Zhang-Ke ci sono andato eccome. Volevo vedere di persona, toccare con mano, capire bene, come questo filmino cinese apparso a sorpresa con la benedizione di San Marco Muller, e che – giuro – non aveva visto quasi nessuno dei miei conoscenti, avesse avuto le carte per battere i miei favoriti tra quelli da me visti (To, Kon, De Palma: tutti e tre film perdenti in partenza) o i favoriti di tutti gli altri (Frears, Resnais, Crialese: tutti e tre film che ho perso). In effetti il film è decisamente bello, e soprattutto molto interessante nel suo mescolare documentario (la questione della diga), finzione (i personaggi in cerca del proprio passato) e accenni stranianti (gli UFO). Ma dopo un’ora, esteticamente soddisfacente nonostante il digitalissimo, ma davvero faticosissima, me ne sono andato. Con un po’ di rimpianto: ma un film così, alla fine dell’ultima giornata del Festival, no, non si poteva affrontare.

INLAND EMPIRE, David Lynch 2006

INLAND EMPIRE
di David Lynch
Fuori Concorso

Il nuovo film di uno dei più grandi maestri del cinema americano, ora Leone d’Oro alla carriera, va al di là di ogni più rosea aspettativa, e soprattutto sfata le paure legate alla scelta del regista di liberarsi volutamente della questione formale girando in un digitale a tratti davvero rozzo (ma è evidente che questo è l’unico modo in cui questo film poteva essere girato): INLAND EMPIRE è il cinema di Lynch, anzi, è tutto il cinema americano, anzi, è tutto il cinema che scoppia ed esplode frantumandosi in molteplici frammenti, che vanno a ricomporre in una sorta di caos razionalizzato una storia di (lo diranno tutti, ma di più è impossibile rivelare e tantomeno raccontare) “cinema e vita, sogno e realtà, passato e presente”, in cui il set e la vita si mescolano con una tale geniale e perversa complessità da far sembrare il magnifico Mulholland Drive un’opera preparatoria. E nel finale questa tesi non sembra nemmeno più così campata in aria. Ma al di là di ogni possibile interpretazione, di quelle che abbiamo già fatto e di quelle che faremo alla prossima attesissima visione (sempre che, come si vocifera, la BIM non faccia tagliare questo film immenso, mastodontico e invendibile), INLAND EMPIRE è anche e soprattutto un’esperienza cinematografica immensa, quasi senza precedenti, che fa impallidire qualunque cosa sia potuta apparire sullo schermo in questa Mostra, non solo per una delle orette – quella centrale – più spaventose della mia vita di spettatore, ma più in generale per quel senso di angoscia che ti stringe lo stomaco, e che ti farebbe urlare o scoppiare in lacrime, che ti farebbe rimanere in quella stanza tutta la notte, con quelle donne, in quella sala dalle luci intermittenti, a danzare. Quel senso di inesplicabile inquietante gioiosa irrequietezza che si prova soltanto di fronte ai Veri Capolavori.

Il mio paese
di Daniele Vicari
Evento Speciale Orizzonti

Prendendo spunto dal documentario L’italia non è un paese povero (Joris Ivens, 1960, commissionato da Enrico Mattei), dopo due lungometraggi abbastanza apprezzati Vicari passa al documentario, attraversando l’italia da Gela a Marghera, cercando di raccontare il presente, il futuro e le contraddizioni della realtà industriale contemporanea nel nostro paese, tra il baratro dei fondi per la ricerca, il conflitto tra necessità industriali e le proteste ambientali, eccetera. Ottime intenzioni non fanno però un ottimo film: Il mio paese è purtroppo un documentario che nella continua ricerca della situazione e del montaggetto creativo, si perde in un bicchier d’acqua creando sequenze di bruttezza imbarazzante, e più in generale un senso di noia davvero penetrante. E pensare che ci sarebbe voluto così poco.

Koorogi (Crickets)
di Aoyama Shinji
Orizzonti

Il film del regista giapponese, normalmente abbonato al festival di Cannes, storia di un anziano muto, cieco e "maialone sbrodolone" (grazie al Bada per la definizione) e della sua badante, seppure non fosse tra le cose peggiori viste in questi giorni alla Mostra, mi ha fatto perdere la pazienza dopo una mezz’ora, e ho lasciato la sala. Meglio così: ho scoperto che l’ora successiva era molto divertente, se raccontata da chi aveva avuto il coraggio di rimanere tutto il tempo.

Baaz ham sib daari? (Have you another apple?)
di Bayram Fazli
Fuori concorso

Esiste un cinema iraniano d’evasione e di intrattenimento? Ovviamente sì, ma quanti hanno avuto l’occasione di vederne degli esemplari? Dato che i festival europei non si cagano più i settecento epigoni di Kiarostami, ecco che nelle sezioni mezzanottiane spuntano prodotti come il film di Fazli. Sorta di adventure desertico alla Mad Max dai risvolti comico-surreali, sicuramente allegorico – anche se interpretarla è un altro discorso – ma dal respiro purtroppo cortissimo (dopo un’oretta di smette di ridere e gli occhietti si chiudono), Have you another apple? è un divertissement che sembra un film italiano di serie B di almeno trent’anni fa, ma almeno è pieno di carrelli velocissimi, situazioni assurde e buffissime, e, in barba al cinema mediorientale più noto dalle nostre parti, di gente che corre: a piedi, in moto, in cavallo. Poco più che una curiosità, ma ci si diverte.

Nue propriété
di Joachim Lafosse
Venezia 63 – Concorso

Il film del regista belga Lafosse, rifacendosi ad una struttura basata sullo shock che ricorda Haneke (ma senza possederne l’eccellente rigore), e con una messa in scena che sembra fissare sul cavalletto l’impianto mobilista dei Dardenne (ma senza riuscire a commuovere a tal punto), racconta un dramma familiare con un ammirevole piglio realistico, semplicissimo eppure coerente, e dalla funzionalità ancora più impressionante grazie alle strepitose interpretazioni della Huppert e di entrambi i fratelli Renier sui piani lunghi. Impossibile dire di più evitando odiatissimi spoiler: ma è davvero magnifica la lunga sequenza in cui Jérémie Renier in primo piano ansima nascosto dietro un albero, mentre lontano, sullo sfondo, le macchine arrivano nel vialetto della sua casa.

Devil wears Prada
di David Frankel
Fuori concorso

Il diavolo veste Prada è un film rassicurante, perché è una di quelle commedie statunitensi in cui in ogni momento ipotizzi che cosa potrà succedere cinque minuti dopo (a volte persino mezz’ora o un’ora dopo), e ciò puntualmente accade. Ovviamente, questo non va a suo vantaggio, come non ci va la struttura trita e ritrita – ascesa caduta ascesa? emmobbasta – e il modo in cui l’una e l’altra parte in causa, l’alta moda e gli "amici veri" vengono ritratti, da principio con la fintissima malignità del titolo mentre alla fine – come da copione – viene data una possibilità, e un’anima, a tutti. Il diavolo, si dice, non è così brutto come lo si dipinge. Al di là di tutto ciò, e di altro che non sto a dire, che rende il film relativamente abbietto sotto il profilo morale (e poi, personalmente, gli "amici veri" li avrei massacrati di botte), quest’opera lieve lieve e confezionata alla perfezione per il boom di botteghino è risollevata – e non poco – da una scrittura molto fresca, da alcune perle di dialogo ("I love my job, I love my job"), e soprattutto da un cast favoloso: inchini pubblici e ovazioni per Emily Blunt e Stanley Tucci.

Hiena
di Grzegorz Lewandowski
Settimana della critica

Un horror polacco alla Settimana della Critica? Eh, sì. Purtroppo, sì. Il film di Lewandowski inizia pure bene, alternando il fascino infantile dello storytelling alla grigia e deprimente realtà da cui si vuole fuggire (mai sentita questa?), ma esaurisce il suo potenziale dopo una decina o una quindicina di minuti al massimo. Da lì in poi, gli tocca ripetersi fino alla nausea. La storia e il tono si rifanno alle favole tradizionali e all’horror occidentale, ma invece di riproporne la linearità si confonde tutto con una trama ellittica: tra immaginazione, paranoie, e provocazioni narrative fini a se stesse, non si capisce un’acca. A meno di concentrarsi bene, ma via, chi ce lo fa fare?

Però: ex-aequo con la geniale scena della ciotola di Kurosawa, la scena del caffé vince il premio come "miglior trasalimento horrorifico collettivo" di Venezia 63.

Mabei shang de fating (Courthouse on the horseback)
di Liu Jie
Orizzonti

Si sa, quando un film della Cina continentale non mi fa cadere le braccia già sono contento: in questo caso, visto che il film pur essendo ambientato nelle montagne periferiche (e quindi a odore-fuffa festivaliera) è leggero e piacevolissimo, a tratti persino divertente anche se sempre triste e malinconico, esco dalla sala davvero contento. Un film che vuole parlare di molte cose, del passare del tempo, del progresso e della storia, dell’impossibilità di amare e della morte, ma lo fa con grande delicatezza e pudore.

Fangzhu (Exiled)
di Johnnie To
Venezia 63 – Concorso

La prima volta del regista hongkonghese in concorso a Venezia, sorta di sequel del leggendario The Mission, è anche uno dei film più belli di questa Mostra: una rappresentazione esaltante dello scheletro puro, dell’ossatura del cinema di Johnnie To. Grandissimi attori, nessuno escluso, tra cui un Anothy Wong semi-rasato; un’ironia diffusa, come quando prende in giro la sua fissazione con il caso; una manciata di sequenze che escono dallo schermo per immergersi direttamente nel culto: l’inizio leoniano, l’incredibile inquadratura finale, sparatorie che coinvolgono porte, tende e una lattina di redbull. Un grandissimo film, nella composizione, nel montaggio, nei dettagli, che siano un rivolo di sangue o una croce su una moneta. Emozionante ed essenziale: uno dei migliori To degli ultimi anni, uno dei migliori To di sempre.

Esco dalla sala saltando come un grillo e urlando "leone d’oro leone d’oro", e incontro il cast, tutti ma proprio tutti, intenti a farsi intervistare. Sì, ho una foto con Anthony Wong. E non solo.

Taiyang yu (Rain dogs)
di Ho Yuhang
Orizzonti

Mancava tanto così perché fosse anche decente, il piccolo film di Ho: e invece è solo onesto. Perché non ha la capacità nemmeno più elementare di catturare l’attenzione del pubblico, lasciando fuoricampo le poche cose interessanti, e suscitando interesse solo quando sbatte in colonna sonora nel modo più facilone Motherless child. A questo punto, poteva farlo più spesso, perché per il resto si sonnecchia e ci si dice sottovoce "speriamo finisca in fretta che voglio un caffé". Assolutamente insignificante.

Tachiguishi retsuden (The amazing lives of the fast food grifters)
di Mamoru Oshii
Orizzonti

Se penso alle faticosissime corse che ho fatto stamattina per arrivare in tempo per la sala, non mi capacito. Entro a film iniziato (cosa che non faccio mai, ma a Venezia si fa di necessità virtù) e mi trovo davanti l’intro di un film potenzialmente interessante. Peccato che questa intro duri un’ora e quarantacinque. Incredibile che il regista dei Ghost in the shell abbia fatto una roba simile: animazioni bidimensionali pupazzesche tipo primo-Gilliam in un mockumentary che racconta il Giappone del dopoguerra attraverso le figure di "scroccatori di fast-food". Ma scherziamo? Magari: se il film fosse davvero un lungo scherzo, forse ci sarebbe stato da divertirsi, anche se comunque senza entusiasmi. Invece Oshii, sotto i suoi nonsense che non fanno ridere (tranne qualche sparuto caso, le risate si risparmiano, eccome), si prende estremamente sul serio, e ci crede, ci crede fino in fondo. Vallo a capire. La narrazione monotonissima chiude il quadro di un film inspiegabile, mortalmente noioso, e su cui vorrei passar sopra come ad una curiosità morbosetta, in attesa del prossimo grande film.

Opera Jawa
di Garin Nugrowo
Orizzonti

La "dormitina" è un classico della Mostra, ma per ora avevo resistito anche al peggio. Non ce l’ho fatta con questo "musical" indonesiano tra virgolette. Dopo qualche minuto di questi lamenti mantra, immagini patinate e cesti di vimini a forma di cialda, sono crollato tra le braccia di Morfeo. Mi sono risvegliato mentre un uomo infilava la testa sotto la gonna di una tipa, e lì ho detto "no" e sono uscito dal cinema, lamentandomi pure io, già che c’ero. Magari era bellissimo, chi lo sa. Mmh, no. Chiedo venia ai puristi.

Children of men
di Alfonso Cuaron
Venezia 63 – Concorso

Nonostante da queste parti sia stato (non da tutti, eh, ma da molti) massacrato, sia dalla critica che nelle abituali conversazioni del Lido, il film di Cuaron, che racconta una distopia abbastanza tipica – un mondo allo sfascio a causa della fine della fertilità – con un taglio visivo che nasconde gli effetti speciali di montaggio al di sotto di un uso quasi esclusivo di camera a mano e infiniti, spettacolari, a volte inimmaginabili piani-sequenza, è un prodotto di grande intrattenimento, forte e compiuto. E non solo: evitando di parlare solo di terrorismo, argomento ben più modaiolo e che qui si sarebbe incastrato alla perfezione (vedi la terrificante sequenza iniziale), preferisce concentrarsi sui rischi del panico collettivo nei confronti del diverso e dell’alieno, sulla xenofobia di massa, sul degrado delle politiche di immigrazione sui "centri di accoglienza", rappresentando una "Guantanamo del futuro" che mette davvero paura. Children of men non piacerà a tutti nemmeno quando sbarcherà su "altri lidi", forse perché si appropria di elementi da cinema d’autore nella realizzazione di un film che – nonostante la cupa ambientazione londinese – più mainstream non si può (anche se più duro del solito, vedi la fine che fanno la maggior parte dei personaggi, o il modo in cui vengono ritratti sia i "potenti" che i "resistenti"), o forse perché si fa tentare da qualche innocua banalità (il personaggio del meraviglioso Michael Caine è il solito ex sessantottino che si fa le canne, il rasta nevrotico non ne parliamo), ma resta comunque un film tanto furbo quanto bello, e grazie alla formidabile performance tecnica di Cuaron (già citata, ma in questo caso potremmo non parlare d’altro per ore) è uno dei più emozionanti visti in questi giorni al Lido.

WWW, What a Wonderful World
Di Faouzi Bensaidi
Giornate degli autori

Seppure i pochissimi film veramente belli e davvero degni di questa Mostra per ora appartengano alle sezioni principali, le GDA si riservano quelli più curiosi e sorprendenti. Come WWW, che a dispetto di un titolo orrendo, è un’operetta marocchina davvero ben girata e fotografata, molto grafica (pure troppo grafica, a tratti), eclettica e variegata, e tanto naif da far tenerezza. Balletti di macchine e di voci, amori telefonici e cortei che invadono la città deserta, un finale tragico e improvviso: un filmetto da niente, ma potenzialmente adorabile.

The fountain
di Darren Aronofsky
Venezia 63 – Concorso

Si può dire "puttanata"? Facciamo di no, per ora, facciamo le persone serie. The Fountain è Highlander girato da un Mel Gibson rincoglionito dai sedativi. Aronofsky è come un ingegnere a cui viene dato il budget per costruire un ponte, e si presenta anni dopo dai committenti con una casetta costruita con il Lego, e appena la poggia sulla scrivania crolla. Usciti dal film, è difficile pensare che sia stato mai realizzato un film più brutto, a memoria d’uomo. Almeno, a me non viene in mente niente. Un’ora e mezza di mescolotto misticista, primissimi piani, reiterazioni per arrivare all’ora e mezza di cui sopra, e una parte finale che, forse in onore al direttore della mostra, è la copia spiccicata di una pubblicità dello yoghurt Muller. Un film vergognosamente brutto. Anzi, che dico, una colossale, galattica puttanata.

Hei yangquan (I don’t want to sleep alone)
di Tsai Ming-Liang
Venezia 63 – Concorso

Una cosa è certa: in questa Mostra si discute un sacco, e si discute prima e dopo le proiezioni. Esempio limite, l’ultimo film del grande Tsai Ming-Liang, che a molti "tsaiani" non piacerà, figuriamoci agli altri. Ma poi, sotto sotto, il disaccordo trova dei chiari compromessi: la nuova opera del regista, per la prima volta in Malesia, è sì il suo film più difficile e quello in cui abbandona definitivamente la graficità di alcune sue opere e la cinefilia di altre (e quindi la compiacenza di un pubblico meno avvezzo alle sue lentezze), nel diventare l’affresco oscuro e affascinante di una città e di un’umanità – ancora – in preda ad un’assenza di parola, ad una ricerca imperterrita del corpo, di forme d’amore, di famiglia, di quiete, mentre il fumo delle foreste invade le case e le gole, rendendo impossibile anche l’atto più semplice, parlare, scopare, respirare, amare. Tsai ci costringe, ancora una volta, a guardare, e riguardare, e guardare ancora, in un circuito quasi pornografico che ben conosciamo, i suoi corpi silenziosi, prima con ironia e poi con angoscia, e infine – ancora una volta, e più di sempre – con speranza. Un bellissimo film, forse – anzi, più che forse – di transizione, ma capace, con le sue inquadrature fisse e tipicamente sviluppate più in profondità che in ampiezza, di una potenza visiva spesso ipnotica.

Sur la trace d’Igor Rizzi
di Noel Mitrani
Settimana della critica

E’ facile fare nomi nel caso del film di Mitrani, e fanno tutti gli stessi: Coen, Kaurismaki, eccetera. Non del tutto a torto: la neve quebechiana che illumina di bianco questo quieto thriller canadese non può ricordare, anche per l’ironia sparsa e per l’inquietudine mista a leggerezza, quella di Fargo. Ma Mitrani non è stupido, e sa vivere di vita propria, nonostante rischi di rovinare tutto ma proprio tutto con la scelta di raccontare il passato del protagonista con un’onnipresente voce off. Niente di eccezionale, ma a modo suo potrebbe diventare un piccolo caso.