Venezia2006

La noche de los girasoles
Jorge Sanzhez Cabezudo
Giornate degli autori

Un’opera prima, un film spagnolo, un film corale: sono cose che fan paura. Ma Cabezudo stupisce positivamente: con un bel cast di facce note e meno note, e utilizzando una struttura abusata ma sempre affascinante come quella dei "capitoli" (che iniziano prima della fine del capitolo precedente, permettendo di tener vivo l’interesse sullo spettatore sulla successione di domanda e risposta), racconta una storia bella e triste, semplice ma pregnante, e soprattutto nerissima, senza vincitori né alcuna speranza, sull’irreparabile declino del senso della giustizia nel mondo. Peccato per la resa visiva sacrificata e per la durata un po’ eccessiva, ma comunque abbondantemente promosso.

Sakebi (Retribution)
di Kurosawa Kiyoshi
Fuori concorso

Rischia di non piacere a nessuno, la "puntatina" di Kurosawa nel ciclo produttivo dei J-Horror Theatre. Ma anche se non ci troviamo di fronte ai suoi capolavori come Kairo o Charisma, in un tempo in cui si credeva che nessun j-horror ci avrebbe più soddisfatto, il grandissimo Kurosawa gira un film intelligente e pauroso. Lo fa magari riducendo i suoi stilemi, i suoi piani (e campi) infiniti, e abbassando le pretese metafisiche: ma il suo tocco si sente comunque, sia quando mostra di essere ancora un regista magistrale anche nelle situazioni più ritrite, sia quando è gustosamente e inusualmente scorretto (l’urlo perforante del fantasma), sia quando mostra ancora, dopo Doppelganger, sprazzi di ironica follia (il tuffo nella ciotola), che però non ci dispiacciono affatto.

Yeyan (The banquet)
di Feng Xiaogang
Fuori concorso

Che Feng non fosse un regista eccezionale, che fosse uno buono giusto per le masse inerti del nuovo pubblico cinese, lo sapevamo. Ma The banquet è il tipico film di un regista commerciale che cerca di fare l’autore a tutti i costi. Se pensavate che Hero fosse vacuo ed estetizzante, resterete a bocca aperta di fronte a questo pallosissimo Amleto mandarino con una fuoriparte Zhang Ziyi in versione perfida, in cui quando non si combatte al ralenti (e maluccio, nonostante Yuen Woo-Ping), si cammina al ralenti, si parla al ralenti. Un film al ralenti. Tremendo e massacrante, dura pure 130 minuti: io sono uscito dopo un centinaio e mi sono pure chiesto perché diavolo abbia aspettato tanto a levare le tende.

Gedo Senki (Tales from Earthsea)
di Miyazaki Goro
Fuori concorso

E’ ufficiale: il genio non si trasmette per via ereditaria. Il primo film del figlio di Miyazaki, pur essendo una produzione Ghibli e nonostante il successo in patria, è un’esperienza assolutamente da dimenticare, e da non ripetere. Goro fa di tutto per sembrare il padre in ogni singola inquadratura, ma non c’è un briciolo, nemmeno un briciolo di poesia in tutto il film. Oltre a ciò, l’animazione è molti passi indietro rispetto agli standard attuali della 2D nipponica, e non solo. Un film noiosissimo, e imperdonabilmente brutto.

Paprika
di Kon Satoshi
Venezia 63 – Concorso

Il nuovo film del regista di Tokyo Godfathers è una cavalcata irresistibile, inesauribile e coloratissima tra sogno e realtà, tra cortei di pupazzi danzanti e il rimpianto di un’adolescenza perduta. Un amico l’ha definito "il capolavoro sbagliato di un genio": una definizione azzeccatissima, perché Paprika è tanto rutilante, esagitato, senza freni e senza tregua nella realizzazione, tanto enorme nel suo avvenirismo, e tanto esplicito nella magniloquenza con cui affronta l’opposizione sogno/realtà applicata alla guerra tra tecnologia e senso del sacro, da non poter essere (o sembrare) irrisolto. Eppure è magnifico, affascinante, bellissimo, e sarà sicuramente tra i migliori film che vedremo in tutta questa questa mostra. No, non si può non amare un film così.

Offscreen
di Christoffer Boe
Giornate degli autori

Il secondo film delle GDA all’interno di una giornata sfortunatissima – come spiegato nel post precedente – è invece una delle opere migliori e sicuramente tra le più originali viste in questi giorni. La trama è semplice: Boe presta un telecamera ad un suo attore (che interpreta se stesso con una bravura e un’ironia fuori da ogni possibile spiegazione), che ne viene rapito fino alle estreme (e violente) conseguenze. Offscreen ha diviso subito, e dividerà ancora, senza possibili mezze misure. Tra chi l’ha trovato una specie di Dogma fuori tempo, spocchioso e gratuito, e chi, come me, l’ha trovato un nuovissimo e potentissimo tassello di quel metacinema che autoalimentandosi e giocando con le sue stesse perversioni sa torcere il fegato agli spettatori, e senza lasciare nemmeno un briciolo di speranza tra le maglie di quest’ossessione amorosa che diventa gradualmente e horrorificamente ossessione scopofila. Bomba.

Mientras tanto
di Diego Lerman
Giornate degli autori

Anche qui non si parla solo del film. Si avverte, eh.

Paradossi della Mostra di Venezia: tu, pirla con l’accredito verde, un giorno ti vedi 6 film e un altro giorno solo 2. E ti ci impegni, a vederne più di 2, ma non ci sono cazzi. E così, per il litigio continuo con le maschere della Sala Grande, ti perdi il film di Frears e il film di Resnais. La rotazione testicolare è al massimo, e ammetto un po’ di colpa per l’impossibilità di svegliarmi stamane a un’ora decente. Comunque.

Ti rifugi in una sala qualunque, solite accessibilissime GDA: ma il film di Lerman è peggio di quello che speravi, peggio che sbagliato, una specie di film corale con tutti i crismi del caso, con la solita struttura collettiva basata su incroci e incastri che però non funzionano quasi mai, e tantomeno sollevano il nostro interesse. Un film grigio e deprimentissimo che ti conviene dimenticare in fretta. E così è.

The city of violence, Ryu Seung-wan

Jakpae (The city of violence)
di Ryoo Seung-wan
Fuori concorso

Una delle più attese proiezioni di mezzanotte della mostra, e non solo perché The city of violence è l’unico film coreano, ma perché è il nuovo film di un regista che si è mostrato – nei suoi film precedenti No blood no tears, Arahan e il bellissimo Crying Fist – autore eclettico, versatile e intelligente. Qui, come si vociferava già da tempo, realizza un film costruito e basato quasi esclusivamente sulle botte. Indendiamoci, botte girate con una tecnica impareggiabile ed esaltante, e con un montaggio creativo e irresistibile: ma già è difficile fare un film simile senza essere tacciati di vacuità o di post-tarantinismo (uffa), figuriamoci fare un buon film. Invece Ryu, con una storia che sembra uscita da un John Woo d’annata (amicizia virile, tradimento, malinconia, vendetta) e soprattutto grazie a uno stile che si rifà allo yakuza-eiga di strada di Fukasaku (le inquadrature, la patina, le musiche) omaggiandolo quasi esplicitamente, fa persino di più. Fa un film divertentissimo, giocoso e tragico al tempo stesso, prevedibile ma senza la pretesa di non esserlo. E con una sequenza che si merita il premio di scena pop-cult del periodo (applausi a scena aperta: e chi se l’aspettava?): i due protagonisti che si imbattono in quattro bande di ragazzini violenti, conciati da giocatori di baseball e di hockey, da breakdancer, e da ragazzine liceali in divisa. Ludibrio.

Momento emotion, dopo la proiezione mi sono fatto la mia tipica foto VIP con Ryu Seung-Wan. In sala c’era anche Park Chan-wook, visibilmente divertito ma con una faccia tipo sono-in-borghese-lasciatemi-stare. Però, era possibile farsi sfuggire una foto anche con lui? No, non era possibile. Tremavo. Evviva.

Zwartboek
di Paul Verhoeven
Venezia 63 – Concorso

Ieri sera, in coda per questo film, il dott Murda ed io abbiamo avuto un breve e amichevole alterco sulla figura di Verhoeven. Errore nostro di arroganza, non concepiamo che film essenziali per la crescita di un genere come Robocop e Starship troopers siano tacciati di essere "trashate" o "cazzate". Però questo è un film con i nazisti, e non ci sono robottoni, e non ci sono neanche i mediocri intrighi e Basic Instinct o i b-errori come l’ultimo innominabile film del regista olandese, e c’entra poco anche con i primordi della sua carriera. Quindi bisogna pulire la lavagna e ricominciare da capo. Se l’esperienza americana ha insegnato a Verhoeven a gestire bene ritmi e formule del racconto classico (a partire della struttura del macro-flashback), quello che ne esce è però poco più che un film classico. Un drammone storico come tanti altri, molto pomposo e forse più violento ed esplicito della media, ma tutto sommato, per larga parte, un film con i nazisti. Da segnalare però come questo sia uno dei pochi film mainstream che io ricordi in cui la liberazione (dell’Olanda, ma credo che il discorso si possa estendere anche ad altri paesi occupati da Hitler) viene ritratta anche nelle pieghe più oscure e brutali. E per mostrare l’autorizzazione ufficiale di un plotone d’esecuzione nazista a guerra finita, o una doccia di escrementi umani mentre la gente in strada festeggia e sventola bandiere, ci vuole una bella dose di coraggio. Così come per mostrare un nazista buono (attenzione, non un nazista pentito) e la storia d’amore tra quest’ultimo e una giovane ebrea bella e perseguitata. Che sopravvive (storia vera) grazie ad una fortunona gastonica, e che ha il corpo e il volto terribilmente ipnotici di Carice Va Houten, bellissima e bravissima: la scena in cui urla tra lacrime e tremiti "quando finirà tutto questo?" mette la pelle d’oca. L’inquietudine e l’emozione insomma non manca, ma la valutazione rimbalza, da parte mia, da un apprezzamento un po’ soffocato a una totale assenza di entusiasmo.

Azul oscuro casi negro
di Daniel Sanchez Arevalo
Giornate degli autori

Entrando in sala, uno degli organizzatori delle GDA ci fa: "questo è il C.R.A.Z.Y. di quest’anno". E non aveva torto: esattamente come il film di Vallée, anche quello di Arevalo è un film generazionale terribilmente gradevole e, onestamente, a rischio ruffianeria, non senza certe esternazioni melò tipicamente spagnole. Ma evita di cascare (a meno che non ci siamo cascati noi) in errori fatti da altri film simili, anche in Italia, con qualche marcia in più: grazie ad una sceneggiatura freschissima, ad un cast di giovani talentuosi, a temi non originalissimi ma difficili da esprimere senza risultare facilotti, il film di Arevalo è piacevole, divertente e commovente. Personalmente mi ha tirato due o tre mazzate nelle gambe, in quanto ad immedesimazione, e due lacrimucce l’ho versate. Via, forse l’ho gradito oltre i suoi effettivi meriti, ma è un film che mi piacerebbe rivedere. E che rivedremo.

Le pressentiment
di Jean-Pierre Darrousin
Settimana della critica

La SIC apre i battenti ufficiali con l’opera prima di un volto noto del cinema francese. Il passaggio di consegne non porta sempre a risultati eccellenti, e Darrousin è sicuramente preoccupato più della costruzione dei personaggi e della (eccellente) recitazione, che di quella della scena. Ma poco male: il suo Le pressentiment non solo è un film fondamentalmente riuscito, e godibile anche per chi non gradisce questo cinema (ancora) così europeista, ma ha diversi pregi non indifferenti. Prima di tutto, l’ambientazione periferica. Secondo, la capacità di non utilizzare la struttura onirica del flash-forward in modo gratuito ma assolutamente in funzione del progetto filmico. Terzo, la sottile ironia sorniona della sua performance, capace di far sorridere ed esprimere il suo messaggio solo con uno sguardo. Quarto (e forse nemmeno ultimo), la capacità di scavo all’interno di un personaggio che cerca di convivere tra le "buone intenzioni" – che spesso non coincidono con il bene assoluto, si riflette – nei confronti del mondo e della gente, e l’innata ipocrisia sociale (sia nei "quartieri alti" da cui fugge che nei "quartieri bassi" in cui si ritrova) di quest’ultima. Con una visione non banale della morte, e un’occhio rivolto ad un’ultima speranza di innocenza, un’innocenza che balla saltellando sul letto, con le cuffie nelle orecchie.

Syndromes and a century, Apichatpong Weerasethakul 2006

Sang sattawat (Syndromes and a century)
di Apichatpong Weerasethakul
Venezia 63 – Concorso

Il nuovo film del regista di Tropical Malady (da me mai visto, ma solo per pigrizia: per chi lo conosce è forse inutile parlare dei ritmi – in confronto a cui Tsai Ming-Liang sembra Michael Bay) è un oggetto abbastanza bizzarro: dopo una cinquantina di minuti ambientati in una clinica della campagna thailandese, in cui si crea la base per un film, peraltro sottilissima ma molto ironica e con diverse trovate divertenti, gli stessi personaggi e situazioni simili vengono riproposti nel contesto di un moderno ospedale cittadino. Dove, ovviamente, i dottori non hanno quello stesso rapporto con le persone, e non c’è comunicazione, e c’è la tv, i telefonini, e l’alcol, e non ci sono le palme, e una volta qui era tutta campagna, e non ci sono più le mezze stagioni. “Antonionismo da esportazione”, dice ridendo il socio accanto a me. Sante parole? Gran finale d’aerobica in un parco cittadino: una sintesi? Esperimento curioso, se vogliamo, ma se il messaggio è davvero quello de Il topo di campagna e il topo di città, permettetemi, mi sento un po’ preso in giro.

Chicha tu madre
di Gianfranco Quattrini
Giornate degli autori

Dopo 20 minuti di film sudamericano così cheap, uno, per forza, si chiede se dare una chance ai restanti 70 minuti, oppure se guadagnare 70 minuti di sonno. Indovinate cosa ho scelto.

Hollywoodland
di Allen Coulter
Venezia 63 – Concorso

Allen Coulter ha fatto il regista per una quantità sterminata di serie tv: e ci rimanesse, magari. Il suo Hollywoodland non solo perde il confronto con l’altro film visto nello stesso giorno e ambientato nello stesso periodo e persino nello stesso quartiere (ovviamente The Black Dahlia) ma è proprio bruttarello. Oppure inutile, insulso, atroce: fate voi. L’unico vero mystery è come questo filmetto da pomeriggio di Canale 5 sia finito in concorso a Venezia. Adrien Brody è da prendere semplicemente a schiaffoni, fortissimi schiaffoni. Ben Affleck almeno si impegna: il che, è chiaro, non significa che ce la faccia.

Khadak
di Peter Brosens e Jessica Woodworth
Giornate degli autori

Girato da due documentaristi in Mongolia, Khadak è un film che potrebbe attirare automaticamente le simpatie di molti: una specie di storia fictionale (con accenni soprannaturali) inserita in un apparato visivo che appartiene al miglior documentario (eccellente fotografia in primis). Peccato che il film di Brosens e la Woodworth sia poco più che un film "equo e solidale" (come lo definirebbero quelli di Seconda Visione), roba da far brillare gli occhi a qualche cinefilo esoticista. In definitiva una fregatura, e per di più abbastanza noiosa. Forse non del tutto fuffa-festivaliera, però, merito di una lunga pluri-sequenza lynchana verso il finale, in cui il protagonista sfida le leggi spaziotemporali e si ritrova in una stanza minimalista dove un gruppo di giovani suona un irresistibile prog mongolo. Peccato che il film si chiuda con quella che è una vera kimkidukata, d’accatto e abbastanza spregevole.

Falkenberg Farewell
di Jesper Ganslandt
Giornate degli autori

Non che sia il massimo della leggerezza, il film del giovane Ganslandt: racconta di un gruppo di giovani svedesi, della loro ignavia, del loro far nulla quotidiano, sornione e disilluso, della loro disperazione, di un suicidio. Il tutto alternando le immagini di un’estate, quasi-dogma ma tendenzialmente impressioniste e comunque capaci di attimi di incredibile lirismo visivo, alle pagine di diario di uno di loro, orientato versa una scelta senza ritorno. Il film è imperfetto e ingenuo nel suo tentativo di essere malickiano, ma è innegabile che lasci un segno profondo: si provino, in Italia, a fare un film sui giovani così doloroso, e insieme così semplice e immediato, su una generazione senza più un futuro che non siano le chiacchiere di convenienza in un bar per rompere l’orrore del silenzio, e della morte che si avvicina. Davvero bello.

The U.S. vs. John Lennon
di David Leaf e John Scheinfield
Orizzonti

Come mi aveva anticipato Clos, incontrato ieri sera dotato di autografi da far invidia, sembra di essere tornati al Biografilm: ed in effetti il documentario di Leaf è Scheinfield è costruito attraverso le forme più televisive (pruduce VH1) e semplici che il genere ha utilizzato negli ultimi anni. Per intenderci: filmato di repertorio, intervista, filmato, intervista. Eccetera. Il film racconta la "battaglia" tra John Lennon e i gangli dell’amministrazione Nixon nel periodo in cui il cantante, probabilmente rincoglionito da quella donna orribile che si portava sempre appresso ma mosso dal suo noto solito spirito utopico-idealista e da un sense of humor incredibile e che molti hanno dimenticato, metteva a Nixon, Hoover e soci qualche bastone tra le ruote, soprattutto sulle faccende legate alla guerra in Vietnam. Insomma, probabilmente è un documentario risaputo, non del tutto esente dalla noia, elegiaco, e decisamente retorico. Ma in questo caso contano le voci in campo – più che autorevoli, tutte, da Chomsky e quella stessa donna orribile – e soprattutto i messaggi, ancora attuali oggi, in giorni in cui dovremmo levarci (in tutti i sensi) e dare alla pace una possibilità. E se c’è una storia che valeva la pena di raccontare, era questa. E se c’è una storia che avremmo sentito volentieri, era questa.

The Black Dahlia
di Brian De Palma
Venezia 63 – Concorso

Dolorosa levataccia mattutina per vedere uno dei film più attesi della mostra, quello di uno dei più grandi metteur en scene del cinema americano, Brian De Palma. Che non delude affatto le aspettative: The Black Dahlia è un noir di impressionante robustezza, truce e impietoso (inquietanti persino nei risvolti lieti che qualcuno sicuramente criticherà), eppure di innegabile piacevolezza, costruito su una storia intricata che – come spesso in Ellroy – è più l’affresco di un mondo in rovina sotto la patina dell’apparenza e del successo, che un semplice dilemma poliziesco. Saranno gli anti-barocchisti ad odiarlo, quelli che hanno sempre trovato il cinema di De Palma vuoto e formalista. Qui si crede invece, come si è spesso detto, che forma e sostanza nel cinema si compenetrino, in un modo o nell’altro. E De Palma anche in questo film, che pure non è bello come il fenomenale Femme Fatale perché si ricollega ad un universo narattivo più sedimentato e prevedibile, e che – va detto – ha qualche pecca nella gestione della trama e nella direzione degli attori, si riconferma un puro artista della forma, creando (mi si perdoni il gioco di parole) una sequenza di sequenze strabilianti, e lasciando spesso senza fiato. E’ sempre lui, le sue focali doppie, i suoi virtuosistici piano-sequenza, e una lunga scena in soggettiva dove tra l’altro – pensa te – si ride davvero di gusto alle spalle dell’ipocrisia borghese. Brian De Palma, un manuale del cinema.

Sept ans
di Jean-Pascal Hattu
Giornate degli autori

Avvertenze: questo post non parla solo del film. Anzi.

La notizia clou di quest’anno è che gli accreditati "cinema" e "promozionale", insomma noi poveri pirla dall’accredito verde, ormai conosciuti al Lido come "quei pirla con l’accredito verde" avremo vita difficile durante questa 63ma Mostra. Impossibile e ripeto impossibile entrare alle proiezioni stampa, anche con il Palalido mezzo vuoto. Lo so, perché l’ho provato sulla mia pelle per due volte. Quindi invece di parlare del film parlo di un Grande Festival Italiano che, seppur minacciato da più fronti, ormai in modo irreparabile e quasi belligerante, invece di riavvicinarsene decide di abbandonare definitivamente gli appassionati, i cinefili, i giovani, quelli che pagano e che qui si emozionano e soffrono. Insomma, quei pirla con l’accredito verde. Ci sono molte cose di cui vergognarsi in questo Festival, per ora, e il 30 Agosto è una di queste. Ma sono sicuro che Anna Praderio non ne parlerà al TG5.

Però del film voglio ugualmente parlare, anche se il tempo non è dalla mia parte in questo momento. Perché? Perché che non c’è un posto "ufficiale" in cui un uno di quei poveri pirla dall’accredito verde possa connettersi con il suo portatile senza che debba versare dei soldi alla ex azienda monopolitica della telefonia nazionale. Suona schifosa come cosa eh? Peggio. Ma passiamo al film.

Il primo film visto, è l’unico del primo giorno a causa di quanto detto sopra, è una bella sorpresa se confrontata con l’umore con cui il dott. Murda e io l’abbiamo affrontata. Che suona tipo: vediamo questo o non vediamo niente. Già. Il film però è molto, troppo europeo, tanto da far suonare più campanelli d’allarme. In Europa sappiamo produrre piccoli film solo rendendoli così secchi, asciutti, anemotici? E’ un peccato, perché la storia triste e disilusa che Hattu racconta, quella di un impossibile triangolo amoroso fatto di perversioni e voyeurismi, sa colpire direttamente allo stomaco come ormai pochissimi registi dell’area francofona sanno fare. E con tre attori bravi, onesti, capaci. Promosso per buona volontà, ma è già (più che) qualcosa.

[heading to Venice]

Tra qualche ora mi trasferirò a Venezia, o meglio al Lido, per la 63ma Mostra del Cinema, dove passerò la maggior parte del tempo da qui al prossimo 10 settembre ad attraversare metal detector, a mangiare panini con nomi di attori storpiati, a cercare Park Chan-Wook, a usare impunemente i cessi dell’Excelsior, e ad aspettare in piedi o appoggiato su una sbarra di ferro di entrare in una sala in cui probabilmente alla fine non mi faranno entrare. Il tutto ad un non-proprio-modico prezzo, perché i blogger mica li accreditano. E ci mancherebbe altro. E’ tutta passione la nostra. Passione, lacrime, sangue, e perché no, sperma.

Vi avverto: non ho idea delle possibilità di aggiornamento del blog durante la Mostra. Quello che è certo è che gli Internet Point quest’anno non avranno il mio culo. Al casinò c’è una connessione wireless, ma quelle cime dell’ufficio stampa, non solo non sanno che ci sia una connessione wireless nel casinò, ma non sanno nemmeno cosa cazzo significhi connessione wireless, figurati se sanno dirmi se io la potrò utilizzare o meno. Credo comunque che entro domani lo saprete, oppure mi ingegnerò in qualche modo. Altrimenti ci risentiamo tra una decina di giorni.


Ma potevo lasciarvi due settimane senza pregiudizi?


FRIDAY PREJUDICE non lascia, raddoppia:

questa settimana
due settimane di prejudizi
.


Ultima cosa: come si sa – o meglio, come dicono le malelingue – io sono un animale sociale. Quindi, se a mia insaputa siete a Venezia anche voi, non esitate a contattarmi usando la cara vecchia email.

E adesso andiamo in coda.